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Le truffe finanziarie alla Sicilia prima di Crocetta: l’antefatto

Chi è un minimo informato sa che mai la Sicilia aveva fatto accordi con lo Stato autolesionisti come quelli siglati da Crocetta nel 2012 e 2013; accordi che, beninteso, i due presidenti successivi si sono guardati bene dal rimuovere o ridiscutere.

Meno persone sanno che, anche prima, non erano rose e fiori. La frode italiana ai danni della Sicilia è di vecchia data. In questo articolo vogliamo ripercorrere le frodi “precedenti”, in parte superate dalle peggiori successive, ma importanti da conoscere per capire come si è potuto scendere poco a poco così in basso, nel silenzio complice di tutta la comunità politica siciliana.

L’articolo è lunghetto, per quanto mi sia sforzato di semplificare e sintetizzare, perché lunghe e complicate sono le faccende trattate. Diciamo subito che la frode si è in gran parte giocata sul binomio “RISCOSSO” vs. “MATURATO”, dove con il primo termine s’intende il luogo in cui l’entrata pubblica è materialmente versata dal contribuente, mentre con il secondo il luogo in cui si verifica il presupposto che legittima il tributo o altro tipo d’entrata.

Da dove nasce questo inghippo? Dallo Statuto stesso, cioè nel 1946. Per evitare, però, che sembri una mia ricostruzione, da nazionalista siciliano, cedo la parola alla Corte Costituzionale, in un rarissimo momento di sincerità della stessa. Nel 1999, infatti, con la sentenza n. 111, questa riconosce che lo Statuto delinea “un modello finanziario ispirato ad una netta separazione tra finanza statale e regionale”. Cosa vuol dire? Vuol dire che la Corte riconosce che l’Italia e la Sicilia si dovevano comportare come paesi completamente distinti, con distinti ordinamenti tributari: ciascuno dei due “paesi” avrebbe istituito per legge i propri tributi, li avrebbe gestiti, li avrebbe introitati, per mezzo di uffici propri.

Per ragioni “transitorie”, nel 1947/48 si optò per una “devoluzione” di tributi erariali alla Regione, “in sostituzione” dei “tributi deliberati dalla Regione”, secondo un elenco altrettanto provvisorio. Questo modello provvisorio, sconfitto definitivamente l’autonomismo militante con Milazzo nel 1960, finì per diventare definitivo. La stessa sentenza che riconosce questa congenita differenza tra i due ordinamenti poi afferma, infatti, che “l’ordinamento finanziario della Regione sia stato costruito, in base alle norme di attuazione dello Statuto, anche ALLONTANANDOSI DAL DISEGNO ORIGINARIAMENTE SOTTESO ALLA FORMULA TESTUALE DELL’ART. 36 DELLO STATUTO”. In pratica il decreto “definitivo”, cioè il DPR 1074/1965, tuttora vigente, almeno fino alle sciagurate modifiche apportate da Crocetta e Musumeci, si è tradotto in un sistema di finanziamenti basati in sostanza sulla devoluzione alla Regione del gettito di tributi erariali riscossi [si tenga a mente questo participio, “riscossi”] nel suo territorio. Ciò che nella legge di bilancio del 1947, e poi nel decreto attuativo del 1948, era norma provvisoria, diventa ora norma definitiva. La Regione mantiene un diritto platonico ad istituire “ulteriori” propri tributi, ma di fatto li sostituisce con un elenco di tributi erariali riscossi nel proprio territorio. E questo è stato il primo grande colpo all’Autonomia finanziaria, quello che ha inibito alla Regione di dotarsi di una propria politica economica, contrariamente a lettera e spirito dello Statuto. Un decreto attuativo “incostituzionale” niente meno! Ma chi avrebbe dovuto protestare in ARS del resto? Il “centro-sinistra” di allora dominato dalla DC che lo aveva siglato? No di certo. Le opposizioni comunista e neo-fascista espressione anch’esse di forze unitarie, anzi più centraliste ancora?

Del resto l’elenco di tributi devoluti era così ampio, che la politica locale, rinunciando ad una autonomia dell’entrata, poteva (allora) godere di un’ampia autonomia della spesa, anzi, deresponsabilizzata. E quindi si poteva implementare quell’autonomia irresponsabile del clientelismo, l’autonomia “democristiana”, che sin dal primo momento si era rivelata egemone, che ora trionfava, e che tutt’oggi si mantiene assai vitale.

Ma, ottenuto questo bottino per aver portato a Roma lo scalpo di Milazzo e dello Statuto, lo Stato in quel decreto attuativo del 1965 aveva già piazzato gli ordigni esplosivi che col tempo avrebbero strangolato la Regione.

Uno di questi era il fatto che alla Regione spettavano, di quei tributi, sì il 100%, ma solo se “riscossi in Sicilia”. Era sufficiente spostare nel Continente il luogo di riscossione, e tanto sarebbe bastato a sottrarre risorse alla Sicilia, pur prodotte in Sicilia, ogni volta che fosse stato necessario.

Nel 1971, in fondo solo pochi anni dopo, una legge quadro, la n. 825, preannunciava una rivoluzione del sistema tributario italiano, in parte per addivenire agli obblighi CEE sull’IVA, in parte per dare attuazione alla previsione costituzionale dell’imposizione progressiva. Così, in attuazione di quella legge, nel 1972, fu istituita l’IVA (in sostituzione della vecchia IGE), mentre nel 1973 fu stabilito il nuovo sistema di imposte, incentrato sull’IRPEF, la cui struttura è ancora riconoscibile oggi.

Le imposte, da reali, diventano personali. Vengono non più tassate nel luogo in cui si trova la ricchezza oggetto di tassazione, ma al domicilio fiscale del contribuente. Vanno quindi ad incidere pesantemente sul luogo di riscossione. Per la Sicilia una vera e propria batosta. Del resto, nel 1971-73 nessuna forza autonomista era all’orizzonte in Sicilia. Allora, chi voleva contestare, dava stupidamente il proprio consenso ad Almirante, che raggiunse percentuali ragguardevoli, ma che era del tutto interno al sistema coloniale italiano. In verità la legge quadro prevedeva in un articolo che, per la Sicilia, si sarebbe dovuto adeguare il decreto attuativo del 1965, ma ciò non è mai avvenuto. Il Ministero delle Finanze, fuori da ogni previsione di legge, decide monocraticamente che ai vecchi tributi elencati nel 1965 “corrispondono” ora una serie di nuovi tributi, il cui gettito, “se riscosso in Sicilia” (ciò che avviene sempre meno con la concentrazione industriale), va integralmente alla Regione.

La Regione non sta a guardare, protesta in Corte Costituzionale (ormai l’Alta Corte è un ricordo).  Anche perché, persino il DPR 1074 del 1965, prevedeva in un articolo, il n. 4, che se le entrate spettanti alla Regione, per ragioni amministrative, fossero state riscosse altrove, il gettito sarebbe rimasto attribuito alla Regione. Ma questo articolo presupponeva un calcolo del Ministero delle Finanze, un calcolo onesto sugli effetti della riforma, un calcolo che non è MAI AVVENUTO. La Corte Costituzionale sbrigativamente sostiene che le norme statutarie sulle entrate della Regione sarebbero “particolarmente generiche e laconiche”. E l’art. 4 del decreto attuativo? Non pervenuto! Anzi, peggio, se ne dà un’interpretazione “abrogativa”. La Regione lamentava soprattutto che le ritenute fiscali dei sostituti d’imposta (le tasse sui dipendenti) andavano allo Stato anche se il dipendente era in Sicilia; e parimenti che il nuovo meccanismo di riscossione dell’IGE (e poi, a regime, dell’IVA) non faceva affluire risorse nel luogo ove era avvenuto il consumo, ma presso la sede legale dell’impresa, cioè, assai spesso, allo Stato, anziché alla Regione.

Per la Consulta le “esigenze amministrative” potrebbero essere circolari, modalità organizzative decise dagli uffici finanziari, ma il meccanismo di riscossione di ritenute e IGE (poi IVA) era un “profilo connaturato alla struttura del tributo”, e quindi non spostava risorse “spettanti alla Regione”, giacché alla Regione spetta solo il “riscosso” in Sicilia e non il “maturato” in Sicilia. Gabbati!

Nel 1999 doveva però esserci in Corte Costituzionale qualcuno che ci voleva assai bene. Perché, oltre alla sentenza che abbiamo citato all’inizio, un’altra, la n. 138, sposta ufficialmente il gettito dal criterio del luogo di riscossione a quello “del luogo dove matura l’obbligazione tributaria”. Forse avvedendosi che le sentenze di inizio anni ’70 avevano consentito allo Stato progressivamente di togliere troppe risorse alla Sicilia, abbiamo una inversione di tendenza; inversione di tendenza che, come vedremo, sarà però priva di effetti finanziari.

L’art. 2 del decreto del 1965 attribuiva alla Regione il gettito riscosso della maggior parte dei tributi erariali, ma ora se ne dà una lettura estensiva, sostenendo che la disposizione “non va intesa nel senso che sia sempre decisivo il luogo fisico in cui avviene l’operazione contabile della riscossione” ma piuttosto nel senso che “essa tende ad assicurare alla Regione il gettito derivante dalla ‘capacità fiscale’ che si manifesta nel territorio della Regione stessa, quindi dai rapporti tributari che hanno in tale territorio il loro radicamento, vuoi in ragione della residenza fiscale del soggetto produttore del reddito colpito (come nelle imposte sui redditi), vuoi in ragione della collocazione nell’ambito territoriale del fatto cui si collega il sorgere dell’obbligazione tributaria”.

Questa importante sentenza avrebbe dovuto fare “ringalluzzire” la politica locale, trattandosi di una sentenza capace di spostare cifre sull’ordine di alcuni miliardi di euro l’anno. Ma siamo nel lungo periodo della prima regione presidenziale di Cuffaro (2001-08). E Cuffaro è un vecchio democristiano, non vecchio ancora anagraficamente, ma di certo politicamente. Per lui l’importante è “galleggiare” con le risorse esistenti, senza alcun conflitto autonomista con il centro. La sentenza, così, resta a lungo lettera morta.

Ci vuole Lombardo, l’autonomista, per rivendicarne il gettito. La premiata ditta Lombardo-Armao, allora all’economia, rivendica tutta una serie di tributi in funzione di quella sentenza: l’imposta sulle assicurazioni, maturata in Sicilia e riscossa altrove (la Sicilia non ha compagnie assicurative), l’IVA su operazioni imponibili realizzate in Sicilia, imposte sostitutive su redditi di capitale trattenute e versate da Poste Italiane o altri istituti di credito, ritenute fiscali sui redditi dei dipendenti statali.

A quel punto, per ragion di stato, la Corte Costituzionale, torna violentemente alle sentenze abrogative dello Statuto. La sentenza n. 116/2010 è un vero scandalo che ancor oggi grida vendetta. La Corte, con una piroetta storica, deve sconfessare persino le proprie precedenti interpretazioni, perché “in contrasto con l’interpretazione letterale, sistematica e storica delle norme di attuazione dello Statuto”. Si noti! Non in contrasto con lo Statuto, che dovrebbe essere la prima fonte! In contrasto con le “norme di attuazione”, che potrebbero essere sbagliate e che diventano una specie di “nuovo statuto”. Dicono proprio così, “di doversi distaccare dall’interpretazione dello Statuto e delle norme di attuazione fornite dalle sentenze 138/99 e 306/2004”, perché frutto “di un erroneo assunto interpretativo dello Statuto e delle norme di attuazione … e di dovere riaffermare … il sistema di riparto del gettito dei tributi erariali … evidenziato dalle sentenze n. 81 e 71 del 1973”. In pratica la Regione non può accedere ad altro che a quanto riscosso in Sicilia. Ciò che è maturato in Sicilia, ma riscosso altrove, NON LE SPETTA!

L’art. 4 del DPR 1074/1965 era già stato ridimensionato da quelle lontane sentenze. Ora è praticamente azzerato. Restava però il problema dell’art. 37, quello che molto chiaramente esprime, a complemento dell’art. 36, un principio di territorialità del gettito.

E, con la medesima sentenza scandalosa, se ne restringe l’ambito fino a farlo diventare praticamente irrilevante, nonostante nel frattempo Cuffaro (2005) avesse lucrato un nuovo decreto attuativo che avrebbe finalmente dovuto sbloccarlo. Di che si sta parlando? Si sta parlando del gettito delle imprese, in particolare delle società, che hanno la loro sede fuori dalla Sicilia, ma che producono in Sicilia il loro gettito.

La riforma del 1973, creando l’IRPEG (oggi sostituita dall’IRES), che era personale, aveva spostato il pagamento dell’imposta fuori dall’Isola. La ferita non si era mai rimarginata. Il decreto attuativo del decreto attuativo (già fa ridere così) del 2005 era rimasto lettera morta. Restava il cadavere insepolto. Arriva la sentenza del 2010 a dare un colpo da maestro anche a questo: “La lettura dell’articolo 37 dello Statuto, lungi dall’esprimere un principio generale, attribuisce, in via eccezionale, alla Regione una quota di imposta etc….” Insomma, per dirla in breve, si tratta di una norma da accettare proprio come una singolare eccezione, e da interpretare nel senso più restrittivo possibile.

Nel ricorso non si erano rivendicate, invece, le ritenute sui lavoratori dipendenti da datori di lavoro privati. Perché? Perché, per questa categoria, nel lontano 1974, la Regione aveva “scippato” una sentenza della Corte Costituzionale con cui aveva tempestivamente recuperato il relativo gettito. Anche questa vicenda merita una menzione. La sentenza è del 1974, ma lo Stato dà attuazione a questa sentenza soltanto nel 1993, a circa vent’anni di distanza, senza dare nulla, neanche una tantum, alla Regione per tutto il tempo trascorso. Ora, a rigore, secondo la sentenza del 2010, queste ritenute, non rientrando nelle eccezioni disposte dall’art. 37, si sarebbero dovute restituire allo Stato. Ma, per fortuna, le cose che “per abitudine” si davano alla Regione, continuano ad essere date. Il problema, quindi, più che di mancato gettito, è di totale mancanza di certezza del diritto.

Naturalmente Lombardo non reagì più di tanto alla sentenza della Corte. Aveva vinto, nel 2008, le elezioni, politiche e regionali, alleandosi con Bossi e Berlusconi. Ma presto la Lega prese ad emarginarlo. Non gli furono dati ministeri nel nuovo governo, solo un paio di sottosegretari. Nel 2009 si modificò la legge elettorale per le europee, al fine di impedirgli di avere una rappresentanza, mettendo lo sbarramento “nazionale” al 4%. Poi, quando rivendicò le risorse che sarebbero spettate alla Regione in virtù delle sentenze costituzionali del 1999 e del 2004, lo Stato rispose picche, e la Consulta diede – come abbiamo visto – ancora una volta ragione allo Stato. Lombardo, in Italia, era socio di assoluta minoranza all’interno della maggioranza. E il disegno della Lega, allora come oggi, era quello di sottrarre al Mezzogiorno vagonate di miliardi, esattamente come ora con l’Autonomia differenziata. La presenza di un partito un po’ sicilianista, un po’ meridionalista era quindi una contraddizione. Che si preferì superare semplicemente schiacciandolo. Lombardo decise di non reagire, se non a livello locale, dove si aprì ad effimere maggioranze variabili, ad una tattica democristiana esasperante, dalla quale comunque alla fine uscì sconfitto. Ma, da un punto di vista finanziario, quella sconfitta della Sicilia intanto era incassata senza alcuna ulteriore reazione.

A proposito di art. 37, si è accennato sopra al decreto farlocco ottenuto da Cuffaro per la sua attuazione, cioè il decreto attuativo del decreto attuativo. Anche questa vicenda è talmente paradossale che merita di essere raccontata. Come si è visto, già il Decreto 1074 del 1965, attribuiva alla Regione tutto il maturato nel suo territorio, anche se, sempre come si è visto, tra prassi furfantesca dello Stato, e sentenze oblique della Corte, in pratica questo art. 37 non aveva mai trovato attuazione.

Com’è noto, nel 2001, si fece la cosiddetta “Riforma federalista dello Stato”, la stessa in virtù della quale oggi, a più di 20 anni di distanza, si sta parlando di “Autonomia differenziata”. Fu una riforma fatta dal “centro-sinistra” per dare risposta alla presunta “Questione Settentrionale”, dopo che questa aveva fatto irruzione sulla scena politica italiana alla fine degli anni ’80 e ne era diventata protagonista al tramonto della Prima Repubblica. Non fu una riforma genuinamente dettata da volontà di decentramento (che lo Stato e i suoi Ministeri non hanno mai avuto, proprio da un punto di vista genetico), ma una mediazione, per tenere a bada lo spirito “leghista”, anche dentro i partiti di sinistra, e nello stesso tempo contrarlo con alcune limitazioni e correttivi.

Naturalmente per l’altro schieramento non andava bene. Ci voleva un “federalismo” più spinto, alla Miglio, da vera e propria apartheid interna. Ciò che si fece con un disegno di riforma costituzionale del 2005, portato avanti dall’eterno Berlusconi. Questo progetto, come noto, fu poi affondato da un referendum.

A quel punto, però, essendo la Sicilia una roccaforte di voti per il centro-destra, Cuffaro pretese un “dividendo” in cambio del proprio assenso. E questo dividendo arrivò: il Decreto legislativo n. 241/2005. Con questo brevissimo decreto si imponeva allo Stato di determinare la quota di reddito delle società che non avevano sede nell’Isola e di attribuirlo alla Regione. Decreto inutile, perché già quello del 1965 lo prevedeva. Ma siccome, come si è visto, tra interpretazioni varie, quello era restato lettera morta, con questo si sperava di rivitalizzarlo. Lo Stato, furbescamente, condizionò questo trasferimento ad un trasferimento “simmetrico” di spese. Ti diamo 4 miliardi di art. 37? Bene! Però ti prendi 4 miliardi di spese che ancora lo Stato svolge al posto tuo in Sicilia. Ne derivò ovviamente un contenzioso, perché questo trasferimento simmetrico di spese non si capì mai bene cosa fosse. Del resto la riforma super-federalista era stata bocciata, ma la Sicilia aveva portato a casa comunque questo risultato, o simulacro di risultato.

Questa volta, incredibilmente, in Corte Costituzionale vinse la Sicilia. Con sentenza 145/2008 la Corte stabilì che “tale criterio riguarda solo la specifica ipotesi di trasferimento, dallo Stato alla Regione, delle funzioni di ricossione delle imposte in conseguenza della devoluzione di ‘quote di competenza fiscale’ dello Stato”. In pratica, la Corte dice che se la Regione si prende queste entrate, deve sopportarne il costo di accertamento e riscossione, il che è corretto.

E qui accadde un altro scandalo vergognoso: lo Stato HA DISCONOSCIUTO LA SENTENZA DELLA CONSULTA, non attribuendo MAI questa entrata alla Regione, con il pretesto che non avrebbe “neutralità finanziaria”. Tale strappo è gravissimo e pericolosissimo per un paio di ragioni. La prima è che la Corte Costituzionale, per quanto sbilanciata a favore dello Stato, non garantisce la Regione neanche quando, assai raramente, le dà ragione. Lo Stato, alla fine, fa quel che vuole e nessuno può fermarlo. La seconda, ancora più grave, è di prospettiva. Se per prassi o per sentenza si tolgono risorse alla Regione e si danno allo Stato, allora va bene. Se, per eccezione, c’è una sentenza che toglie allo Stato e dà alla Regione, allora lo Stato, prima di scucire anche un centesimo, deve scaricare una pari spesa alla Regione perché non riesce a trovare la copertura finanziaria. In pratica è la Sicilia, con i suoi abitanti e le sue imprese, la copertura finanziaria dello Stato, e deve essere sempre pronta a subire le angherie di uno stato fallito. E, in prospettiva, se oggi dai e togli un centesimo, ma a somma zero, e domani invece togli e basta, il destino scritto della Regione è quello di una continua contrazione di risorse con effetti devastanti sulla società e sull’economia di quella che è ormai una colonia interna alla luce del sole.

Facciamo ora un passo indietro. Si è detto all’inizio di questo articolo che, nel fare gli accordi del 1965, lo Stato aveva messo il criterio del riscosso, che – come si è visto – si è rivelato nel tempo un grimaldello per un furto feroce, sempre più feroce nel tempo.

Ma ci fu un altro grimaldello messo nel decreto del 1965. Lo Statuto riserva allo Stato solo tre entrate. Il Decreto del 1965 aggiunge, quasi sbadatamente, che se lo Stato dovesse imporre nuove imposte, per esigenze specifiche, può riservarle allo Stato in via eccezionale.

Detto così sembra anche equo. Un’eccezione, via, può capitare per il bene comune nazionale.

Però, con questo trucco, lo Stato nel tempo ha usato la Sicilia come bancomat, dichiarando “nuove” e per “esigenze specifiche” entrate di ogni tipo, anche togliendo risorse vive alla Regione.

Questa ulteriore scorrettezza ha avuto spesso, per non dire sempre, l’avallo della Corte Costituzionale, e si sono commesse innumerevoli vergogne, e la Sicilia ha dovuto subire innumerevoli umiliazioni.

Ad esempio, lo Stato proroga un’addizionale già esistente, e già attribuita alla Regione, e la Corte arriva a dire che, sì, il tributo non è nuovo, ma lo è l’entrata, perché attivata da un nuovo atto specifico dello Stato. E così lo Stato toglie alla Regione quel che vuole. La Regione lamenta davanti alla Corte che la manovra non ha copertura nei conti della Regione e questo impedisce di svolgere servizi già a questa attribuiti. La Corte risponde che, se la Regione non specifica esattamente quali servizi deve coprire con quelle specifiche entrate, tale assunto non funziona, e quindi lo Stato, a pizzichini alla volta, può togliere tutto quello che vuole. Talvolta si abolisce un’imposta, già attribuita alla Regione, e se ne attribuisce una nuova allo Stato, e la Corte avalla. E questo per la “novità”.

Per quanto riguarda il requisito delle “esigenze specifiche”, altre vergogne simili. Talvolta lo Stato, genericamente, rinvia ad altri futuri, indeterminati, provvedimenti, in cui si dirà quali sono queste benedette esigenze specifiche. E la Corte avalla. Tal altra, specie a partire dagli anni novanta, la riserva delle entrate allo Stato viene destinata, come esigenza specifica, “alla copertura degli oneri per il servizio del debito pubblico, nonché alla realizzazione delle linee di politica economica e finanziaria in funzione degli impegni di riequilibrio del bilancio assunti in sede comunitaria”. Una formulazione del tutto generica, e tutt’altro che eccezionale. Ma la Corte, sempre bonaria con lo Stato, giustifica questa motivazione, perché si è in “emergenza finanziaria”. Del resto questo è lo stesso principio con il quale, più tardi, si prevederà il “contributo al risanamento della finanza pubblica erariale”, in omaggio al Fiscal Compact, anch’esso estraneo al dettato statutario, ma questa volta più incidente e sistematico, e peraltro in Sicilia avente un peso inaudito, quadruplo pro capite rispetto a tutte le altre regioni, e secondo solo alla Lombardia in valore assoluto.

Per chiudere sulle vergogne “ante” Crocetta, diamo uno sguardo a quelle entrate che lo Statuto riserva allo Stato, 2° comma dell’art. 36, per lo svolgimento delle (poche) funzioni comuni. Prima della riforma del 1971, la Regione tratteneva l’IGE e le imposte di consumo, mentre allo Stato, come da Statuto, erano riservate le imposte di produzione (oltre ad altre due categorie di entrate di cui ora non parliamo). Dopo la Riforma lo Stato si è preso il gettito di TUTTE le imposte indirette, lasciando (in parte, ma questa è altra storia) alla Regione solo l’IVA, benché la più importante.

La Regione, sia pure timidamente, nel tempo ha protestato per lo scippo delle imposte di consumo (alla “pompa” per intenderci). Sulla materia interviene “finalmente” la Corte Costituzionale con un’altra sentenza “sberla”, la n. 115 del 2010. In pratica, per questa sentenza, visto che il presupposto d’imposta di tutte le accise matura alla produzione o importazione, e non al consumo, dove matura solo il presupposto della riscossione, definisce TUTTE le imposte indirette come di produzione (tranne l’IVA) e comunque di difficile distinzione da quelle di consumo, peraltro in questo caso dimenticando che alla Regione spetterebbe (per la sua stessa giurisprudenza pregressa) tutto il “riscosso” in Sicilia, che qua evidentemente non vale, perché sono tutte “battezzate” come imposte di produzione, e quindi sottratte radicalmente alla Regione.

Ma con l’occasione la Consulta commette un’altra vergogna. Dimentica del fatto che “sono riservate” allo Stato solo le imposte di cui al secondo comma dell’art. 36, mette in discussione il fatto che “tutte le altre spettino naturalmente alla Regione”. Come fa? Semplice, ignora lo Statuto e riprende i decreti attuativi in materia finanziaria, del 1948 e del 1965. Sostiene che in questi decreti le imposte di consumo spettanti alla Regione erano distintamente indicate, quindi “mentre tutte le imposte di produzione spettano, come stabilito in via di principio dallo Statuto [che qui vale, nostro appunto], allo Stato, non è configurabile un corrispondente principio generale di riserva alla Regione delle imposte di consumo [ché qui lo Statuto non vale più un tubo, nostra nota]”. Non solo è ignorato l’impianto dello Statuto, ma la Corte sembra “dimenticare” (ops!) che l’art. 2 del DPR 1047/1965 attribuirebbe alla Regione “tutte le entrate tributarie erariali riscosse nell’ambito del suo territorio, dirette o indirette, comunque denominate…” con l’eccezione di quelle che lo stesso articolo indica come riservate allo Stato (cioè le imposte specificamente di produzione).

In questo modo, venivano sottratti 2/3 miliardi l’anno, che si aggiungevano a quegli altri (3 o 4) spettanti ai sensi dell’art. 37 o delle sentenze che le attribuivano tutte le entrate il cui presupposto maturasse in Sicilia. Un vero bagno di sangue.

In questo modo, il chiaro dettato dell’art. 36 è stravolto: il secondo comma spetta certamente tutto allo Stato, il resto “non si sa”, dipende dalle norme attuative.

Fermiamoci qua.

Questo era lo Stato dell’arte trovato da Crocetta, ed è incredibile che rispetto a questa condizione già di per sé drammatica si sia potuta consumare un’ulteriore catastrofe. Catastrofe dopo la quale il criterio del “riscosso” viene formalmente abbandonato, e con esso tutta la giurisprudenza pregressa, ma questa è altra storia.

Una notazione finale. In questa progressiva stretta, accelerata nel XXI secolo, le vicende finanziarie della Sicilia furono accompagnate da una montagna di calunnie, a telecamere riunite, sulla Sicilia sprecona, fallita, mantenuta dallo Stato, da commissariare. Detenendo il monopolio dell’informazione (persino di quella locale siciliana), l’informazione italiana ha avuto buon gioco a vendere le proprie bugie.

Con esse ha cementato odio e disprezzo dei concittadini verso la Sicilia, in modo che qualunque pur legittima richiesta venisse accolta previamente da una salva di fischi e pernacchie, in modo che non se ne facesse nulla.

Ma con essa persino i Siciliani ne uscivano confusi e impauriti: ci mantengono, rubiamo, ohibò, abbiate almeno un po’ di pietà di noi. Un crimine, sintetizzato nella affermazione ricorrente di Musumeci, a epilogo di questa storia: “Lo Stato aiuti la Sicilia!”.

Sì, la aiuti, andandosene però. L’unica soluzione allo stato attuale.

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