Direttiva Bolkestein, Stato e Regione: Di chi sono le spiagge siciliane?

In tutto quello che accade ogni giorno sopra le nostre teste manca sempre un punto di vista siciliano.

Cosa sappiamo delle spiagge e della UE? Da un lato lo Stato “sovranista”, che eroicamente vuole difendere i concessionari delle spiagge con una proroga di un anno (!?). Dall’altro la cattiva Europa, che vuole liberalizzare anche questo mercato, facendo accedere al mercato degli appalti locali delle concessioni le grandi multinazionali, per fare chiudere le piccole aziende a conduzione familiare che gestiscono, magari da decenni, la balneazione.

E la Sicilia? Noi non abbiamo voce in capitolo su questa faccenda? Siamo anche in questo un possedimento?

Intanto inquadriamo bene la questione da un punto di vista giuridico, poi andiamo alla sostanza economica, e infine alla politica.

L’art. 32 dello Statuto attribuisce il demanio dello Stato nel territorio della Regione alla Regione medesima. Non è solo una questione di titolarità del diritto, ma ovviamente anche di competenza legislativa, che segue il regime generale. Per ragioni che non voglio qui richiamare, per non farla troppo lunga, si tratta di competenza legislativa esclusiva, con certezza dopo la riforma del 2001.

Questa titolarità è diventata effettiva molto tardi, solo con il DPR 684/1977, ma si sa che l’attuazione dello Statuto siciliano doveva durare due anni ed è durato secoli. “Regnava” ancora Bonfiglio, ai tempi dei Governi Bonfiglio-Mattarella, i tempi della cd. “solidarietà autonomistica”. Altri tempi, altre storie.

Già ci sarebbe da chiedersi l’Europa come si ingerisce su una competenza che lo Stato ha concesso alla Sicilia sin da prima della sua esistenza. La UE non può avere diritto di dirci come dobbiamo usare il nostro demanio, sennò che demanio è? Un demanio che è regionale ma che altri (Stato o UE) ci debbono dire come si usa? Cose che esistono solo da noi.

Anche rispetto al 1977 la Direttiva UE che regola il “libero mercato dei servizi” è solo del 2006, recepita dallo Stato italiano già nel 2010.

Il fatto è già compiuto: il dilemma è solo sulle norme attuative, dilazionate quanto più possibile, perché la gabbia europea deve esercitare i propri effetti in maniera molto graduale, in modo che quando ci si accorge di essere in trappola è troppo tardi per uscirne.

La UE, ipocritamente, non dice di intrigarsi sul modo in cui gestiamo il nostro demanio. “Essi” si occupano “solo” di economia, e in economia non ci sono solo i beni, cioè gli oggetti materiali, per i quali sono caduti tutti i dazi doganali da tempo, ma ci sono anche i servizi, immateriali, per i quali le normative statali (e regionali?) creano barriere invisibili alla concorrenza. Anatema!! Tutto ciò che ostacola la concorrenza è il nemico numero uno di questa Europa. Poco importa se qualche barriera alla concorrenza garantisce una migliore distribuzione del reddito, favorendo la piccola impresa, a dimensione familiare, rispetto alle grandi corporations.

L’ipocrisia liberista postula che il “benessere sociale” si consegue quando il bene o servizio ha un “prezzo basso”. Secondo loro il prezzo basso, e – se siamo fortunati – anche la qualità del prodotto, è funzione unica del grado di concorrenza. Più si mettono in concorrenza le imprese, più i consumatori ricevono un buon servizio e a buon mercato.

C’è del vero in questa affermazione, ovviamente. Ma non è così univoca e semplice come viene venduta. Ci sono infatti due variabili che non sono mai investite seriamente dalla teoria economica sottostante, asservita ad essere ideologia del potere.

La prima è che la “concorrenza” non è mai ad armi pari, perché c’è una sproporzione, crescente nel tempo, tra le aziende ad alta intensità di lavoro o imprenditorialità da un lato, e le aziende ad alta intensità di capitale dall’altro. Le seconde, con le banche globali dietro, dispongono di mezzi illimitati. La “concorrenza” contro le imprese familiari tirate su con mille sacrifici, è impari. E questo in ogni settore. Nel settore degli stabilimenti balneari non c’è eccezione.

Una volta fatte chiudere, la concorrenza non c’è più. Le grandi aziende fanno cartello, e trasformano il mercato da concorrenziale ad oligopolista. Come diceva l’economista List, una volta saliti, danno un calcio alla scala che hanno usato, in modo che nessuno possa più usarla. La “concorrenza” si trasforma così in oligopolio o addirittura in monopolio. E, come insegna la microeconomia, i prezzi salgono, l’offerta si riduce, e il prodotto addirittura peggiora.

La seconda debolezza in questo approccio è che guarda sempre il lato della produzione, ma trascura quello della distribuzione. Se anche fosse vero che tutta questa concorrenza fa diminuire i prezzi, la concentrazione del reddito, e la chiusura di milioni di piccole partite IVA, e la precarizzazione/proletarizzazione dei lavoratori dipendenti, fa sì che ci sia meno gente disposta a spendere. Il tutto si traduce, quindi, in un impoverimento generalizzato.

Il modello europeo, in altre parole, eretto a dogma, a regime indiscusso, è semplicemente sbagliato da un punto di vista economico.

Questo vuol dire che con i regimi di concessione permanente attuali va tutto bene? Naturalmente no, impossibile difendere la situazione per come è.

Intanto non sempre l’impresa concessionaria “a vita” è a dimensione familiare. Anche in questo caso era possibile uno sfruttamento da parte di grandi società esterne. In questo caso il regime era ancora più odioso, in quanto un misto tra il coloniale e feudale. Si pensi alla “Italo-Belga” che ha monopolizzato Mondello, forse da quando fu prosciugata la palude omonima, e che neanche il fascismo con la sua autarchia riuscì a schiodare. Ci sono disservizi e incrostazioni. Ma torniamo al diritto.

Ammesso che sulla competenza UE non c’è niente da fare, che titolo ha lo Stato italiano per legiferare sul demanio marittimo siciliano?

La risposta è nessuno.

La direttiva UE, doveva essere attuata da normativa regionale.

E si è sempre in tempo. La Sicilia può adattare alle proprie esigenze la normativa statale ed europea. E nessuno potrebbe dirle nulla.

Ad esempio, per non violare la normativa europea e per evitare le incrostazioni feudali, potrebbe intanto mettere all’asta con concessioni di lungo periodo e a rotazione, le varie concessioni. Ma, questo il punto, dando un punteggio superiore alle aziende che distribuiscono maggior reddito in loco, con contratti di lavoro stabili, o con una governance di tipo familiare. Con l’UE si può sempre invocare l’art. 174 TFUE per evitare contestazioni, in quanto regione insulare e transfrontaliera. E poi, credo, con un buon sistema di appalti, senza proroghe automatiche, avrebbero poco da ridire.

Sarebbe una buona occasione anche per recuperare una certa quota di spiagge alla fruizione libera.

Si potrebbero dare appalti alla gestione e attrezzatura delle spiagge libere, per democratizzare l’uso delle spiagge, e lasciare quelle private ad un uso più esclusivo. Tutelare le imprese siciliane di grande tradizione, espungendo solo le “mele marce”, non inibendo chi volesse venire a investire in Sicilia, ma alle nostre condizioni.

Se la Regione legiferasse in materia potrebbe benissimo sfidare lo Stato, oggi inadempiente di fronte all’Europa. Se anche la Consulta invocasse la solita ragion di stato, questa volta la Sicilia avrebbe buon gioco ad appellarsi alla Corte UE, che le darebbe facilmente ragione, e passerebbe il principio che sulle spiagge siciliane decidiamo noi. E per esempio chiedere che l’impresa che ottiene concessioni in Sicilia o costituisce una controllate con organi amministrativi in loco, ovvero tenga una contabilità in cui correttamente determini il profitto prodotto in Sicilia, e versi qua le relative imposte. Anzi, a che ci siamo, avremmo modo di ridefinire le royalties per l’uso del demanio marittimo, a un livello tale da garantire un’entrata stabile e significativa per le esangui casse regionali.

Ma per fare questo si dovrebbe svegliare il Parlamento più antico e addormentato del mondo.

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