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Da dove viene e dove sta andando la Sicilia? Una traccia per una storia istituzionale plurisecolare

Il presente articolo è un capitolo del libro, in corso di stampa, dal titolo “Orgoglio Siciliano, luci e ombre dell’Autonomia e dell’Anima siciliana”, cui l’autore ha dato il presente contributo.

La Sicilia prima dello Statuto

La storia che voglio raccontare a chi leggerà questo contributo non è una storia a lieto fine. E purtroppo questa storia ci riguarda molto da vicino: è la nostra storia, ed è triste soprattutto nell’ultima fase del nostro lunghissimo percorso.

Affido a questo contributo un compito forse improbo: quello di smontare uno dei tanti luoghi comuni, uno di quelli ritenuto tanto ovvio che nessuno riflette più sullo stesso dandolo per scontato.
Il luogo comune è il seguente: la Sicilia è una regione italiana dotata di una speciale autonomia, una regione “a statuto speciale”.

Questo status fa pensare a un paese autonomo, una piccola “repubblica” nel centro del Mediterraneo, dotata di pieno autogoverno, libera e felice. Niente di meno vero, naturalmente. Certo, sulla carta, se leggiamo lo Statuto nel suo significato letterale sembrerebbe proprio così, ma qualcosa è indubbiamente andato storto, molto storto.

Per capirlo andiamo un po’ con ordine. Riavvolgiamo un po’ il nastro per capire cosa è successo realmente.
Intanto la Storia, sì, la Storia con la “S” maiuscola. Quella che ci colpisce ogni giorno intorno a noi, quella che parla di sé a ogni angolo di questa meravigliosa Terra, e che scopriamo talvolta anche dentro di noi, dentro il nostro modo ancestrale di vedere il mondo e di pensare. Ci appare qualcosa di grandioso e misterioso che deve essere successo da queste parti. Qualcosa che non padroneggiamo appieno. Ma cosa ci dice la Storia?

Di solito, per motivi di “correttezza politica”, ci si ferma al 1947, l’anno dell’avvio delle legislature regionali contemporanee. Dopo, la notte, cioè la mera cronaca, quella di cui ancora “è troppo presto per parlarne”, perché “non è ancora storia”. Prima, il mito, la leggenda, che nasconde più che rivelare la realtà.

Ma cos’è lo Statuto? Da dove nasce? Perché siamo “autonomi”, sia pure solo sulla carta? Fu un incidente degli anni ’40? O c’è qualcosa di più profondo dietro tutto ciò?

Per rispondere dobbiamo liberarci dell’ideologia dell’attuale ordinamento politico, ormai logora. Cosa dice questa ideologia? Una grande falsità. Dice che la Sicilia è sempre stata una regione italiana, sempre o quasi, ma con il tratto speciale di non aver mai avuto alcuna identità né soggettività politica. Terra di incontro di popoli diversi, oggetto ma mai soggetto di storia, terra di “dominazioni”. Poi, a un certo punto, la “redenzione”, con l’Unità d’Italia e Garibaldi. Poi, a tutto concedere, questa non è venuta proprio “bene”, e allora ecco l’Autonomia “riparazionista” che entra in gioco per unire meglio la Sicilia all’Italia in una ritrovata solidarietà nazionale. In una parola: tutte balle!

La vera storia è tutt’altra.
La Sicilia non è MAI stata italiana, geopoliticamente parlando, prima del 1860. E forse, nel profondo, neanche dopo.
L’uomo arriva tardi in Sicilia, solo nel Paleolitico Superiore, circa 20.000 a.C., quando cioè impara in modo rudimentale a costruire qualche natante per attraversare lo Stretto. Resta nel buio della preistoria per millenni, quando, cultura dopo cultura, partecipa della lenta evoluzione umana, e misteriosi gruppi umani, appartenenti a quella famiglia mediterranea poi sommersa dall’onda “ariana”, la popolano e la raggiungono fino a fondersi in un’unica etnia: i Sicani. I Sicani, nostri progenitori, parenti dei Cretesi, dei Liguri, degli Iberi, dei Lidi. Famiglie linguistiche ed etniche oggi scomparse, di cui restano oggi, come due enigmatici scogli sopravvissuti ai due estremi, le lingue caucasiche e quella basca. Questo popolo esce dal buio della preistoria ed entra nella penombra della protostoria nella media Età del Bronzo, intorno al 1.300 a.C.
Altri popoli giungono in Sicilia, il più importante dei quali ariano, i Siculi, che avrebbero poi dato il nome alla nostra Terra. I Siculi, la cui lingua sembra essere l’anello mancante tra il latino e il greco, non sterminano i Sicani, ma li assimilano fondendosi con loro. Insieme a un altro piccolo popolo, forse pure indoeuropeo, ma di provenienza asiatica, all’estremo ovest, gli Elimi, formano i popoli pre-greci, gli indigeni che scrivono la pagina “zero” della nostra storia. Intorno all’800 a.C. ormai sono organizzati in piccole città- Stato, hanno una forma avanzata di agricoltura e conoscono il ferro. Ma non sono ancora nella piena luce della storia, che comincia a lambire la nostra terra con gli empori dei Fenici.

Saranno i Greci che ci avrebbero fatto entrare nella grande storia. I Greci di Sicilia o Sicelioti, non “dominatori”, ma “colonizzatori”, nel senso etnico del termine. Non sono dominatori semplicemente perché sono i nostri progenitori. L’immigrazione dalla Grecia è talmente massiccia che gli indigeni sono in gran parte assimilati e confusi con i nuovi arrivati. Sicelioti e Siculi si fondono tra loro per dare vita a un nuovo popolo, unico nella sua identità: i Siciliani. Quei Siciliani siamo già quasi noi. Come disse Ermocrate al Congresso di Gela (424 a.C): “Non siamo più Dori o Ioni, ma Siciliani!”.

Quei Siciliani danno vita a una delle più grandi civiltà dell’Antichità, che qui non vogliamo e non possiamo ripercorrere e che si appropria del simbolo ancestrale della Trinacria, da allora vessillo inconfondibile della nostra Terra. Diciamo appena che politicamente conservano sempre orgogliosi la loro indipendenza. E progressivamente, senza perdere mai la dimensione municipale, creano anche un vero e proprio Stato: prima la semplice “egemonia” di Siracusa, poi Dionisio che si fa “Arconte” di Sicilia, cioè leader politico di fatto, poi una vera e propria confederazione, la “Symmachia” di Timoleonte, infine una vera e propria monarchia, con Agatocle, Pirro e Ierone II. L’Antichità vede così i primi natali del Regno di Sicilia, unica monarchia ellenistica a non abbattere gli ordinamenti repubblicani delle città e a non trasformarsi mai in dispotismo. Quella “greca” non fu mai una dominazione, ma una grande era della storia siciliana, un’era continuata anche dopo la conquista romana, come dimostrato dalla lunghissima persistenza della lingua e della letteratura greca.

Quella romana sì, quella sì che fu una vera dominazione. Una dominazione che lascia il segno nella lingua e nella cultura del nostro Popolo, che da allora sarà sempre greco-romano, oggi forse erede della cultura classica più dei Greci e degli Italiani propriamente detti. Oggi siamo più eredi noi degli antichi Greci, che i Greci propri, mischiati con slavi e turchi. E oggi forse siamo più eredi noi degli antichi Latini che gli Italiani propri, mischiati con Goti, Longobardi e altre schiatte germaniche.

Quella romana fu una dominazione, certo. La Provincia era erede legale del Regno di Sicilia (e della piccola provincia punica a Occidente), ma la Sicilia romana non era e non fu mai “italiana”. La Sicilia era Romana come lo erano la Gallia, la Britannia, la Licia, la Cilicia o la Cappadocia. Fummo provincia di un impero universale, primi tra tutti, ma come tutti, mai centro dell’Impero. All’inizio la dominazione fu dura e spietata: poveri siciliani e schiavi tentarono più volte di scuotere il giogo, qualcuno rialzò il diadema di “Re di Sicilia”. Ma il destino di quei tempi era quello dell’Impero universale, cui nessuno si sarebbe potuto sottrarre. Poi, piano piano, nell’Impero, la Sicilia divenne una provincia tra le tante: tutti cittadini romani da Caracalla in poi, ma tutti ugualmente sudditi di un regime ormai assoluto, anche se non particolarmente duro.

La Sicilia abbandonò, come tutti i popoli mediterranei del tempo, gli “Dei falsi e bugiardi” e si fece Cristiana nel IV secolo d.C., anche se i culti pagani mostrarono una formidabile capacità di resistenza e persino di mimetizzazione.

Dopo una breve parentesi barbarica, ci ritroviamo di nuovo provincia dell’Impero Romano, anche se questa volta gli Imperatori risiedono a Costantinopoli, sono cristiani e parlano in greco. Con i bizantini l’elemento greco-siculo ridiventa preponderante e si allentano, e poi si recidono del tutto, i legami con l’Italia. Ma la Sicilia diventa inquieta, ribelle. Dopo secoli di “Impero” si ricorda di essere stata un Regno e comincia a scuotere le catene. Dopo la più riuscita delle rivolte, quando si arriva a nominare di nuovo un “Basileus” di Sicilia, la reazione di Costantinopoli causa la chiamata dei Saraceni, e con loro di un ingrediente importante della nostra identità, anche se forse sopravvalutato dalla storiografia contemporanea che, quando trova qualcosa di siciliano “alieno” rispetto alla normalità italiana, non trova di meglio che attribuire tutto agli “Arabi”. Agli Arabi viene affibbiata qualunque cosa sia siciliana, con altro plateale falso storico, persino il cannolo, già trovato da Cicerone quando era questore a Marsala. Agli Arabi viene attribuita gran parte della nostra ascendenza, ciò che l’analisi del DNA però nega: molti dei Saraceni, dopo la conquista Normanna, fuggirono dalla Sicilia, e solo una piccola parte si fuse naturalizzandosi con gli autoctoni. La realtà fu che la Sicilia fu invasa, in parte colonizzata, il nostro lessico si arricchì notevolmente per la presenza araba, ma la lingua parlata dai nuovi abitanti, il Siqilli, si sarebbe infine estinto per lasciare oggi una traccia di sé solo nelle Isole Maltesi. All’inizio fu un saccheggio brutale. I Siciliani resistettero più da soli che con l’aiuto di Bisanzio alla catastrofe. Ma dalla cenere della Civiltà Siceliota stava nascendo qualcosa di nuovo.

La colonia araba di Sicilia, che pose da allora in poi il centro politico dell’Isola a Palermo, visto che la vecchia Capitale, Siracusa, restò a lungo nelle mani dei bizantini, si rese da subito semi-indipendente dal Nordafrica. Stava nascendo uno Stato, lo Stato di Sicilia, che avrebbe avuto circa mille anni di storia. La fase “araba” di questo Stato è comunque solo quella embrionale. A poco a poco l’emirato diventa ereditario, quindi del tutto indipendente. Come l’antico Regno Siceliota era stata l’unica monarchia ellenistica con le assemblee popolari e le cariche elettive, così l’Emirato di Sicilia fu tra le poche esperienze islamiche a non essere un sultanato dispotico, ma a corredare l’emiro di un potente senato dei maggiorenti, la Gemaa (da cui il moderno termine arabo “Jamahiria”, cioè repubblica), che ne limitava il potere. A un certo punto la convivenza tra Cristiani e Musulmani si stabilizza così come il Governo del nuovo Stato. Questo riallaccia i fili della storia e a un certo punto Giafar II prende il titolo di “Malak”, cioè di re: il Regno di Sicilia risorgeva come l’araba fenice dalle sue ceneri.

Presto andò in frantumi e un nuovo ingrediente etnico, l’ultimo, si aggiunse ai precedenti: i cavalieri normanni, accompagnati da non pochi italiani e francesi, che diedero il fondamentale contributo per far pendere definitivamente lingua ed ethnos siciliano dalla parte della latinità, seppure con un elemento greco-siculo ancora fortissimo, e che ci sarebbero voluti secoli per riassorbire del tutto. La Sicilia rientra nell’orbe cattolico, ma con una Chiesa autocefala che sarebbe miracolosamente giunta sino al 1871.

Con i Normanni lo Stato di Sicilia giunge a maturazione e letteralmente viene alla luce. Passata una generazione di assestamento, con Ruggero I, con suo figlio, Ruggero II, il Regno di Sicilia risorge ancora, questa volta più potente che mai.

Ruggero si riallaccia esplicitamente all’Antichità (meno forse alla più recente esperienza araba). Con lui nasce la Sicilia Stato e Nazione insieme. Ruggero non è un “dominatore normanno”, e nemmeno un “conquistatore”, come poteva essere stato il padre. Ruggero II è il nostro Padre della Patria, un re siciliano a tutti gli effetti, la fonte di ogni legittimità per i secoli a venire.

Con lui non nasce solo il Regno di Sicilia; con lui nasce anche il Parlamento, giacché è dalla volontà della Nazione, e non solo dall’unzione papale, che Ruggero si fa incoronare. La sua Sicilia è una vera potenza per il mondo di allora: ha possedimenti in Italia meridionale, in Africa, nei Balcani.

Dopo di lui il Regno Indipendente di Sicilia continua sotto la dinastia Altavilla, e – dopo una breve crisi dinastica – con la dinastia Hohenstaufen. Entrambe le dinastie, da Ruggero II a Manfredi, sono di re assolutamente nazionali. La Grande Sicilia diventa con Federico II imperatore la più grande superpotenza mondiale, in un momento certo irripetibile, quando la Corte Siciliana detta legge dal Mar Baltico alla Terra Santa.

Quella Sicilia, pur cattolica dalla conquista Normanna, ebbe però sempre un fiero nemico nei papa-re del Medio Evo, veri eredi dell’oppressione di Roma antica e anticipatori di quella del moderno Stato italiano. Le scomuniche, congiure e crociate raggiunsero infine il loro obiettivo: schiantare la potenza siciliana. Chiamati i Francesi (angioini e provenzali), per lunghi 16 anni la Sicilia fu oppressa come non mai dalla violenza francese. Per secoli il nome francese fu esecrato in Sicilia tanto fu l’orrore di quegli anni.

E a quell’orrore seguì la Rivoluzione Nazionale del Vespro. Anche questa coperta da successive mistificazioni: complotto internazionale, manifestazione di patriottismo “italiano” (?!) contro lo straniero. La realtà è pura e semplice. Mentre la Monarchia normanno-sveva aveva creato uno Stato di Sicilia e una Nazione data dall’accostamento di tanti popoli, con il Vespro l’amalgama si era completato e la Nazione Siciliana moderna stava facendo sentire la propria voce. I Siciliani tutti, nobiltà, clero, borghesia, villani, plebe, scoprono l’autocoscienza, scoprono di essere Popolo, con episodi di vero eroismo nazionale.

Altra mistificazione è quella che al Vespro sarebbe seguita la “dominazione aragonese”. Niente di più falso. Vero è che i Siciliani chiamarono in aiuto Pietro d’Aragona, che regnò congiuntamente a Costanza Hohenstaufen, sua moglie, per qualche anno. Ma è anche vero che da allora in poi la famiglia Aragona-Sicilia diede vita a un ramo separato, con una corona indipendente da Barcellona, almeno per più di 100 anni. Ci fu un momento in cui Federico III, l’eroe del Vespro, si trovò contro non solo il papa, il Regno angioino di Napoli, i Guelfi italiani, il Regno di Francia, ma persino la stessa Aragona del fratello Giacomo.

La Sicilia da sola resistette come una leonessa, e vinse! Vinse perché Federico III non era solo. Con lui era l’intera Nazione. La perdita dei possedimenti in Italia meridionale forse fu persino salutare, perché servì a salvaguardare la sicilianità del Regno, che non mancò di avere la sua politica estera, con possedimenti in Nordafrica e in Grecia (il Ducato di Atene e Neopatria).

Con il Parlamento del 1296 la Sicilia diventa una vera monarchia costituzionale, la prima in Europa! Il Parlamento, già consultivo, aveva acquistato potere. I Monarchi svevi avevano stabilmente introdotto i rappresentanti delle città, accanto a baroni e abati, a rappresentare la Nazione. Ora la politica estera, quella fiscale e la legislazione erano “codecise” tra Corona e Parlamento. Nei municipi sono introdotte le elezioni: un altro record storico della Sicilia.

La pace del 1302 diede un po’ di fiato alla Sicilia, con l’unico pegno nel dover accettare per qualche tempo il titolo riduttivo di “Regno di Trinacria”, lasciando il sacro nome di Sicilia al “Regno di Napoli” (da qui l’esistenza di “Due” Regni di Sicilia o “Due” Sicilie). Purtroppo il papato e Napoli non mollarono facilmente la presa.

Si sarebbe arrivati a una pace definitiva solo nel 1372, dopo lunghi 90 anni di guerre. La Sicilia, esausta, dilaniata dalle usurpazioni baronali del potere regio, era però riuscita a far riconoscere in maniera definitiva la propria sovranità e indipendenza a livello internazionale.

La nostra storia non è a lieto fine purtroppo. E non mi riferisco alle guerre civili del Trecento, all’indebolimento del potere regio. Queste cose succedevano in tutta Europa, e se alla dinastia Aragona-Sicilia, fosse succeduta la dinastia ormai autoctona dei Chiaramonte, forse oggi avremmo un re come la Gran Bretagna, e sederemmo tra gli Stati mondiali ricchi e rispettati. Non mi riferisco neanche alla peste nera, che per quanto abbia schiantato l’economia, la società e la stessa politica del 1300, alla fin fine fu superata come lo è sempre stata ogni epidemia. Il vero dramma fu l’estinzione della Casa Regnante di Sicilia e la sua mancata sostituzione con un’altra dinastia di re propri.

Agli inizi del 1400 i “cugini” dell’Aragona riuscirono a farsi riconoscere “anche” re di Sicilia e lì cominciò la lunga era della Unione Personale della corona siciliana con corone estere. Di lì a poco cominciò anche il Viceregno, che andò stabilizzandosi nel tempo.

In tal modo la Sicilia entrò nell’orbita della Penisola Iberica (Aragona prima e Spagna unita poi), perdendo una politica estera propria, nonché i vantaggi di un governo espressione unicamente dei nostri interessi.

E tuttavia nel lungo viceregno, dai primi del 1400 alla fine del 1700, non furono solo ombre ed è anche improprio chiamarlo “dominazione straniera”. Non mancarono abusi sulla Costituzione del Vespro, ma il Regno restò al suo interno nel complesso un ordinamento solido e rispettato. I Parlamenti, con poche eccezioni, furono convocati regolarmente ogni tre anni (quattro nel XVIII secolo) e avevano in mano sia la gestione delle imposte dirette, sia tutta la legislazione tributaria, anche riguardo alle imposte indirette. I magistrati del Regno erano tutti regnicoli, con mandati lunghi o a vita, e i casi di deposizione degli stessi da parte dell’esecutivo si contano sulle punte delle dita di una mano.

I Comuni, specie quelli demaniali, mantennero la loro autonomia, anche se nel Settecento la pressione dello Stato si fece sentire più che in passato.
Le dinastie cambiavano, ma tutti i re, invariabilmente, direttamente o per mezzo dei viceré, prima di entrare in servizio dovevano giurare fedeltà alle Costituzioni e ai Capitoli del Regno. La Sicilia era in prima linea contro il “Turco”, ma non fu mai invasa. Le guerre europee arrivavano come un’eco lontana. Ogni tanto il re chiedeva un aiuto in milizie, e allora bisognava prestarlo. Ma non succede lo stesso all’Italia di oggi quando l’America chiama? Diciamo per questo che siamo sotto dominazione americana? Forse sotto egemonia, sì, ma “dominazione” è certo un termine troppo forte. Aragona, Castiglia, Piemonte, Austria, Napoli, …, i re lontani cambiano, la Costituzione del Regno, la sua indipendenza interna rimane. Il Regno di Sicilia ha suo stemma, bandiera, cittadinanza, magistratura, moneta, forze armate, legislazione, fisco, senza alcuna confusione con Stati stranieri. Anche se dal XVI secolo l’italiano si fa strada come lingua d’uso (diventerà ufficiale solo nel 1810) i Siciliani nel mondo si dichiarano “di Nazione Siciliana” e “di Patria” … palermitana, catanese, messinese, etc. Eh sì, perché nella Sicilia di antico regime i Comuni erano come tanti Stati. Le 42 città demaniali erano altrettante repubbliche, ciascuna con le sue magistrature, i suoi usi, scritti e no, la propria costituzione materiale. Ma anche le città e terre feudali erano dei veri e propri piccoli principati, con le loro magistrature, alcune elettive, altre di nomina baronale. Una Sicilia policentrica e federale, in cui la Città di Palermo e, fino a un certo punto, anche quella di Messina, e in parte anche Catania, esercitavano un ruolo speciale. Il Banco comunale di Palermo, uno dei più antichi banchi pubblici europei, svolgeva ad esempio funzioni di Tesoreria dello Stato.

L’epoca napoleonica, quando giunge, per noi è un momento magico. Fuggito il re da Napoli, l’ultimo viceré rassegna le dimissioni, e la Sicilia si ritrova, improvvisamente, del tutto indipendente sotto la protezione britannica. Per 18 anni circa il piccolo Regno di Sicilia è alleato del Regno Unito nelle guerre napoleoniche e si batte con tutte le sue forze. Durante questo momento glorioso il Regno riforma la propria Costituzione in senso liberale e moderno.

Si è parlato, a sproposito, di “Rivoluzione del 1812”. Non ci fu invero alcuna rivoluzione. Fu un parlamento a tre camere, o bracci, eletto non molto diversamente da quanto prescritto dal Parlamento di Catania del 1296, cioè ancora secondo la Costituzione del Vespro, che si diede funzioni costituenti e che consegnò alla storia un vero monumento di civiltà. I diritti feudali furono aboliti e il diritto di voto esteso a tutti i cittadini di sesso maschile che sapessero leggere e scrivere con un reddito annuo davvero minimale (18 onze l’anno, pari a non più di 20.000 euro attuali più o meno).

Ma lì, proprio lì, in quel momento di massima gloria per la Nazione, avvenne la catastrofe. Un re, traditore e spergiuro, vendette Malta agli Inglesi per ritornare sul trono di Napoli e, violando la Costituzione che gli avrebbe imposto a quel punto di rinunciare al Regno di Sicilia, trasformò il paese sconfitto, il Napoletano, che con Murat era stato al fianco della Francia, in un paese vincitore mentre la nostra Patria fu perduta. La Sicilia perde in un colpo solo le Isole Maltesi, la Costituzione, le Autonomie municipali, la libertà di stampa e di espressione, 800 anni di legislazione propria, viene annessa al Regno di Napoli, ridotta a provincia amministrata da Luogotenenti e Intendenti poliziotti.

Il 1816 è pertanto la data di inizio della “Questione Siciliana”. E questa questione inizia proprio con l’abbraccio con l’Italia. Il 1816 è la vittoria postuma di Carlo d’Angiò. Ma questa volta nessun Vespro, nonostante l’eroismo dei Siciliani, è più valso a liberarci. Dopo quattro rivoluzioni, di cui una quasi riuscita, nel 1848, in cui il Regno di Sicilia ebbe un’effimera rinascita e si diede una costituzione quanto mai democratica, anche questa votata da un Parlamento ricostituito secondo la Costituzione del 1812, per disperazione la Sicilia apre le porte a Garibaldi e ai Savoia.

Ma l’annessione all’Italia per certi versi è la caduta dalla padella nella brace.
Quell’identità nazionale che il Regno delle Due Sicilie, per quanto truffaldino, non era mai riuscito a cancellare, è ora negata alla radice. La Sicilia trasformata in colonia interna. La legge marziale o l’appoggio esplicito dello Stato italiano ai nuovi delinquenti, i “mafiosi”, tengono la Sicilia in catene per più di 30 anni.

Quando finalmente, sul finire del secolo, si molla la presa, si tenta una reazione pacifica e democratica, con l’Autonomismo “regionista”. Ma l’Italia non accetta mediazioni. Dentro l’Italia abbiamo sempre e solo un ruolo, quello di cittadini di serie B.

La Prima Guerra mondiale congela la politica in Sicilia, e poi il Fascismo la reprime definitivamente. Se durante la monarchia liberale, per lo meno, l’aristocrazia siciliana e la più alta borghesia avevano un ruolo riconosciuto, ancorché subalterno, con il Fascismo la Sicilia politica è azzerata, e ridotta nuovamente a “Granaio dell’Impero”. Tutti gli indicatori economici, durante il Ventennio, segnano un distacco irreversibile tra Nord e Sud del Paese.

In questo clima, sia pure clandestinamente, matura in Sicilia il disegno, o il sogno, separatista.
Il Separatismo degli anni ’40, allo sbarco delle forze Alleate, non è quindi ascrivibile a un capriccio della storia, a un incidente di percorso, a un complotto, o a qualcosa del genere.

Esso è frutto di un percorso secolare e di una contraddizione insanabile tra centro e periferia.

Il resto diciamo che è noto. Una guerra civile, durata almeno tre anni (1943-46), finita con un vero e proprio trattato di pace tra Italia e Sicilia: lo Statuto appunto.

La Sicilia dopo lo Statuto

Lo Statuto è quindi l’ennesima costituzione di Sicilia, idealmente erede di quella del 1296, di quella del 1812, di quella del 1848 e finanche di quella tentata nel 1860, quando prima di sciogliersi, il Consiglio di Stato di Sicilia consegnò a Vittorio Emanuele II uno “Statuto speciale” ante litteram, a futura memoria. Esso fu elaborato, come le precedenti Costituzioni, da Siciliani, Siciliani riuniti in un Parlamento provvisorio, la Consulta regionale e fu soltanto accettato incondizionatamente da re Umberto II e dal presidente del Consiglio De Gasperi.

Una grande occasione per conciliare ciò che fino ad allora era stato inconciliabile: l’unità politica dello Stato italiano con l’Autogoverno dei Siciliani. Sulla carta era la semi-indipendenza: rinasce il Parlamento di Sicilia con una sfera legislativa amplissima; totale devoluzione della pubblica amministrazione (compresa la Polizia e i Prefetti, ed escluse solo le Forze Armate), con un presidente che è anche luogotenente dello Stato in Sicilia e ministro a Roma, in quanto a capo non solo di tutta la macchina regionale, ma anche della residua amministrazione statale; Comuni messi sotto tutela e legislazione della Regione, come fossimo uno Stato a sé; magistratura di ogni ordine e grado presente in Sicilia, con persino una piccola Corte Costituzionale nostra, l’Alta Corte; totale devoluzione di demanio, patrimonio, tributi e amministrazione finanziaria, con poche residue eccezioni, e con la possibilità di deliberare le proprie politiche finanziarie; regime doganale, finanziario e finanche monetario speciale. Una zona economica speciale integrale nel centro del Mediterraneo.

E come è finito questo sogno? Non indoriamo la pillola: è finito in incubo.
I Siciliani hanno affidato, e affidano tuttora, agli stessi partiti italiani un gioiello così prezioso. Ma, dentro i partiti italiani, per essere candidati e fare carriera, si deve soltanto dire signorsì. L’Italia e la Sicilia sono in permanente conflitto di interesse, e l’unica possibilità che la Sicilia avrebbe di restare dentro l’Italia ed essere rispettata è quella di avere un’autonomia amministrata da partiti siciliani e avere partiti siciliani anche nel Parlamento dello Stato, in modo da poter condizionare la politica nazionale italiana.

Ma così non è stato, e questo è stato il nostro errore oggettivo. Anche se, soggettivamente, il voto in Sicilia è stato condizionato dalla povertà, dal clientelismo, dalla immaturità politica coltivata dallo Stato stesso, ma anche dalla mafia, almeno fino agli anni ’90, che nei partiti e nei gangli dello Stato italiano, che in fondo le aveva dato i natali, trovava la sua protezione.

E quindi lo Stato ha avuto buon gioco a smontare, pezzo dopo pezzo, quello che la Sicilia aveva conquistato a prezzo di una vera guerra civile.
I grimaldelli con cui è stato “scassinato” lo Statuto sono tanti. Ma quello decisivo è stato l’abolizione dell’Alta Corte nel 1956/57. E accanto a questo la mancata o distorta produzione dei Decreti Attuativi dello Statuto.

Eppure stava iniziando bene.
Intanto mettiamo bene le cose in chiaro: lo Statuto non ha bisogno di alcuna “norma attuativa” per funzionare. Questa leggenda metropolitana, alimentata dalla giurisprudenza faziosa e abrogativa della Corte Costituzionale è una mostruosità giuridica senza precedenti.
Lo Statuto speciale è una legge di rango costituzionale, esattamente come la Costituzione, di cui costituisce una vera e propria parte integrante, un’Appendice, espressamente prevista dai Costituenti in una delle sue disposizioni transitorie e finali e poi, sempre dalla stessa Assemblea Costituente, approvata con legge costituzionale n. 2 del 1948.
Quando – molti anni dopo – per abrogare lo Statuto, la Corte Costituzionale ha più volte espresso il concetto che lo Statuto risale al 1946, precedente quindi alla Costituzione, e quindi non coordinato con la stessa, questa omette di dire che quello Statuto del 1946 è stato recepito nel 1948 dallo Stato in maniera integrale! Non c’è quindi bisogno di alcun coordinamento specifico.

È vero che l’Assemblea Costituente aveva aggiunto un comma “trappola”, consentendo al Parlamento, con legge ordinaria, entro due anni, di modificare lo Statuto del 1946, ma è anche vero che l’Alta Corte per la Regione Siciliana, cioè la nostra Corte Costituzionale legittima, con decisione del 1949, aveva decretato come incostituzionale quel comma e lo aveva fatto decadere, in quanto contrario a un principio generale del nostro ordinamento secondo cui le norme costituzionali si possono modificare solo con procedimento rafforzato.

Quindi il nostro Statuto è legge costituzionale, anzi, legge costituzionale speciale, che – come insegnano i principi generali di ogni ordinamento – deroga alle disposizioni generali della Costituzione.

L’unico limite che può trovare lo Statuto nella sua applicazione letterale potrebbe esser dato da una eventuale violazione di un “principio generale dell’ordinamento”, come quelli stabiliti nei primi articoli della Costituzione: democrazia, libertà, uguaglianza, etc. o all’ultimo, quello della forma repubblicana dello Stato. All’infuori di questo, tutto è pienamente legittimo, e non c’è bisogno di alcun “decreto attuativo” per rendere operative le norme dello Statuto, ma – esattamente come accade per le norme costituzionali – soltanto una o più leggi ordinarie, in questo caso leggi regionali emanate dall’Assemblea.

È vero che l’articolo 43 dello Statuto prevede una Commissione Paritetica che emani le “norme attuative”. Ma questa previsione è disposta solo per le norme transitorie necessarie al primo coordinamento tra le norme regionali e quelle statali, ma soprattutto per il passaggio di funzioni, personale e patrimonio dallo Stato alla Regione.

Eh sì, perché in teoria (ma anche questa legge dello Stato è stata stracciata) il presidente della Regione sarebbe dovuto succedere al commissario dello Stato nella “luogotenenza dell’amministrazione statale in Sicilia”, e poi veder passare, ordinatamente, dallo Stato alla Regione la maggior parte delle funzioni, restando poi comunque a capo delle rimanenti nel rango di ministro come predicato dagli artt. 20 e 21 dello Statuto.

Ma non è andata così. All’indomani delle prime elezioni regionali, l’Ufficio di Alto Commissario cessa e la rappresentanza dello Stato in Sicilia erroneamente è passata di nuovo ai prefetti e non al presidente come previsto dallo Statuto.

Nonostante ciò, in qualche modo la Regione comincia a funzionare. Senza personale né risorse sembra paralizzata, ma Alessi, il primo presidente, applica direttamente lo Statuto e dà un ordine alle Intendenze di Finanza di trasferire alla Regione una serie di tributi, i più importanti. Lo Stato, in un momento di fragilità e di avvio dell’Autonomia, non ebbe la forza di fermare la Regione (c’erano ancora in giro troppi separatisti), e cedette. Il “colpo di mano” di Alessi del 1947 fu tradotto nel 1948 in un accordo provvisorio che lo stabilizza in attesa di attuare la parte dello Statuto che dava alla Regione piena potestà tributaria. Una piena potestà che non sarebbe arrivata però mai più.

In questo clima la Commissione Paritetica, guidata dallo stesso “padre” dello Statuto, il prof. Guarino Amella, aveva emanato “quasi” tutti i decreti attuativi tra il 1946 e il 1947. Tutti tranne l’attuazione dell’art. 40, sulle riserve valutarie separate, per l’esplicito ostruzionismo del Banco di Sicilia, a sua volta “telecomandato” dalla Banca d’Italia, assai timorosa che la Sicilia si avviasse sulla strada di una autonomia monetaria.

Il capo provvisorio dello Stato, di fronte alla prospettiva di un trasferimento radicale di funzioni alla Regione che avrebbe reso la Sicilia un paese sostanzialmente indipendente e confederato all’Italia, forse si sarà inorridito. Fatto sta che le bozze di quei decreti, che custodisco gelosamente, furono letteralmente cestinate da De Nicola, che promulgò solo i decreti che servivano ad avviare la forma della Regione (Assemblea, Presidenza, etc.) e, qualche mese dopo, a malincuore, quelli che servivano ad avviare l’Alta Corte. In una parola la forma, mentre la sostanza era bloccata. Morto il Guarino Amella, la “Commissione Paritetica” da organo provvisorio, senza che nessuno lo abbia mai deciso, diventa un organo permanente, incaricato di fare le leggi, di ordine intermedio tra quelle costituzionali e quelle ordinarie, senza le quali lo Statuto diventa “inattuabile”.

Questo pregiudizio serve per rallentare, poi rinviare, poi bloccare, ogni attuazione dello Statuto. E quando, finalmente, ad anni e decenni di distanza (quelli sulla scuola sono ad esempio degli anni ’80) arrivano questi decreti, essi sono ormai lontanissimi nella lettera e nello spirito dall’originale, trasformando l’autogoverno in una farsa di sottogoverno.

Il golpe del 1956 azzera l’Alta Corte, e con essa ogni possibilità dello Statuto di trovare mai più attuazione.

La classe politica siciliana, con l’unica eccezione dei 18 mesi del Governo Milazzo tra 1959 e 1960, forse l’ultimo conato autonomista, negozia al ribasso le proprie competenze, paga di gestire il clientelismo locale su cui si fonda il proprio potere. Sconfitto Milazzo e isolati gli autonomisti dentro i partiti nazionali, gli stessi che ai tempi di Finocchiaro Aprile erano stati gli “utili idioti” per fermare l’indipendentismo, la mafia entra definitivamente nelle stanze del potere, peraltro in un clima di pace sociale data dal benessere diffuso che il clientelismo di allora consentiva.

Ma la pace sociale nascondeva uno sviluppo malato: un’industria assistita e improduttiva, un colonialismo interno dissimulato, una continua emorragia demografica, in una parola un’assimilazione e integrazione in posizione subalterna che era la stessa negazione dell’Autonomia.

Inutile seguire da vicino le varie stagioni politiche successive che possono essere descritte in poche pennellate. Il tentativo di emanciparsi dalla pesante tutela mafiosa con l’esperimento di “solidarietà autonomistica” (tale solo a parole) di Bonfiglio e Mattarella, terminato tragicamente nell’Epifania del 1980. La lenta stagnazione del Pentapartito degli anni ’80, sotto la guida del pur dignitoso Nicolosi. L’esplosione del precariato a tutti i livelli e del voto di scambio. Il crollo morale della Regione sotto tangentopoli e la decomposizione della Regione parlamentare, che chiude i battenti nel 2001, non rimpianta da nessuno. Poi la Regione presidenziale, complessivamente un fallimento ancora peggiore. Ancora più subalterna a Roma, con Cuffaro, Lombardo, Crocetta, Musumeci… Che fine ha fatto l’Autonomia speciale nel frattempo?

Si è tradotta unicamente nel passaggio di molte funzioni a carico della Regione, senza passare però le relative risorse, o passandole solo in parte. Per il resto nulla. La potestà legislativa limitata a umilianti leggi di recepimento. L’autonomia giudiziaria ferma alle poche forme di decentramento degli anni ’40 (con Consiglio di Stato e Corte dei Conti proprie), ma con giudici non nominati pariteticamente e quindi ostili alla Regione, con l’Alta Corte azzerata e la Corte di Cassazione mai ricostituita. L’Amministrazione statale e la Polizia mai passata al presidente della Regione, la partecipazione di questo al Consiglio dei Ministri una barzelletta. Le specialissime norme sulla politica dei trasporti, sull’autonomia valutaria e finanziaria, sullo status doganale speciale, lettere morte. Il demanio e il patrimonio dello Stato passati alla Regione solo in maniera residuale, minimale, e con una lentezza secolare. I prefetti dello Stato ben saldi al loro posto.

Nel 1965 gli accordi finanziari del 1948 da provvisori erano diventati definitivi. La Regione di fatto rinunciava (pur lasciandola sulla carta) alla propria potestà tributaria autonoma, ma almeno si faceva girare dallo Stato la totalità dei tributi erariali. Le grandi riforme del 1972/73 (introduzione di IVA e IRPEF) furono una prima occasione per erodere il gettito regionale. Da allora in poi sempre peggio.

La comparsa di una incredibile “Questione Settentrionale”, dai primi anni ’90, rende i rapporti interni sempre più duri e sfavorevoli. L’entrata nell’Europa dell’austerità e la crisi eterna, dal 2009 circa, fanno inasprire i rapporti interni fino a trasformare la Sicilia in un paese occupato e sottoposto a brutale sfruttamento. Ai tempi di Crocetta l’assessore-prefetto all’Economia, inviato dalla Toscana direttamente da Renzi, denunciava 7 miliardi l’anno di trafugamenti dello Stato ai danni della Sicilia.

Ma il danno non fu riparato, anzi. Complice lo stato generale di crisi, e il bassissimo prestigio delle istituzioni regionali, quotidianamente linciate a telecamere riunite, Crocetta siglò gli accordi peggiori della nostra storia: rinunciò a tutto il gettito, miliardario, del contenzioso costituzionale con lo Stato, in più stadi, si impegnò a limitare l’autonomia legislativa della Regione, modificò il decreto attuativo del 1965 in materia finanziaria, regalando allo Stato circa un terzo delle imposte dirette e circa due terzi di IVA, senza pretendere nulla in cambio. La territorializzazione delle imposte, solennemente sancita dal nostro art. 37, più volte promessa, da Cuffaro a Crocetta, viene elusa in mille modi che non mette conto qua richiamare. Non contento di questo il presidente, nel 2015, cancella in un sol colpo dal bilancio della Regione circa 6 miliardi di residui attivi che erano i crediti della Regione verso lo Stato per le imposte che questo aveva illegittimamente incassato al posto della Regione.

Da allora in poi la Regione va in dissesto, e in sostanza ancora oggi è in “amministrazione controllata” dallo Stato, l’unica regione a non poter comprare neanche una penna senza chiedere permesso ai ministeri romani.

L’ultima presidenza ratifica senza battere ciglio gli accordi del governo precedente, anzi fa qualche ultimo regalo. La Regione non era mai riuscita a farsi dare gli uffici finanziari, come pure previsto dallo Statuto, ma aveva mantenuto fortunosamente almeno la società di riscossione. Musumeci riesce a regalare anche questa allo Stato. La crisi sanitaria del 2020 ha poi finito di distruggere quel po’ che restava in piedi dell’economia e delle istituzioni siciliane. Ormai la discriminazione dei Siciliani, anche rispetto ai Meridionali del Continente, è diventata parte della Costituzione materiale della Repubblica italiana. Persino il Recovery Fund, calcolato in base al divario economico tra regioni europee e quindi incamerato dal Governo italiano grazie alle regioni del Mezzogiorno, prende la via del Nord. Le università siciliane sono tenute al lumicino. La perequazione infrastrutturale, prevista dall’art. 38, è ferma dal lontanissimo 1990, con le strade e tutte le strutture pubbliche ormai in rovina. I servizi pubblici essenziali, come la raccolta dei rifiuti, l’assistenza ai disabili, i trasporti locali, sono al limite del collasso. I tagli alla sanità sono così feroci che volgarmente si dice che le migliori strutture ospedaliere in Sicilia sono Fontanarossa e Punta Raisi, cioè i viaggi della speranza, che ingrassano la sanità di altre regioni. La gente non vota quasi più, neanche alle elezioni amministrative. Il governo della frontiera sud marittima è abbandonato ai trafficanti di uomini e al caos.

Alla fine di questa triste storia posso dare un messaggio di speranza? La risposta sincera è no, almeno allo stato.
Cosa ha portato – c’è da chiedersi – una Terra che ha alle spalle una storia e una civiltà così grande tanto in basso? Ognuno dia la risposta che crede più opportuna, la mia sarà poco consolatoria, ma non potrei scriverne un’altra senza sentirmi ipocrita: l’abbraccio mortale con l’Italia!

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