Se gli storici di quest’epoca coloniale rivalutano il “Sud”, c’è da non fidarsi

Non sono per niente d’accordo con l’emerito professor Renda. La monarchia borbonica fu una novità, certamente, ma solo per il Regno di Napoli, che dopo secoli di viceregno andava a costruirsi in stato.
Per la Sicilia, invece, cambiava ben poco, veramente poco. La costituzione siciliana, con pochissime modifiche, resta immobile durante i 65 anni circa di viceregno napoletano.
Semmai è il contrario. Comincia, lento lento, l’abbraccio italico, quello stesso abbraccio che oggi ci strangola. Certo, si sta parlando della monarchia dualistica del 1700 e non ancora delle “Due Sicilie” ottocentesche: e quindi ancora una corona, ma due stati. Un periodo di cui si può anche dare un giudizio positivo per molti versi. Ma perché? Perché la Sicilia partecipa di un moto di trasformazioni che investe tutta l’Europa in quel secolo. Retrospettivamente non tutte positive, ma questo è un altro discorso. Stiamo parlando di un’epoca in cui, a parte la gestione (in teoria confederata, in pratica subalterna) della politica estera e della Corona, la Sicilia aveva proprie leggi, proprio stato, proprie forze armate, proprio erario, non comunicante con quello napoletano, proprie dogane, propria magistratura, propria moneta… Insomma, con alcune riforme specifiche del periodo, continuava il solito viceregno. Ma anche un periodo in cui la funzione legislativa del Parlamento, ora finalmente particolarmente vivace, veniva sistematicamente posposta e mortificata da Napoli (che si riservava il placet), mentre le città demaniali perdono quell’autonomia che anche sotto la Corona Spagnola non avevano mai perduta del tutto, e vengono nel fatto, anche se non nel diritto, occupate dai viceré napoletani, spesso ostili a tutto ciò che era siciliano, ma ancora lontani dai poliziotti, anzi sbirraglia, che avrebbero amministrato la Sicilia nel 1800 con la frode e la violenza.
Il Settecento, però, è il secolo del nazionalismo siciliano. Man mano che la società siciliana si svegliava dal torpore del secondo Seicento, la “nazionalità” siciliana, il valore e la specificità delle sue istituzioni, sono sentite in modo sempre più forte dai Siciliani del tempo. Che certamente uno storico come Renda derubricherà a “baronaggio”, perché la storiografia unitaria degli ultimi decenni ha eretto un muro artificiale tra la Sicilia e la sua classe dirigente, che dovrebbe esserne chissà perché un corpo estraneo, mentre era né più né meno quella che più di altri ne scriveva la storia, come in Polonia, in Inghilterra, o in Norvegia. Nessuno storico sano di mente direbbe, parlando dell’Inghilterra del Settecento: “Eh no, non è l’Inghilterra, sono i suoi Lord…”. Ma vai a ca… gli risponderebbero tutti.
La Sicilia del Settecento era appena legittimista di facciata, ma invidiava Napoli per il fatto di aver perso l’occasione storica di riavere un re proprio. Il re di Napoli NON ERA sentito come re proprio, ma come una continuazione della sequela di re stranieri che inviavano i suoi viceré.

C’è però un aspetto inquietante nella presa di posizione di Renda. Davvero inquietante, dal mio punto di vista. Nella sua fase terminale (oggi) il colonialismo italiano è impegnato in una cancellazione radicale dell’identità siciliana, o per lo meno in un suo tentativo. Troppe dichiarazioni dell’attuale presidentino della regione non possono essere sottovalutate (tipo “Qualcuno mi spieghi che significa identità siciliana”, oppure “Bisogna smetterla con l’autonomia egoista”), e vanno tutte nel segno della finale omologazione e digestione della nostra antica nazione.
Perché dico questo? Perché è strana questa petizione di principio di Renda, che come storico rispettiamo s’intende. Molto strana. La storiografia “di sinistra” egemone in Sicilia dal Dopoguerra, ha sempre esaltato l’Unità d’Italia come momento di “emancipazione” del Mezzogiorno dai suoi antichi mali, occultandone la natura coloniale, e sconfessando la magistrale e lucida visione di Gramsci.
Ora “rivaluta” i Borboni. Perché? Li rivaluta in chiave anti-siciliana, non giriamoci intorno.
Dire che “Sicilia-è-inscindibile-da-Napoli” serve solo a evitare o diluire o rallentare prese di coscienza nazionali siciliane, proprio mentre l’Italia è impegnata nell’operazione di sterminio finale della Sicilia stessa. Perché “Lo Regno delle Due Sicilie” oggi, nel XXI secolo, è solo un’invenzione piagnona centralista e un po’ bacchettona, che serve a tenere in vita l’Italia centrata su Milano. E quindi a chi, pur essendo un grande professionista della storiografia, sta per partito preso dalla parte del colonialista, comincia un po’ a piacere. Tutto qua.
Pensateci.

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