J’Accuse – Una denuncia delle violazioni italiane allo Statuto siciliano – Premessa

Statuto
  1. Presentazione

 

Ho dedicato molti anni ad approfondire il contenuto normativo dello Statuto e a tentare di divulgarlo tra i cittadini siciliani.

L’esito di questo studio è che oggi in realtà esistono due ordinamenti paralleli in Sicilia. Da un lato quello teoricamente vigente, che – con pochissime modifiche – è ancora quello del 1946. Dall’altro quello “vivente”, fatto da una serie inenarrabile di violazioni della Costituzione, e quindi dello stato di diritto, da parte dello Stato italiano. Violazioni che hanno avuto molti padri: a Palermo come a Roma, nel potere legislativo, come in quello esecutivo o più spesso proprio in quello giudiziario che avrebbe dovuto tutelare l’Autonomia siciliana.

Quel che è certo è che questa violazione dello stato di diritto ha avuto conseguenze nefaste per la Sicilia.

Lo Statuto era stato concesso non solo per riparare a tutta una serie di irregolarità costituzionali con le quali era avvenuta la fusione del vecchio Stato di Sicilia nell’Italia (il “Regnum Siciliae”), quindi non soltanto con un occhio “al passato”. Esso era stato concesso per rimuovere ogni condizione di colonialismo interno e promuovere, attraverso uno status sostanzialmente confederale, una convivenza armonica tra Sicilia e Italia.

Tutto ciò non è accaduto, e la società siciliana è andata incontro a un declino progressivo di cui non si intravede la fine.

 

Ciò che invece non ho mai fatto, è quello di mettere in fila le violazioni dello Stato italiano. Mi sono limitato a descrivere il primo ordinamento, quello teoricamente vigente, integrandolo con i fatti istituzionali successivi al 1947, come i trattati europei o la riforma costituzionale del 2001; ma l’ordinamento vivente l’ho disdegnato. Troppo lungo scrivere il “libro nero” della dominazione italiana in Sicilia. Avrei dovuto cominciare dal 16 maggio 1946 e arrivare ad oggi. Troppo difficile… E così ho rinunciato.

Ma credo che sia giunto il momento invece di mettere nero su bianco quali sono i torti, in punta di diritto, che possono essere imputati allo Stato, le sue inadempienze.

È vero, se dobbiamo andare a prendere tutte le sentenze della Corte Costituzionale, tutte le leggi, tutti i decreti più o meno aberranti contro la Sicilia, ci vorrebbero migliaia di pagine e un lavoro congiunto di un vero staff.

Ma un dossier sintetico, un indice dei lavori diciamo, si può cominciare a stilare.

 

Per far questo dividiamo il nostro lavoro in alcune parti:

 

Premessa: questa, in cui presentiamo il problema con la sua metodologia, facciamo brevi richiami storico-istituzionali, e affrontiamo la parte dello Statuto che contiene gli strumenti formali per il suo esercizio);

 

Autonomia legislativa: dove presentiamo l’autonomia legislativa teorica della Sicilia e indichiamo le compressioni che questa ha subito nel tempo;

 

Devoluzione amministrativa: strettamente legata alla precedente, con distorsioni tuttavia che le sono peculiari;

 

Decentramento giudiziario: dove si tratta del peculiare decentramento gerarchico, fuori dal

perimetro dell’ente Regione, e della sua parziale o mancata attuazione;

 

Federalismo fiscale: dove presentiamo la “madre di tutte le battaglie”, quella su cui si è arenata da subito l’Autonomia siciliana, la questione delle risorse;

 

Altri istituti: parte dedicata ad istituti minori, ma non per questo meno importanti, quali la codecisione della politica dei trasporti, la gestione autonoma delle riserve valutarie, etc.

 

Strumenti di attuazione e di garanzia dello Statuto: dove discuteremo delle figure del Commissario dello Stato, dei decreti attuativi, delle riforme e dell’attuazione dello Statuto, in una parola degli strumenti che rendono vivo e operante il regime autonomistico.

 

Conclusioni: per riassumere tutto il percorso.

 

  1. Cenni storico-istituzionali

 

La Sicilia è una Regione autonoma a statuto speciale della Repubblica Italiana, riconosciuta come tale dalla Costituzione del 1947, anche nell’emendamento del 2001 (cd. riforma federalista), sebbene nell’elenco novellato delle regioni autonome si segua ora un ordine alfabetico e non un ordine di rilevanza politica e demografica, come nella versione originaria, nella quale la Sicilia era posta al primo punto dell’elenco delle regioni autonome.

 

Questo dato formale è corroborato dalla Legge costituzionale n. 2 del 1948 che riconosce e integra all’interno della Costituzione italiana lo Statuto già riconosciuto alla Sicilia con Regio Decreto del 1946. In altre parole la Repubblica, nata il 2 giugno 1946, “trovava già autonoma” la Sicilia, e si è limitata a costituzionalizzare questa autonomia, ponendo quella che nel Regno d’Italia poteva sembrare una condizione eccezionale, a base di un nuovo ordinamento di tipo regionale (in tal senso l’Autonomia siciliana ha fatto da propulsore), e riconoscendo altre 4 autonomie speciali.

 

L’Autonomia Siciliana è quindi un elemento costitutivo della Repubblica Italiana, coessenziale e coevo alla Costituzione, di cui costituisce in tutto e per tutto una parte integrante, una “Appendice” che ne fa parte allo stesso titolo del documento principale. La disposizione finale XVII della Costituzione attribuisce all’Assemblea Costituente, e non ad una qualunque legislatura, il compito di deliberare “sugli statuti regionali speciali”. L’Assemblea Costituente ha deliberato in tal senso con la Legge n. 2 del 1948. Lo Statuto speciale è quindi stato considerato una “funzione costituente” della Repubblica Italiana.

Questa legge non ha “istituito”,  bensì semplicemente riconosciuto il R.D. del 1946 che, per l’oggetto trattato era una “legge costituzionale”. E lo ha riconosciuto integralmente, salva la possibilità, indicata al comma 2 dell’art. 1 della suddetta legge, di apportate modifiche con legge ordinaria nel biennio successivo. Tale comma è stato però dichiarato DECADUTO da sentenza dell’Alta Corte per la Regione Siciliana del 1949, la quale ha sancito la piena vigenza dello Statuto e la possibilità di modificarlo solo per mezzo di ordinaria revisione costituzionale e non per mera INTERPRETAZIONE GIURISPRUDENZIALE DI COORDINAMENTO come invece fatto successivamente.

Del resto, avendo rango costituzionale, la disposizione finale XVI della Costituzioine prevedeva solo UN ANNO dall’entrata in vigore della Costituzione per la “revisione e il coordinamento con essa delle precedenti leggi costituzionali che non siano state finora esplicitamente o implicitamente abrogate”; termine oggi abbondantemente spirato.

Lo Statuto quindi È Costituzione, è vigente, ed è modificabile solo per mezzo della procedura rafforzata indicata dalla Costituzione stessa.

 

Si potrebbe, malevolmente, obiettare, che le previsioni in esso contenute siano in qualche modo di “ingiustificato privilegio” nei confronti di quelle previste per altre regioni. Ma questo non è in alcun modo possibile. Intanto perché questa sarebbe una valutazione di merito politico che spetta unicamente al legislatore costituente o comunque costituzionale, che sulla materia si è espresso. Poi perché la Costituzione, con questo riconoscimento, semplicemente dà atto del fatto che la Sicilia non è soltanto un “comparto amministrativo” della Repubblica, ma è una vera e propria comunità politica autonoma (quasi-nazionale potrebbe dirsi) dotata di una propria intrinseca, ancorché parziale, sovranità, che viene semplicemente riconosciuta dallo Stato italiano, e non concessa, come infatti si evince dalle modalità di emanazione della Legge 2 del 1948. La stessa denominazione ufficiale, apparentemente anomala rispetto alle altre regioni, province e comuni,  di “Regione Sicilia-na” e  non “Regione Sicilia”, sta proprio a mostrare che la Sicilia, come corpus storico, politico, sociale ed economico, è “altro” rispetto all’ente pubblico, la “Regione Siciliana”, che ha il diritto di rappresentarne gli interessi e la volontà. Un po’ come la distinzione tra Italia, che è una Nazione, e Repubblica Italiana, che è un ente pubblico statuale sovrano che di quella nazione ha la rappresentanza o, su scala, come tra Europa e Unione Europea.

Ancora, la Sicilia era stata (lo abbiamo dimostrato qui e qui) uno Stato sovrano dalla notte dei tempi e le modalità di integrazione politica con la Penisola erano tutte gravemente viziate da un punto di vista costituzionale. Lo Statuto poneva rimedio a questi vizi e sanciva una sorta di “Trattato di Pace” tra Italia e Sicilia. E “pacta sunt servanda”. Solo i Siciliani hanno nella sostanza, quando non astrattamente nella forma, il diritto a rimodulare i propri rapporti con lo Stato italiano.

Oltretutto lo Statuto era stato solo formalmente “concesso” da re Umberto II. Nella sostanza esso era stato elaborato e votato in Sicilia, dalla Consulta Regionale, che allora, per riconoscimento dello Stato italiano, era titolata a rappresentare il volere della Sicilia.

La Consulta Regionale funzionò, nel suo piccolo, da ASSEMBLEA COSTITUENTE. FURONO I SICILIANI A DARSI DA SOLI QUESTO STATUTO. Poi il Governo De Gasperi, allora facente pure funzioni legislative, si limitò a riconoscere e a ratificare lo statu quo. Si tratta quindi nella sostanza di un vero e proprio “patto”, peraltro a seguito di una guerra civile separatista, un “trattato di pace” che solo in un’ottica strettamente formale può ridursi ad una legge costituzionale come tutte le altre. Non vedere la portata storica di quel Patto costituisce la prima e più grave violazione dello Stato di diritto.

Infine, nell’ordinamento europeo sopravveniente, l’ordinamento speciale per le regioni insulari si configura non come strumento di privilegio, o “aiuto di stato”, ma come riconoscimento dovuto per la necessaria coesione economica e sociale.

 

Lo Statuto del 1946, dunque, acquisisce una legittimità anche sostanziale e rafforzata, oltre a quella formale derivante dai richiamati atti della Costituente, sia per le ragioni storiche che attribuiscono alla Sicilia, come alla Catalogna, la Scozia, la Baviera, a titolo di esempio, la natura di comunità statuale plurisecolare inquadrata oggi in un più ampio stato, comunità dotata di un istituto parlamentare tra i più antichi del mondo, se non il più antico del mondo, sia per le ragioni economico-sociali legate alla sua condizione strutturale geografica di perifericità, e di insularità, tutelata dall’art. 174 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (e non solo da questo) che al nostro interno ha forza di norma costituzionale addirittura prevalente su quelle interne.

 

  1. Quale approccio metodologico

 

Nel prosieguo, tuttavia, questi dati istituzionali restano sullo sfondo. Si vuole dare fondo ad un’analisi più accurata delle singole e specifiche violazioni che sono state operate contro detto Statuto.

 

Al proposito vanno anteposte due notazioni preliminari.

Una riguarda lo jure condito dello Statuto, l’altra lo jure condendo.

 

Sotto il primo profilo (de jure condito) va detto che le violazioni dello Stato di diritto non sono avvenute soltanto nella più brutale forma dell’atto amministrativo illegittimo, della decurtazione illegittima, o addirittura de facto, delle risorse finanziarie, o della legge apertamente incostituzionale. E nemmeno queste violazioni si sono perpetrate solo per mezzo dell’elaborazione ed emanazione di decreti attuativi distorti, i quali, nel premettere solennemente l’espressione “In attuazione dello Statuto etc.”, tradivano la lettera e lo spirito dello stesso.

 

La violenza più sottile si è consumata piuttosto per mezzo della “giurisprudenza costituzionale abrogativa”. In una parola lo Stato italiano non ha mai seriamente accettato che lo Statuto facesse parte del proprio diritto costituzionale. I centri di potere romani, e i succubi rappresentanti della politica in Sicilia, hanno sempre considerato l’Autonomia siciliana un vero e proprio “corpo estraneo” da svuotare e snaturare progressivamente, fino a neutralizzarlo del tutto, a danno naturalmente della Sicilia e dei Siciliani.

La parte più importante è stata svolta per mezzo di sentenze della Corte Costituzionale che, a partire dal 1956, quando questa si è arrogata il diritto di decidere su materie non di propria competenza (su questo torneremo, ma ricordiamo sin d’ora che tutti i giudici, anche quelli costituzionali, sono costituiti sempre PER LEGGE, e mai PER SENTENZA, almeno negli stati di diritto), contribuendo alla soppressione de facto ma mai de jure dell’Alta Corte per la Regione siciliana, la conseguenza non è stata solo quella formale di un cambio di giudice naturale.

La conseguenza più severa di questo cambio di giudice è stata la sistematica abrogazione FINANCHE DEL SIGNIFICATO LETTERALE DELLE NORME DELLO STATUTO.

Come è stato possibile che ciò sia accaduto e accada?

 

Abbiamo già visto come il legislatore costituente, nel recepire “sano” lo Statuto del 1946, avesse apposto una norma capestro, poi dichiarata incostituzionale da sentenza dell’Alta Corte del 1949, con la quale avrebbe potuto mutilare con legge ordinaria e a maggioranza semplice tutti gli istituti più vitali dell’Autonomia siciliana.

Persa questa occasione per l’intervento sollecito dell’Alta Corte, la Corte Costituzionale, molti anni dopo, ha avuto buon gioco ad argomentare che lo Statuto era rimasto “non coordinato” con la Costituzione, e – incredibile dictu – questa coordinazione si sarebbe fatta non con le leggi di modifica costituzionale prescritte dalla sentenza citata dell’Alta Corte, ma per mezzo di semplici (ed assai erratiche) interpretazioni da parte della stessa Consulta che, di volta in volta, ha fatto cadere uno per uno tutti gli elementi contenuti nello Statuto.

Ora questa operazione è inamissibile e gravissima sotto diversi punti di vista.

Intanto perché – come abbiamo visto  e come vedremo meglio – la Corte Costituzionale non era un giudice competente a dirimere le questioni in parola.

In secondo luogo perché le eventuali difformità di interpretazione tra Statuto e Costituzione non autorizzavano la Consulta ad abrogarne parti intere, ma solo a cercare di salvare, come sempre accade nella interpretazione della legge, quanto più possibile il significato logico-letterale della norma, non “fare cadere l’intera norma”. Peraltro il coordinamento autentico spetta solo al legislatore costituzionale e non certo al giudice costituzionale.

Poi il giudice costituzionale non poteva stravolgere l’ordinaria interpretazione secondo la quale una legge posteriore e speciale (lo Statuto è del 1948, nella versione integralmente recepita, la Costituzione del 1947) prevale sempre contro una legge anteriore e generale. E persino la riforma del 2001 ha fatto salve (in teoria, molto in teoria) le norme di miglior favore per le regioni a statuto speciale, ancorché precedenti in termini cronologici. In tal modo il giudice costituzionale italiano non solo si è arrogato un potere di decidere di cui la Costituzione vigente in quel momento non l’aveva investita, ma ha usato, con vero abuso di potere, di questa competenza per stravolgere i canoni normali dell’interpretazione delle norme e per, in ultimo, abrogare nella sostanza lo Statuto siciliano.

L’unico “appiglio” che avrebbe avuto, ammessa e non concessa la competenza a decidere, sarebbe stato ed è stato, quello di stratificare le fonti di diritto costituzionale in due livelli: principi generali dell’ordinamento costituzionale, e norme costituzionali comuni. In tal modo, derubricando SISTEMATICAMENTE TUTTE le norme dello Statuto siciliano a norme costituzionali comuni, e SISTEMATICAMENTE TUTTE, anche le più insignificanti e minute, norme costituzionali in contrasto a “principi generali dell’ordinamento”, si può abrogare qualunque norma di autonomia. Un passaggio però del tutto illogico, giacché i principi fondamentali della Costituzione Italiana sono espressamente richiamati all’inizio (o all’art. 139 finale) del testo costituzionale fondamentale. Eleggere TUTTA la Costituzione italiana a “principio fondamentale”, ogniqualvolta una norma confligge con lo Statuto siciliano è un non senso. Soltanto principi universali dello Stato di diritto, come specifici diritti dell’uomo, o di libertà, o di democrazia, possono essere considerati come inderogabili, anche qualora non fossero esplicitati nel testo costituzionale. Lo stesso principio di “unità di giurisprudenza costituzionale”, dopo l’entrata in vigore dei trattati europei che subordinano la stessa giurisprudenza italiana a quella europea, sono davvero difficilmente difendibili, e si mostrano per quello che sono, cioè artifici retorici preordinati all’azzeramento di una legge costituzionale coessenziale alla Repubblica! Così come forzatissimo appare il riferimento alla disposizione transitoria e finale VII portato a giustificazione della soppressione dell’Alta Corte: l’Alta Corte, una volta introitata dalla Legge 2 del 1948 NON ERA PIÙ DERIVATA DA “NORME PREESISTENTI ALLA COSTITUZIONE”, e peraltro le controversie di cui si occupava NON ERANO QUELLE RICHIAMATE DALL’ART. 134 DELLA COSTITUZIONE, che è norma generale, derogabilissima da leggi speciali. L’art. 134 non parla della Regione Siciliana ma della Repubblica italiana e, in ogni caso, resta emendato dalla successiva Legge 2 del 1948. Ma su questo torneremo.

In questa sede, da un punto di vista metodologico, assumeremo come vigente il tenore logico-letterale dello Statuto ed iscriveremo le numerose e scandalose sentenze della Consulta tra le più gravi violazioni dello stato di diritto.

 

Sotto il secondo profilo (de jure condendo) dovremmo avere a rigore un atteggiamento molto conservativo. In questa sede non dobbiamo discutere la bontà delle norme statutarie ma solo la sua attuazione, stante il carattere formale della discussione.

E tuttavia, evidenziandole come tali, metteremo di volta in volta alcune debolezze intrinseche semantiche, sintattiche o di coordinamento con l’ordinamento italiano ed europeo, o di contraddizione logica interna, quando se ne presenterà l’occasione.

L’attuazione dello Statuto va – a nostro avviso – difesa nella causa e nello spirito che animava lo Statuto. Se qualche passaggio è infelice va denunciato come tale, quasi come invito a un legislatore attento a porre rimedio a qualche falla del legislatore statutario. Di fatto però questi nostri modesti suggerimenti saranno limitatissimi. Il j’accuse è giuridico e istituzionale, non certo politico.

 

  1. Gli “istituti” dell’Autonomia

 

Per chiudere questa Premessa diamo una breve scorsa agli istituti formali e fondamentali dello Statuto. Gli unici, forse, a non aver avuto ostacoli. Del resto un’Autonomia formale non ha mai dato fastidio a nessuno.

 

Art. 1: Stabilisce l’istituzione della Regione autonoma, come persona giuridica a sé, con Palermo capoluogo. Stabilisce anche che questa Regione non può violare l’unità politica dello Stato né i principi democratici che ispirano la vita della Nazione.

 

Quest’articolo è attuato. Lo Stato di fatto, nell’indicare il limite dell’unità politica inviolabile, vera excusatio non petita, riconosce che è in presenza di una Regione dotata di poteri sovrani sostanzialmente statuali, altrimenti il richiamo sarebbe privo di senso per una formazione puramente amministrativa. Il richiamo autonomo ai “principi democratici” è l’unico abbozzo di contenuti sostanziali dello Statuto. Lo Statuto è una piccola Costituzione, che per i suoi contenuti programmatici si rifà TOTALMENTE ai principi generali e alla I Parte della Costituzione italiana. Ed è giusto che sia così. In modo ellittico il legislatore mette un limite all’ordinamento interno della Regione che non può esulare dai principi fondamentali delle democrazie occidentali.

Il legislatore ha chiamato “Regione” quello che in sostanza è uno “Stato confederato” e “capoluogo” quella che è in sostanza una “capitale”. Segno questo di massima attenzione alla natura unitaria dello Stato italiano.

 

Art. 2: Definisce gli organi della Regione, cioè l’organo legislativo, l’Assemblea, e l’organo esecutivo, il Governo, a sua volta costituito da un Presidente e da una Giunta.

 

Quest’articolo è attuato. Però esso sarebbe, alla luce della riforma del 2001, DECOSTITUZIONALIZZABILE. La Regione potrebbe e dovrebbe separare lo Statuto dalla forma di Governo che può assumere solo con Legge Regionale interna. Questo darebbe flessibilità. La Regione è nella sostanza un piccolo stato con solo due poteri su tre: legislativo ed esecutivo. Il potere legislativo è affidato ad una Assemblea (più di un Consiglio, meno di un Parlamento); il potere esecutivo ad un vero e proprio Governo regionale (ma i suoi “ministri regionali” sono ancora definiti soltanto “Assessori” e l’insieme “Giunta” come nelle altre autonomie). Decostituzionalizzando la forma di Governo la Regione potrebbe dotarsi di denominazioni più conformi alla sostanza: Parlamento regionale (che potrebbe anche essere bicamerale, come negli stati USA), Governo regionale, Ministri regionali, e così via. Ma qua l’inadempimento NON è IMPUTABILE ALLO STATO.

Unica modifica nel 2001, quando il “Presidente Regionale” (formula leggermente più “sovrana”) è stato sfumato in “Presidente della Regione”, per normalizzare l’autonomia e renderla simile alle altre regioni. Anche questa denominazione, in caso di decostituzionalizzazione della forma di Governo, sarebbe affidata alla legislazione regionale.

 

La Regione è stata una Regione parlamentare fino al 2001. Fino ad allora tutto il potere risiedeva nell’Assemblea, che nominava e revocava il Presidente e gli Assessori al suo interno.

Nel 2001 si è fatta una riforma “presidenziale”, con la quale il Presidente è eletto direttamente dai cittadini (seppure secondo una legge elettorale in cui di fatto è “trascinato” dal voto per il Parlamento), e i suoi poteri sono aumentati in modo significativo. Di questo si dirà oltre. Ma sin da ora si ricorda che secondo

 

l’art. 41-bis le disposizioni sull’elezione del Presidente, della Giunta, e del legame tra Presidente e Assemblea possono essere modificate a maggioranza assoluta dell’Assemblea senza passare da legge costituzionale.

 

In pratica questa piccola parte della “forma di governo” è stata decostituzionalizzata, non ha bisogno di attuazione, ma non è stata mai usata dal legislatore regionale, il quale, se e quando vuole, POTREBBE TORNARE ALLA REGIONE PARLAMENTARE purché sia garantita stabilità all’esecutivo (una sorta di “sfiducia costruttiva”). A nostro sommesso avviso, visti i risultati distastrosi della Regione Parlamentare, il passaggio sarebbe quanto meno opportuno.

 

Artt. da 3 a 7 e 8-bis: regolano la vita dell’Assemblea Regionale. In esse è stabilita la composizione e funzionamento della stessa, nonché l’interruzione della legislatura per dimissioni della metà più uno dei suoi componenti.

 

Questa parte ha subito alcune modifiche nel tempo, le più importanti delle quali sono l’allungamento della durata della legislatura da 4 a 5 anni nel 1972, la riduzione dei deputati da 90 a 70 nel 2013, e poco altro. Le poche modifiche sono tutte nel segno di un depotenziamento e normalizzazione della stessa, a dire il vero, o del tutto insignificanti. Questi articoli sono pienamente attuati.

Una valutazione critica va data all’art 8-bis, introdotto nel 2001 e fallito perché nessun deputato intende interrompere in anticipo la legislatura. Ma la sua presenza non è dannosa.

Si noti che i “consiglieri” sono “deputati”, segno di una vera e propria natura “parlamentare” dell’Assemblea, come si vedrà meglio nel seguito.

Si sorvola sugli altri singoli istituti, perché si tratta di materia già attuata, ma si vuole ricordare come sopra la sua potenziale DECOSTITUZIONALIZZAZIONE, non realizzata solo per mancata volontà della Regione stessa.

Soltanto una nota critica va posta all’art. 5, che – caso unico in Europa – impone un giuramento a un organo legislativo anziché all’esecutivo, e lo impone per il “bene inseparabile dell’Italia e della Regione”. Articolo questo contrario alla libertà di pensiero dei deputati, e quindi contrario ai principi fondamentali dello stato di diritto. Di fatto, quindi, incostituzionale per davvero, e da abrogare.

 

Art. 9 e 10: regolano l’esecutivo, cioè la figura del Presidente e degli altri componenti del Governo regionale, nonché il principio del simul stabunt simul cadent, cioè l’impossibilità per i deputati di sfiduciare il Governo senza sciogliere l’Assemblea. Il Presidente è eletto formalmente dai cittadini, mentre gli Assessori sono liberamente nominati e revocati da questo.

 

Sono articoli pienamente attuati. Le modifiche più importanti sono state attuate nel 2001, quando è stata introdotta l’elezione diretta del Presidente della Regione, seppure con un meccanismo di trascinamento dal voto parlamentare che non rende l’elezione del Presidente realmente autonoma. In precedenza Presidente e Assessori erano singolarmente eletti dall’Assemblea ed erano componenti della stessa. Ora solo il Presidente è componente di diritto dell’Assemblea. Il principio del simul stabunt simul cadent sancito all’art. 10 è completamente fallito, perché nessuna Assemblea decide da sé di andare a casa (come l’8-bis), ma qua con la conseguenza grave di lasciare per anni presidenti senza maggioranza e senza rinnovo assembleare. Anche queste norme sulla forma di governo si potrebbero decostituzionalizzare e rivedere.

 

Le leggi elettorali non sono invece costituzionalizzate (3 primo comma, 8-bis, 9 terzo comma e 41-bis) ma dovrebbero essere in teoria sottoponibili a un referendum abrogativo secondo quanto disposto dall’art. 17-bis, che si dovrebbe istituire con una legge elettorale approvata da una maggioranza rafforzata. La Regione non ha attuato questo articolo, ma ciò non è imputabile allo Stato bensì a inerzia della Regione stessa.

 

In sintesi, quindi, la forma di governo regionale (le forme dell’Autonomia) è l’unica parte dello Statuto pienamente attuata e, laddove non lo è o sarebbe perfettibile, è solo per inerzia del legislatore regionale, il quale potrebbe anche decostituzionalizzare questa parte dello Statuto.

Questa parte dello Statuto, infatti, non è quella essenziale, non è quella che incide nei rapporti tra Sicilia e Italia, ma soltanto quella che dà posizione e ruoli alla classe politica locale.

Le vere violazioni non sono nella parte formale dello Statuto, ma in quella sostanziale, di cui parleremo alle prossime puntate.

 

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