Il Parlamento del Regno di Sicilia

Oggi è il 9 giugno 2024. I Siciliani non stanno votando per il Parlamento Europeo, se non per una minoranza sempre più piccola.

I Siciliani non votano più. I Siciliani, quelli che il Parlamento lo hanno inventato, hanno smesso di crederci.

Evidentemente non lo ritengono più una cosa democratica.

Ma, come e quando hanno votato in passato?

In passato hanno votato, molte volte, per i Parlamenti italiani, ma questa è un’altra storia, di cui parleremo magari un’altra volta.

E quasi sempre per il loro parlamento, quello che oggi si chiama Assemblea Regionale Siciliana, ma che con vari nomi esiste da secoli.

Ma, lasciando da parte tutti i parlamenti siciliani più o meno “liberali”, dal 1812 in poi, come funzionava il Parlamento di antico regime? 

Com’era regolata la “Rappresentanza della Nazione”? Perché i Siciliani consideravano legittimo un parlamento che la storiografia dipinge come “baronale”?

Le cose non sono così semplici, e, visto da vicino, il Parlamento del Regno di Sicilia era davvero una fonte formidabile di legittimazione del potere.

All’inizio c’erano solo le “assise”, cioè le riunioni generali dei capi normanni con i loro principali feudatari, sia laici, cioè i conti, sia ecclesiastici cioè gli abati.

La prima di cui si ha notizia la tenne Ruggero I nel 1099 a Mazara, per discutere una questione amministrativa. Quello non era un vero parlamento. Era solo il “Consiglio del Gran Conte”, una cosa antichissima che gli antichi Vichinghi, gli antichi Germani, gli antichi Indoeuropei, avevano sempre avuto: il “capo” si riunisce con gli uomini più valorosi per decidere questioni importanti.

La vera invenzione del Parlamento la si deve a suo figlio, Ruggero II, nel 1130, proprio quando fu fondato il Regno di Sicilia. In quel momento il Parlamento non accolse più soltanto i feudatari, ma anche “civili” esperti di materie giuridiche o semplicemente uomini colti o in vista delle varie parti del Regno.

In quella fase primordiale il Parlamento era ancora poco più che un “parlamento di nominati”, ma già l’ampiezza di questa nomina rendeva l’assemblea realmente rappresentativa della volontà della Nazione. E, in quella sede, fu dato al Parlamento il diritto di votare la “Forma di Stato” per la fondazione del Regno, votata come “Rifondazione” dopo la parentesi romana e saracena, e, in assenza di sovrano legittimo, di poter determinare chi fosse il Re

In quella sede, quindi, il Parlamento nacque, insieme al Regno di Sicilia, come il detentore ultimo della sovranità nazionale. Dall’alto la benedizione di un papa (in quel momento, in realtà, di un antipapa, l’unico sul “mercato” disponibile), a significare la Grazia di Dio, l’unzione divina come i biblici sovrani dell’antico Israele; ma dal basso la “Volontà della Nazione” espressa dal voto assembleare. Il Regno di Sicilia nasceva insieme al suo Parlamento, che ne sarebbe diventato il simbolo nei secoli.

Pochi anni dopo lo stesso Ruggero II volle che le leggi più importanti del Regno, quelle al vertice delle fonti del diritto, fossero approvate dal Parlamento, le cd. “Costituzioni del Regno”. In quel momento il Parlamento, per quanto ancora primordiale, stava diventando anche il principale organo legislativo, insieme alla Corona.

Certo, il Parlamento delle dinastie normanna e sveva, restava un corpo alla fin fine consultivo, ma i suoi dettati vincolavano di fatto la legislazione dei re.

Nel tempo il Parlamento si andava irrobustendo. L’imperatore Federico (II come SRI, ma I come re di Sicilia), nel voler dotare il Regno di una monumentale opera di legislazione nel campo del diritto pubblico, volle che, insieme alla nobiltà e al clero, in maniera non più “nominata” ma “eletta” (dai consigli civici) prendessero parte al Parlamento anche i rappresentanti delle città. Con suo figlio Manfredi questa “usanza” da episodica diventava strutturale.

La natura rappresentativa, realmente rappresentativa, del Parlamento si andava rafforzando.

Ma è con la Rivoluzione del Vespro, in cui i re avevano bisogno di un continuo sostegno finanziario e militare da parte della Nazione, che il Parlamento diventò un organo permanente e la Sicilia la prima monarchia costituzionale d’Europa. La politica estera, quella tributaria, tutta la legislazione, almeno dal Parlamento di Catania del 1296, divennero “codecise” tra Re e Parlamento.

Facciamo però un altro salto, e arriviamo a vedere com’era organizzato il Parlamento stesso quando raggiunse la sua stabilizzazione, nella seconda metà del 1400.

Dalla seconda metà del 1400 al 1812 la forma costituzionale della Sicilia restò assai stabile.

Come funzionava dunque questo Parlamento del Regno di Sicilia?

Per capirlo bisogna considerare il Regno di Sicilia come una sorta di federazione di tante città-stato, ciascuna delle quali aveva diritto a inviare un rappresentante al Parlamento. I feudi non abitati, o debolmente abitati, non mandavano rappresentanti (le cosiddette “Terre baronali”). Malta, dal 1530, non mandava più rappresentanti al Parlamento, perché non era tenuta più a pagare le tasse, sdebitandosi del proprio servizio al Regno con un servizio di difesa navale, ad opera dei famosi Cavalieri, ma applicando le leggi emanate dal Parlamento di Sicilia nel suo territorio.

Tutto il resto dell’Isola era divisa in Città feudali e Città demaniali. Ciascuna di queste città era uno stato a sé, a tutti gli effetti. La reale struttura del Regno di Sicilia era dunque una struttura federale. Nel diritto feudale, insegnato all’Università di Catania, si parlava a tutti gli effetti di “stati feudali”. Gli stati feudali erano di due tipi: laici ed ecclesiastici. 

Gli stati laici erano, a seconda del titolo, principati, ducati, marchesati, contee (una sola viscontea) e baronati. Al loro interno ciascuno aveva il proprio ordinamento come una piccola monarchia a sé. In alcuni, specie i più piccoli, tutto il potere era accentrato nel “barone”, che nominava a suo piacimento gli amministratori del Comune (l’Università come si diceva allora), ma in altri, specie i più grandi, la città feudale godeva di una certa autonomia nei confronti del principe, e si eleggeva alcune magistrature al suo interno. Erano i “civili” o “borgesi”, cioè artigiani, commercianti o piccoli proprietari terrieri, che potevano riunirsi in Consigli civici ed eleggere le loro magistrature. Essi però erano in un certo senso “cittadini” di questo piccolo stato, e quindi soggetti ai tributi e alle norme (derivate, rispetto a quelle del Regno) del singolo feudo. Erano cioè liberi (la servitù della gleba era stata abolita da Federico II Aragona, numerato III nella storiografia, la schiavitù sparita di fatto da secoli), ma “vassalli”, cioè comunque soggetti ai tributi feudali in natura (angarie) o in denaro (perangarie). I “rustici” o “villani”, cioè gli agricoltori, che costituivano la maggior parte della popolazione, non accedevano alle magistrature municipali, ma erano comunque uomini liberi. Ogni stato feudale laico era rappresentato in Parlamento dal suo “sovrano”, cioè dal principe o barone stesso.

Stesso discorso, più o meno, per gli stati “ecclesiastici”, dove l’abate di norma svolgeva le stesse funzioni del barone.

Ogni comune feudale, laico o ecclesiastico, a richiesta doveva fornire una “Compagnia baronale”, cioè contribuire alla difesa del Regno arruolando un piccolo esercito. I feudatari che non volevano o non potevano farlo, e tutti i feudatari ecclesiastici, cui non conveniva essere messi a capo di truppe, pagavano il cd. Addoamento, cioè pagavano a loro spese i costi della costruzione di una compagna, senza dirigerla personalmente.

Anche i feudatari ecclesiastici rappresentavano in Parlamento le loro comunità.

Eccezione al principio che ogni comune mandasse un rappresentante era data dalla presenza, in Parlamento, di tutti i vescovi, come se l’episcopato fosse un’altra sorta di stato feudale, dotato però di “extraterritorialità”: cioè con una sovranità sui propri dipendenti e beni, ma senza un territorio definito sul quale esercitare il proprio potere. Tutti i vescovi, quindi, compreso il Vescovo-Abate Greco-Cattolico di Messina, per i non pochi Siciliani di rito cristiano-ortodosso, erano membri di diritto del Parlamento.

C’erano infine i rappresentanti delle 42 città demaniali. Queste erano altrettante repubbliche, ciascuna con la propria magistratura, la propria costituzione, il proprio grado di autonomia dal governo centrale. Più autonoma di tutte la Repubblica di Messina, sorta di vera e propria repubblica marinara; così importante che il primo cittadino era sottratto alla nomina della potente magistratura locale, ma veniva nominato direttamente dal re.

In genere, però, le magistrature erano tutte elettive, e lo erano dai tempi del Vespro. Anche laddove, per motivi politici, era il Viceré a suggerire il nome del Primo cittadino, questo veniva sempre eletto, magari per acclamazione, dal Consiglio civico. Altrove si facevano regolari elezioni, con candidature, i cosiddetti “squittini” (cioè scrutini). I consigli civici vedevano la presenza di tutti i “Consoli”, cioè dei rappresentanti eletti dalle corporazioni di arti e mestieri. La borghesia siciliana dei principali centri urbani controllava così la vita politica ed economica del Paese, e si occupava persino della difesa delle città nei momenti di bisogno. La polizia era quasi tutta a carattere municipale: nel Medio Evo i “berrovieri”, poi “birri”, infine, nel detto volgare, “sbirri”, non sempre con un’accezione positiva.

Il primo cittadino aveva un nome diverso per ogni comune. A Palermo era il Pretore, a Messina lo Stratigò, a Catania il Patrizio, a Trapani il Prefetto, e così via. E tutte e 42 le città-repubbliche, avevano un aggettivo che le contraddistingueva: Palermo era “Felice”, Catania era “Chiarissima”, per via dell’università, Castrogiovanni (Enna) era “Inespuganbile”, Polizzi era “Generosa”, Messina “Nobile”, e così via. Tra il primo cittadino e il Consiglio Civico, una giunta, chiamata alla romana “Senato”.

Tutte queste città inviavano, ogni 3 anni (poi ogni 4 anni nella parte finale della vita del Regno) un rappresentante al Parlamento, detto “Sindaco”, spesso il primo cittadino, ma non sempre.

Non vi è dubbio che, per mezzo delle città demaniali, il corpo della società fosse efficacemente rappresentato in Parlamento. E oltretutto gli stessi ceti dominanti, visto il loro ascendente e ruolo nelle campagne, erano a buon diritto i rappresentanti delle rispettive popolazioni.

Il Parlamento si divideva in Tre Bracci, cioè in tre Camere: Militare (feudatari laici), Ecclesiastico (vescovi e abati), Demaniale (sindaci delle città libere).

All’interno si votava per testa, ma poi il Parlamento votava per bracci: 2 a 1 e il “capitolo” (cioè la proposta di legge che poi andava al placet regio) o il “donativo” (cioè il tributo) era approvato.

Perché, sì, il Parlamento aveva essenzialmente due funzioni: tributaria e legislativa. E le due funzioni erano legate. Il Parlamento approvava la manovra finanziaria di legislatura (triennale e poi quadriennale), ma in cambio chiedeva al re la concessione di una legge (il capitolo), mentre le vecchie leggi proposte dal re e approvate dal Parlamento (le Costituzioni) a un certo punto si cristallizzarono e non ne furono più emanate di nuove.

La legislazione parlamentare (Costituzioni e Capitoli) era al vertice delle fonti del diritto. Le “Prammatiche” (diremmo oggi i “Regolamenti”) regi e viceregi le erano subordinate, così come i provvedimenti normativi minori (i “dispacci” regi e viceregi).

Quando il Parlamento terminava la propria sessione, lasciava in carico una Commissione permanente, chiamata “Deputazione del Regno”, di 12 componenti, 4 per ogni braccio, che aveva il compito di curare l’accertamento e la riscossione di tutte le imposte dirette (i “donativi”), che poi riversava nel tesoro regio. Re e viceré erano in pratica spossessati del tutto della funzione tributaria, perché anche le imposte indirette, amministrate da una magistratura indipendente (Il Tribunale del Real Patrimonio), le sfuggivano.

Questo a grandi linee il nostro antico Parlamento.

Possiamo immaginarci la pompa della sua convocazione plenaria.

Il discorso del Re all’apertura, pronunciato dal Protonotaro del Regno. Sulle scalinate i Ministri che attorniavano il vicerè (cioè il Sacro Regio Consiglio); poi, in ordine, entrava e si sedeva sulla destra il Braccio ecclesiastico, presieduto dall’arcivescovo di Palermo, primate di Sicilia, e poi via via fino all’ultimo abatino; poi, sempre in  ordine, l’Olimpo dell’aristocrazia siciliana, dai principi di Caltanissetta, i Branciforti, primo titolo del Regno, che presiedevano il Braccio militare seduto alla sinistra, poi, in ordine di rango, fino all’ultimo barone di regno; infine, in fondo alla sala, e di fronte al viceré, i rappresentanti del “Popolo”, il Braccio demaniale, dal Pretore di Palermo, che presiedeva l’assise, fino all’ultimo sindaco. Questo braccio, tranne il Pretore di Palermo, che era scelto sempre tra la prima aristocrazia, era formato da bassa nobiltà o da avvocati, tutti rigidamente vestiti di nero, per non offuscare la vanagloria delle divise dei “militari-feudali”, umili rappresentanti, ma veri rappresentanti del Popolo, gratificati già dall’essere stati ammessi nel cuore delle istituzioni siciliane.

Dalle testimonianze letterarie apprendiamo che i Siciliani ci credevano davvero a questo Parlamento, ne erano orgogliosi, e fecero almeno 4 rivoluzioni quando vollero toglierlo.

Teoricamente rinato dalle sue ceneri il 15 maggio del 1946, su basi questa volta democratiche, come è finito questo Parlamento? E perché i Siciliani se ne sono dimenticati?

Dov’è il nostro Parlamento?

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