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Pubblico impiego e Partite IVA sono alleati non nemici

Prendo spunto da un post FB di un collega accademico (non è necessario fare nomi) che, con il gusto della provocazione, propone un “eptalogo” del “buon governo” di quelli che strappano facili applausi, perché fondati su alcuni “topoi” (luoghi comuni), ormai tanto radicati nel sentire comune quanto malfermi se si va alla sostanza delle cose.

Ai primi due punti di questi “sette comandamenti” (gli altri li tralasciamo o ne parleremo altra volta), troviamo scritto:

  1. Il pubblico impiego improduttivo va licenziato;
  2. Gli evasori perseguiti a vita con confisca e carcere.

In due punti soltanto il collega è riuscito a mettere insieme le cd. “sinistre” e “destre” di sistema, apparentemente in contrapposizione, ma in realtà in piena condivisione dell’unica agenda globale. L’occasione per me è troppo ghiotta, tanto per mettere qualche puntino sulle i, quanto per comprendere che la tradizionale distinzione dei sistemi rappresentativi occidentali in “Destra” e “Sinistra” ha fatto definitivamente il suo tempo. Corollario: quando sentite dire “quello è fascista”, “quello è comunista”, se non si tratta realmente di indicazioni di rare bestiole politiche, girate strada, sono in genere “demonizzazioni” preconcette dell’avversario.

Secondo la “destra di sistema” (quelle che mi piace chiamare le “formiche nere”), infatti, da un lato c’è un paradiso privato, dove funziona tutto alla perfezione, dall’altro c’è un brutale Sceriffo di Nottingham, un parassita, che si chiama P.A. fatto da ingordi funzionari che passano la giornata al bar o mettendosi in malattia (o, oggi, facendo finta di lavorare in “smart working”). Questo pachiderma parassita succhia sangue vitale al paradiso delle partite IVA ed è quindi indicato al loro odio sociale: ècrasez l’infâme! Scannate il pubblico impiego, umiliatelo, licenziatelo, riducetelo alla fame e alla prostrazione, e finalmente sorgerà il sole dell’avvenire.

Secondo la “sinistra di sistema” (le “formiche rosse” nella mia bizzarra metafora) l’immagine è speculare. Da un lato ci sono tanti buoni cittadini che pagano le tasse (dipendenti pubblici, multinazionali e loro dipendenti), dall’altra il selvaggio e oscuro mondo delle partite IVA, quelli che (horribile dictu!) usano ancora il “contante”, quelli che occultano i loro redditi, non pagano le tasse, si arrangiano e nascondono i soldi sotto il materasso, mentre il resto del mondo fa immani sacrifici. Odio e anatema contro questi imprenditori e professionisti asociali! Che siano maledetti! Che la Guardia di Finanza entri nelle loro case come la polizia cinese ai tempi del peggiore lockdown di Wuhan: li afferri per i capelli, li sbatta dentro, gli sequestri, anzi confischi, tutto ciò che trova. Solo così si potrà stabilire un po’ di giustizia sociale.

Questa “manfrina” contiene, ovviamente, un fondo di verità. Il fondo di verità è che i servizi pubblici sono sempre insufficienti rispetto ai bisogni (ad esempio stiamo chiudendo un Paese e facendo collassare l’economia, quando sarebbe stato certamente meno costoso avere il doppio o anche il triplo di posti in terapia intensiva con relativo personale), comunque si guardi alla cosa, e, nonostante ciò, la pressione fiscale è un fardello insopportabile.

La narrazione ufficiale è che siamo guidati da una èlite “buona”, “illuminata”, “tecnocratica”, che saprebbe certamente dove andare a metter mano, se solo potesse. E che gli “esperti”, specie i professori di “management”, se potessero fare politica in prima persona e senza mediazioni, saprebbero ancor meglio dove andare a metter mano, senza quelle fastidiose concessioni alla democrazia che i “sempre-meno-eletti” politici di turno ancora sono costretti a mantenere. Per contro, nonostante questa schiera di “eletti” (non nel senso della democrazia, ma in quello etimologico di “prescelti”), c’è al di sotto una società bruta, informe, incivile e asociale. Una massa di opportunisti e oscurantisti, che pensa solo per sé, e mai al bene comune. Questi intrattabili “umani”, che appena dai loro un lavoro, cercano il modo di prendere lo stipendio senza far nulla, e quando producono reddito, lo occultano alle pubbliche amministrazioni.

Lo Stato “spreme” i cittadini, sempre nella narrazione ufficiale, ma siccome “tutti” se possono evadono, spreme sempre gli stessi, e sempre di più. E, nonostante ciò, dopo averli spremuti, sempre nella narrazione ufficiale, tutte queste risorse prendono la strada della corruzione, dell’assistenzialismo, dello spreco, mentre alla società ritornano solo le briciole.

In questo modo è semplice dividere lo stesso “popolo” oggetto di disprezzo in due tribù di “arrabbiati”: le formiche nere e le formiche rosse. Le quali si odiano a vicenda, e se potessero si farebbero fuori fisicamente. Due mondi che non comunicano, ma che vengono usati dalle élite per portare avanti sempre la stessa agenda: da un lato sempre più tasse ed espropri alla classe media delle partite IVA, dall’altro sempre meno diritti e sempre più vessazioni a danno degli strati bassi del pubblico impiego e, a che ci siamo, a danno dei lavoratori tutti.

L’esito di lungo termine di questo processo è uno e uno solo: la “proletarizzazione” di strati sempre più ampi della società. E con essa della verticalizzazione della distribuzione delle risorse: sempre meno ricchi, che sono sempre più ricchi, sempre più poveri, che sono sempre più poveri. Non ci credete? Fate un confronto tra la società degli anni ’80, poi quella dei primi anni del millennio, poi quella degli anni ’20 che si stanno proiettando davanti a noi e tirate da soli le vostre conclusioni. Il benessere sociale diminuisce costantemente… ma non per tutti.

Questa visione del mondo è in realtà frutto di una profonda (e voluta) distorsione della realtà e volta a nascondere il reale conflitto di classe. La sociologia moderna ha un debito verso Marx, e può tributarlo senza essere per forza marxisti. Marx ha individuato una cosa che c’era sempre stata, ma non era ben definita: il conflitto di classe. Ma non per questo ci dobbiamo fossilizzare in quello che lui, nei sistemi sviluppati dei suoi tempi, vedeva come il conflitto di classe: borghesia contro proletariato. Dov’è oggi il “proletariato” di cui parlava Marx? C’è un grande proletariato universale, precario, senza autocoscienza, ma assomiglia di più a quello che Marx chiamava “sottoproletariato”, strumento più di reazione che di progresso. Dov’è oggi la “borghesia”? Quale borghesia? Nazionale o globale? Finanziaria o reale?

È chiaro che il contenuto della teoria è ormai del tutto inadeguato, mentre in parte il metodo resta di attualità.

Oggi c’è ancora un gran conflitto di classe, ma si è spostato di scala. Da un lato una ristrettissima élite in grado di produrre denaro dal nulla, i padroni della speculazione internazionale, cui è legata una catena di servitori, da quelli di maggior lusso, fino alla plebaglia. Dall’altro i “produttori”, di ogni tipo, imprenditori, professionisti e lavoratori, pubblici e privati.

In una battuta “speculatori” e “produttori”: ecco servito il nuovo conflitto di classe. Se i “produttori” sapessero di essere sulla stessa barca non giocherebbero più alle formiche nere e rosse. E come si fa a non farglielo sapere? Controllando militarmente l’informazione.

I due punti di cui sopra sono frutto di questa falsa contrapposizione tra le due categorie di produttori.

Ma sono sostenibili?

Che vuol dire “licenziare il pubblico impiego improduttivo”? Qual è il “pubblico impiego improduttivo”? Intanto gli enti pubblici non producono redditi, ma direttamente beni e servizi per il soddisfacimento di bisogni umani, spesso collettivi e indivisibili.

Se misuriamo la “produttività” delle aziende pubbliche dal reddito che producono sono tutte improduttive. Le chiudiamo tutte e licenziamo tutti?

Altrimenti come misuriamo la produttività degli enti pubblici? Ci sono molti criteri (e me ne sono occupato professionalmente), ma tutti vanno verso una valutazione olistica. Si misura quanto produce il complesso della P.A., il singolo dipartimento, tutt’al più il singolo ufficio. La produzione di beni e servizi pubblici non è additiva: NON È LA SOMMA DI QUELLO CHE PRODUCONO I SINGOLI, METTIAMOCELO IN TESTA!

È come il risultato del lavoro di una squadra di calcio. Il mediano può non segnare mai, ma essere indispensabile più del centravanti o del portiere.

Certo, ci sono casi limite. Il dipendente al quale si danno precise disposizioni e si rifiuta di farle. Ebbene, per questi casi, secondo me molto più ridotti di quel che si pensa, gli strumenti di repressione ci sono. Si attivino le procedure di controllo esistenti, anziché fantasticarne di nuove.

Ma il dipendente che non fa nulla, o che fa poco, perché non gli si dice di far nulla va licenziato pure? Non ci sono servizi da fargli fare? Ma se mancano risorse umane da tutte le parti?

E se non è colpa sua, visto che sono altri che non gli danno nulla da fare, non è che la sua sorte dopo il licenziamento è anche affar nostro? Che farà il dipendente pubblico licenziato a 50 anni? Andrà a pesare sullo stato sociale? E chi paga? E l’effetto macroeconomico di una maggior disoccupazione e minori redditi in circolazione qualcuno li ha valutati?

Si dirà no, non è questo il caso. Ci riferiamo al dipendente che produce… poco. E che vuol dire “poco”? Che c’è una qualche soglia e un qualche criterio di misurazione riconosciuto. Se c’è va bene. Anche noi dipendenti universitari abbiamo soglie minime di produttività basate su criteri oggettivi, al di sotto delle quali il docente non “becca” gli scatti di anzianità. Va bene, ci sta. Ma quando si parla di “licenziamento” a chi si affida la definizione di soglie così delicate? Alla discrezione del “dirigente”, al quale potrebbe non importare nulla a differenza dell’imprenditore privato? E quindi? Si corre a scodinzolare al dirigente per non essere buttati fuori? Mi dicono che già qualcosa del genere avvenga nelle scuole…

Insomma diciamolo chiaramente: non si affronta la complessità con regole semplicistiche. L’idea di “licenziare il fannullone”, cosa che già è nell’ordinamento per i fannulloni veri, è tanto suggestiva quanto indirizzata ad un altro fine, ideologico, di mortificazione e demonizzazione del dipendente pubblico in quanto tale.

Peccato che è lo stesso che ti cura in ospedale, ti spegne gli incendi, si prende cura di e insegna qualcosa ai tuoi figli, ti calcola la pensione che percepirai, ti protegge dai delinquenti. Sei pronto a provvedere da solo a tutto? No? E allora finiamola di dire stupidaggini.

E che dire dell’altro punto? “Gli evasori perseguiti a vita, carcere..”, e altre persecuzioni varie.

Ebbene, mi va di dare una notizia ai fautori della “persecuzione”. Già c’è… Oggi chi, per sbaglio, perché non ce l’ha fatta, si dimentica di dichiarare un reddito, posticipa il pagamento di una cartella, spesso entra in una spirale di accertamenti e ritorsioni da cui difficilmente ne uscirà vivo. Le tasse si devono pagare, certo, lo ha ricordato recentemente anche il papa (ma lo aveva detto Cristo qualche tempo fa…). Ma quali tasse? Qualunque aliquota? Anche la confisca di tutta la ricchezza privata? Oggi il titolare della Partita Iva è in fondo qualcuno che non sta chiedendo nulla allo stato, nessuna indennità di malattia o maternità, nessun reddito di cittadinanza. Chiede soltanto di essere lasciato in pace, di produrre reddito per sé e per i propri dipendenti, di distribuire ricchezza, di farla circolare.

Se gli imponiamo minimali fiscali e contributivi che all’inizio lo strangolano, forti progressività dell’imposizione che disincentivano la crescita, ancor più forti imposte indirette che comunque falcidiano il reddito quando riesce a percepirlo, tassato e tartassato… Che dire ad esempio della tassa sulle giacenze sui conti correnti superiori a 5.000 euro? Se tengo i contanti sono un evasore per definizione, ma se tengo i miei soldi nel conto corrente, già supertassati, lo Stato me li preleva perché se ne ho assai (assai 5.000 euro?) non si sa mai, qualcosa avrò evaso, anche se non si sa cosa. Sembra il detto confuciano sessista (sarà poi vero?): “Quando torni a casa bastona tua moglie, tu non sai cosa ha fatto, ma lei sì”. Se spendi troppo poco ti tasso, perché sicuramente farai qualcosa in nero. Se spendi troppo ti tasso lo stesso, perché per spendere tanto avrai qualche reddito che non so. Insomma in un incubo fiscale, dove la tosatura non rispetta il principio secondo cui i prelievi dovrebbero rispettare la capacità fisica di produrre il reddito in futuro, invochiamo ulteriori persecuzioni e giri di vite?

Ma ci rendiamo conto che questa macchina infernale serve per lo più al “servizio del debito” che è stato architettato in Europa e con il bene comune non c’entra quasi più nulla?

La soluzione, l’unica soluzione, sarebbe quella di togliere lo Stato alla classe degli speculatori, riprendersi la funzione monetaria, rimettere l’economia reale al centro dell’agenda politica, abbassare significativamente la pressione fiscale, tornare indietro verso una società più anonima e meno tracciata, tenersi la P.A. che serve, con i giusti controlli. I produttori hanno molta più convenienza ad allearsi tra di loro che non a scannarsi gli uni con gli altri. Ma prima devono fare saltare la casta dei servi del grande capitale internazionale che dilaga nelle istituzioni, spesso denominata “democratica” in spregio al significato letterale delle parole.

Ho letto  recentemente che il padre della Repubblica Cinese (pre-Mao), tale Sun Yat Sen, propose tre semplici punti: Nazionalismo – Democrazia – Giustizia sociale.

E se ripartissimo da là? Una Sicilia democratica, indipendente e solidale?

Con tanto pragmatismo e mettendo in soffitta le ideologie novecentesche, destra, sinistra…. Non affidiamo più niente agli “ideologi”, hanno già fatto abbastanza danno nella storia. In Russia, dopo 4 anni di ideologia pura, dovettero tornare in parte all’odiato capitalismo, perché se no non usciva neanche il pane dai forni….

Più pragmatismo e meno professori nelle istituzioni.

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