La Sicilia del Vespro e la monarchia indipendente sotto dinastia Aragona

Il Capitolo più bello. Il Vespro

 

Capitolo 3: Il Vespro e la Dinastia Aragona

 

  • 1 – La Rivoluzione nazionale e popolare del Vespro Siciliano

L’esplosione del malcontento giunge quasi inaspettata la sera del 30 marzo 1282 (con il computo orario di allora, calcolata già come 31 marzo) alla Chiesa di S. Spirito, poco fuori Palermo, oggi sede del più grande cimitero cittadino, allora parco utilizzato per gite fuori porta dei palermitani.

La narrazione vuole che un soldato francese, di nome Droetto, avesse cercato di frugare nel seno di una giovane signora palermitana, con il pretesto di controllare se questa nascondesse armi. La reazione del marito fu subitanea, trafiggendo l’insolente con un colpo di pugnale. All’urlo “Morte ai francesi!” i presenti, come se non aspettassero altro, si gettarono sopra i soldati, sopraffacendoli e trucidandoli fino all’ultimo. Che fosse o no preparata da congiure, la rivolta infiamma subito tutta la città, e poi tutta la Sicilia. Cacciati i francesi da Palermo si organizza un’amministrazione municipale provvisoria. Altrettanto succede subito dopo a Corleone. Dal patto di unione tra le due città del 3 aprile 1282 sarebbero nati i colori dell’attuale bandiera siciliana (con il giallo attribuito al Comune di Palermo e il rosso a quello di Corleone). I Francesi non hanno scampo, sono uccisi con le loro mogli o concubine, figli e collaborazionisti. La rivoluzione assume da subito un contorno etnico, e – nella rivolta – senza distinzioni di classe, i Siciliani scoprono per la prima volta di appartenere a quella che oggi chiameremmo una nazione o patria. Le testimonianze in tal senso, ormai anche in lingua siciliana, sono univoche. La Nazione siciliana dà generosamente la vita, le risorse, il proprio amore per un desiderio insopprimibile di libertà. In breve i Francesi sono cacciati da tutta l’Isola; il vicario di Carlo d’Angiò, Erberto d’Orléans, è costretto a lasciare Messina già alla fine di aprile. Con l’adesione di Messina alla Confederazione Siciliana, la Rivoluzione era completa. Gli ultimi rimasti, di sede a Sperlinga dove (caso unico) non erano odiati dai nativi, avrebbero resistito invece sino alla primavera del 1283. Anche le isole adiacenti, tra cui Malta, aderirono alla rivolta, che fu davvero corale e nazionale, ma a Malta gli Angioini riuscirono ad asserragliarsi provvisoriamente nel castello in attesa di rinforzi.

Re Carlo aveva sostanzialmente perso la Sicilia, e rischiava di perdere anche il Continente se questa fosse passata all’attacco, anche se – invero – nell’Italia meridionale non si registrò praticamente alcun conato di solidarietà nei confronti della rivoluzione insulare. Chiese così aiuto al nipote, re di Francia, e alle repubbliche marinare italiane, concentrando le proprie forze, insieme a quelle dei potenti alleati, in Calabria, nell’attesa di poter passare lo Stretto. Forze soverchianti di numero, rispetto ai Siciliani, ma deboli nello spirito, giacché lottavano per una causa nella quale non credevano. Mentre per loro la guerra era una come un’altra, per i Siciliani era la guerra della vita, e per questo tiravano fuori energie che alla lunga avrebbero fatto la differenza. Ad ogni modo, già a luglio Carlo inizia l’assedio di Messina, anche via terra, per cercare di limitare i rifornimenti alimentari e militari dal resto della Sicilia. I Siciliani riuscirono a mettere insieme un esercito di deterrenza alle spalle dei Francesi, a dare comunque sostegno ai Messinesi, ma furono questi ultimi da soli, sotto la guida dell’impareggiabile capitano Alaimo da Lentini, a respingere i Francesi con tutte le loro forze: tutti, comprese le donne, i vecchi e i bambini, furono mobilitati in questa eroica resistenza che i mercenari di Carlo non poterono in alcun modo vincere. Anche il tentativo di sfondare la catena del porto si rivelò un clamoroso fallimento.

La Sicilia si trovava però regredita a una somma di municipi e di signorie baronali mentre lo Stato era collassato. Si era tentato pertanto di dare una struttura confederale alla nuova formazione politica, sotto forma di una “Communitas Siciliae”, che ricordava quasi le leghe delle antiche pòleis siciliane. I rappresentanti delle città si riunivano spesso in Parlamento, e questo, già tradizionale nella costituzione materiale del Regno di Sicilia, assume ora un’importanza politica di prim’ordine. Ma non esisteva un governo centrale e, nonostante l’indiscussa leadership della città di Palermo, poi le singole città decidevano se e come attuare le decisioni. Una struttura del genere non poteva reggersi a lungo, né avere alcun riconoscimento internazionale. All’inizio si tentò di mettere la “Comunità” sotto la protezione papale, ma i papi allora parteggiavano per gli Angioini e lanciarono l’interdetto contro l’Isola ribelle. A Messina, dove l’elemento greco non era ancora scomparso del tutto, si pensò anche di mettersi sotto la protezione di Costantinopoli, ma l’ipotesi fu generalmente scartata per il discredito e la debolezza che ormai caratterizzavano ciò che restava del vecchio Impero Romano d’Oriente.

Alla fine prevalse il partito legittimista e “catalano”, sostenuto soprattutto da Giovanni da Procida, fuoriuscito dai tempi di re Manfredi, non siciliano, e dalla città di Palermo. In fondo la figlia superstite di re Manfredi, Costanza (da non confondere con la prima moglie di Federico II, né con la madre dello stesso) era andata in sposa proprio a re Pietro III d’Aragona, il quale accolse di buon grado l’invito dei Siciliani.

Re Pietro, dirottando da una spedizione contro il Nordafrica, venne in Sicilia dove fu acclamato re il 7 settembre, accettando la delibera del Parlamento che aveva condizionato tale corona al rispetto “degli ordinamenti di Guglielmo il Buono”, il che significava essenzialmente abolire tutte le gabelle istituite da Federico II e inasprite dagli Angioini, e iniziò la guerra contro Carlo d’Angiò, sposando la causa siciliana.

  • 2 – Pietro I e il trionfo delle armate siciliane per terra e per mare

Una grande mistificazione storiografica vorrebbe che la venuta di re Pietro (I di Sicilia, III d’Aragona) sarebbe coincisa con l’inizio di una fantomatica “dominazione aragonese”. Ai tempi, in realtà, Sicilia e Aragona erano due realtà troppo lontane e autonome per poter anche lontanamente pensare di poterne fare un unico regno. Re Pietro pensava piuttosto ad un ampliamento dinastico per la sua famiglia, ma nel quadro di due regni separati. Del resto, ancora, non era ben chiaro dove la spedizione sarebbe finita. In teoria la Rivoluzione siciliana, anche se non supportata da analoghi moti nel Continente, avrebbe dovuto portare alla cacciata degli Angioini da tutto il Sud Italia, ripristinando il grande Regno di Sicilia (dei “bei tempi di Guglielmo il Buono”, ancora invocato e ricordato dai Siciliani, più del recente ed esoso Federico di Hohenstaufen). Impensabile allora tenere la Confederazione Aragonese (che comprendeva Catalogna, Aragona, Valenza e Maiorca) e il Regno di Sicilia in un unico stato.

Il “pedaggio” che la Sicilia dovette pagare fu che una serie di signorie feudali, anche molto ampie, vennero concesse a famiglie catalane e aragonesi, le quali si fecero spazio tra la nobilità più antica, detta “latina”, cioè semplicemente autoctona, e risalente ad epoca normanna o sveva. Di fatto, però, questi nuovi aristocratici si sarebbero rapidamente “sicilianizzati”, ed avrebbero costituito per i secoli successivi una componente indistinguibile da quella originaria.

Naturalmente, come poté, Pietro tentò di restaurare l’autorità regia e un’amministrazione centrale, passato il primo turbine rivoluzionario. Ma il processo non poteva essere completo. Bisognava allentare un po’ i cordoni della borsa, per non perdere la popolarità; Pietro era “di passaggio”, e non poteva dedicarsi ad un’ampia attività legislativa ed amministrativa; e infine si era in guerra contro Napoli, e quindi non si poteva “programmare” come in tempo di pace. In questo quadro il Parlamento di Sicilia, nel quale trovano stabile rappresentanza le città, oltre che i feudatari e i prelati, acquisisce sempre maggiore importanza. Pietro abolì le collette (primo abbozzo di imposizione diretta, ancora con carattere di eccezionalità nell’epoca pre-angioina, ma che era stata abusata proprio dagli Angioini-Provenzali) e i diritti di marineria introdotti da Ruggero II (obbligo di fornire uomini e mezzi per la costruzione della flotta del Regno). Al posto dei “reali”, a Messina, si conieranno i “pierreali”, ma l’epoca della dinastia aragonese sarà nel complesso da un punto di vista monetario piuttosto disordinata, con una progressiva inflazione di ogni valore di riferimento: si coniano solo i pierreali, teoricamente multipli del tarì e i denari, moneta spicciola, mentre onze, tarì e grani restano moneta di computo non coniata.

L’assedio di Messina è spezzato, il 2 ottobre Pietro entra trionfalmente nella città dello Stretto. L’eroico difensore della città, Alaimo da Lentini, è nominato a vita Gran Giustiziere del Regno. Ai primi del 1283 Pietro sbarca in Calabria e conquista la città di Reggio e alcuni centri vicini. Ma il re comprese subito di non avere i mezzi per scalzare i Francesi da tutta l’Italia meridionale, anche perché qui mancava il sostegno indispensabile della popolazione, tranne forse un po’ a Reggio. Tornò quindi indietro e sistemò l’amministrazione del Regno: lasciò la moglie Costanza come reggente nominale, ma affidò come vicario il governo al secondogenito Giacomo (il primogenito Alfonso era rimasto a Barcellona come vicario per l’Aragona), Giovanni da Procida fu nominato cancelliere del Regno, Ruggero di Lauria, altro fuoriuscito, ammiraglio. Con la venuta della famiglia reale era venuto in Sicilia anche il più piccolo degli Aragona, Federico, allora dell’età di nove anni. Pietro faticò un po’ a rimettere l’ordine nel Paese, perché per alcuni il Vespro era soltanto un mezzo per non rispettare più alcuna legge. Tra questi, tale Gualtiero di Caltagirone, che ora congiurava con gli Angioini, ma che fu condannato a morte. Fatto questo, Pietro tenne Parlamento a Messina e tornò in Catalogna per affrontare un duello, a cui lo aveva sfidato Carlo d’Angiò, da tenersi a Bordeaux, allora in mano agli Inglesi, e quindi teoricamente in campo neutro. Il duello non si tenne mai, giacché Pietro, arrivato a Bordeaux, ebbe notizia che era piena di cavalieri francesi che lo avrebbero ucciso anche se avesse vinto; sicché, denunciando il tranello, fuggì di nascosto, accusato poi a sua volta di viltà da parte di Carlo d’Angiò.

Nel frattempo papa Martino IV proclamava niente meno che una crociata contro l’Aragona e la Sicilia, dimenticando che gli ultimi crociati, veri, del Regno di Gerusalemme, avevano in quegli anni disperato bisogno di aiuto per non essere travolti; ciò che effettivamente accadde con la caduta di S. Giovanni d’Acri nel 1291. I Siciliani, superiori sul mare, non ne furono sconvolti. Grazie all’ammiraglio Ruggero Lauria si arrese la guarnigione francese del castello di Malta, furono occupate Ischia e Capri, mentre l’esercito lentamente risaliva la Calabria. Il 5 giugno del 1284, in una battaglia navale proprio nel Golfo di Napoli, Carlo lo Zoppo, principe di Salerno, l’erede al trono di Carlo d’Angiò, è sconfitto e catturato dai Siciliani. Come condizione per non ucciderlo questi ottengono la libertà dell’ultima figlia superstite di Manfredi, Beatrice, ancora ostaggio dei Francesi. Carlo lo Zoppo (II) è condotto prigioniero in Sicilia. Esaltato dalla sua forza navale, Ruggero Lauria punta verso la Tunisia e occupa Gerba e le Isole Kerkennah, che entrano a far parte del Regno di Sicilia come suo feudo personale.

Il vicario Giacomo, in questo frangente, geloso della popolarità del giustiziere Alaimo da Lentini, lo invita con un pretesto ad andare in Aragona a soccorrere il re dall’invasione francese ma, una volta allontanato, lo dichiara traditore, gli espropria i beni, e ne chiede la testa al padre. Pietro non crede al figlio e trattiene il giustiziere a Barcellona dandogli una pensione.

Mentre l’Aragona si apprestava a reggere l’urto della Francia, scatenata contro dalle ire del papa, la Sicilia, da sola, travolgeva i Napoletani, sfondando in Basilicata. Gallipoli, in Puglia, riconosce re Pietro, Taranto è conquistata (1285). Carlo, con i suoi Provenzali e i meridionali “collaborazionisti”, sa di non poter resistere oltre: invoca l’aiuto papale e francese, che non tarda ad arrivare. Un fiume di denaro e di soldati arriveranno d’ora in poi da Roma, dall’Italia guelfa e delle repubbliche marinare, dalla Francia, solo per arrestare l’impeto irresistibile dei Siciliani, riuscendo quanto meno a bloccarli. Sono i momenti di maggior gloria politico-militare per la Sicilia. La flotta siciliana di Lauria salpa alla volta dell’Aragona per difendere re Pietro, affondando quasi tutta la flotta francese al grido che era stato anche delle altre battaglie navali: «Sicilia e Aragona!». La grande Aragona era stata salvata dall’impeto dei Siciliani. La crociata contro di loro si era rivelata un fallimento totale.

Fatto sta che Pietro poté solo iniziare questa guerra, morendo solo tre anni dopo il suo inizio (1285), subito dopo essersi fatto consegnare da Giacomo, Carlo II, il figlio di Carlo d’Angiò, ancora ostaggio dei Siciliani. Nello stesso anno moriva anche il suo grande antagonista, Carlo I d’Angiò, lasciando erede un figlio ostaggio del nemico e un nipote assistito da un Consiglio di Reggenza. Papa Onorio IV, che era successo a Martino IV, per tentare di far recuperare popolarità agli odiati angioini, ricostruì nel Regno di Napoli (come già di fatto era chiamato il Regno di Sicilia angioino ridotto alla sola Italia meridionale), il blando sistema di tassazione dei tempi di Guglielmo il Buono, con delle Costituzioni che avrebbero portato il suo nome.

  • 3 – Re Giacomo e il grande tradimento dell’Aragona

A Barcellona succedeva Alfonso III, che mai era stato in Sicilia e che non aveva alcun interesse alla stessa. A Palermo veniva incoronato Giacomo (I e unico di Sicilia, sarebbe poi diventato II di Aragona) nel 1286, anche se risiedette più stabilmente a Messina. Nell’incoronazione promulgò in Parlamento le Costituzioni con cui replicava in Sicilia la riforma di Onorio nel Continente. Se furono dimezzate le gabelle (imposte indirette) furono però ripristinate le collette (imposte dirette) sia pure limitate a quattro specifici casi, tra cui quello di grande attualità della difesa del Regno. Nelle stesse Costituzioni Giacomo rinunciò all’autorizzazione per i matrimoni dei feudatari, introdotta da Ruggero II, e contro cui per generazioni i nobili avevano protestato. I due re fratelli (Alfonso e Giacomo) stipulano un’alleanza militare tra Aragona e Sicilia. Con il papa invece le cose non vanno bene: Giacomo, la regina Costanza e tutti i Siciliani sono ufficialmente scomunicati da Onorio IV. Alfonso, in realtà, voleva negoziare la pace con la Francia e con il papa, non volendo restare invischiato in faccende di un paese a lui estraneo, ma – non avendo per il fratello Giacomo una corona alternativa – di fatto si limitò ad una quasi neutralità e a liberare Carlo II lo Zoppo, ancora prigioniero degli Aragonesi. La guerra nel frattempo procedeva incerta, i Siciliani erano rigettati in Calabria, perdendo Taranto e le punte avanzate delle loro conquiste. La superiorità sul mare continuava; i Siciliani avevano ereditato dagli Angiò il fondaco di Tunisi (una sorta di concessione commerciale-coloniale) insieme al tributo dalla Tunisia conquistato nell’ultima crociata.

Una spedizione napoletana ad Augusta si risolse in un disastro per gli invasori, che videro sconfitta di nuovo la loro flotta nel 1287. Nel frattempo re Giacomo si fa consegnare l’eroe di Messina, Alaimo da Lentini, dal fratello Alfonso e lo fa assassinare senza processo, buttandolo in mare al largo di Marettimo, suscitando un’ondata di sdegno tra i Siciliani. Giacomo era un ambizioso, non aveva mai legato i propri destini a quelli della Sicilia e se, fino ad ora, la difendeva, lo stava facendo solo per l’interesse personale alla corona come dimostreranno a breve le vicende successive. Un suo tentativo di sbarco a Gaeta troverà la popolazione locale ostile ai Siciliani e costringerà Giacomo alla ritirata. Ormai si tentava una composizione diplomatica. Dal 1289 al 1291 si ottenne una tregua tra le parti. Giacomo era disposto a restituire la Calabria e tenersi la Sicilia con le appendici tunisine, spartendo in sostanza il Regno di Sicilia. La parte papale-francese non accettò.

Poco dopo la morte, a soli 27 anni, di Alfonso III di Aragona (1291), determinerà la prima di tutta una serie di crisi dinastiche che alla lunga avrebbero fatto perdere la piena indipendenza alla Sicilia. Tradendo il testamento di Alfonso (e di Pietro prima ancora) Giacomo assume la corona di Aragona, ma non lascia il Regno al fratello minore Federico, nominandolo appena vicario. Però Federico d’Aragona non protesta e accetta la carica. Cessata la tregua, la guerra prosegue “a bassa intensità”, mentre Giacomo sottobanco tesseva accordi con il papa per farla cessare. Alla fine del 1295 i patti sono scoperti: a Giacomo andavano i diritti di conquistare Sardegna e Corsica, a Federico il titolo di imperatore latino d’oriente (un titolo puramente nominale, giacché i latini avevano perso Costantinopoli da una trentina d’anni) con la promessa di aiutarlo a riconquistare i possedimenti perduti, la Sicilia data per un anno al papa che poi l’avrebbe restituita… a chi avesse voluto, cioè a Napoli e agli Angioini.

  • 4 – Federico III, l’eroe nazionale del Vespro

Re Giacomo fu preso dai suoi sudditi per quello che era, cioè un traditore. I Siciliani non volevano saperne di aver fatto una Rivoluzione e una guerra durata tanti anni per nulla. Il Parlamento di Catania così acclama re Federico (che chiameremo III, come si firmava nei diplomi, contando “all’aragonese”, e anche per distinguerlo dal precedente, che abbiamo chiamato II, mentre in realtà è proprio questi il Federico II di Sicilia), che poco dopo è coronato con una solenne cerimonia a Palermo. La Sicilia è in questo momento traboccante di orgoglio nazionale, si stringe sul suo re contro tutti, Aragona compresa, che ora diventa un paese nemico.

Federico, infatti, si trova contro ormai non solo Napoli, il Papa, e i Comuni e Signorie guelfe dell’Italia del Nord (cioè in pratica tutta l’Italia), e non solo la Francia, con la Provenza angioina, che sempre spalleggiava lo stato napoletano, ma ora anche la stessa Aragona.

Il Parlamento di Catania del 1296 che lo fa re stipula un patto tra Corona e Parlamento; patto da cui nasce la prima monarchia costituzionale moderna europea. Il re non può più decidere su guerra e pace senza il consenso del Parlamento, la funzione legislativa e le politiche finanziarie sono parimenti codecise. In questo parlamento stesso viene fissato come stemma della casa regnante quello che nel tempo sarebbe diventato l’emblema del Regno di Sicilia e quindi la sua bandiera: i pali giallo-rossi che univano i colori del Vespro nella foggia catalana, inquartati con le aquile reali sveve, che rappresentavano la tradizione sentita come autoctona della dinastia Hohenstaufen.

Si dovrà a questo grande re anche una prima liberalizzazione nella gestione dei feudi siciliani in termini di divisibilità dei titoli nell’asse ereditario, di loro più libera trasmissibilità, e soprattutto alienabilità (con le Costituzioni “Si aliquem” e “Volentes”). Fu mantenuta tuttavia l’indivisibilità del feudo singolo, e altri istituti tipicamente feudali, come la possibilità del re di avocare all’erario il feudo per fellonia o altri motivi politici, il diritto di relevio da dare all’erario o l’investitura, a ogni successione, così come il maggiorascato e il fedecommesso. Ma questa riforma impresse dinamicità ai feudi siciliani che, pur gravati ancora di funzioni pubbliche, erano diventati dei veri e propri patrimoni privati quasi liberamente negoziabili.

Si dovrà a Federico III ancora l’istituzione di un tribunale di ultimo appello, anche sopra la Gran Corte, per cause di livello “politico”, o per specifiche cause demandate dal re: sorta di alter ego del re in materia giudiziaria, il Tribunale del Concistoro e della Sacra Regia Coscienza. Sarebbe però diventato una magistratura stabile e al vertice dell’intero potere giudiziario siciliano solo secoli dopo, con le riforme di Filippo I del 1569. In termini contemporanei sarebbe stata, e soprattutto sarebbe diventata nel tempo, una sorta di “consiglio di stato” o di “corte costituzionale” del Regno.

Tornando però alle operazioni militari, Federico III avanza in Calabria e persino in Puglia, ma finì per litigare con l’ammiraglio Ruggero Lauria, che mal sopportava la disciplina di questo re, rispetto all’accomodante Giacomo. L’inizio del litigio fu per un motivo apparentemente futile: la piazza di Catanzaro, conquistata da Federico, era feudo di un suo congiunto. Poi, in un Parlamento tenuto a Sciacca, il Lauria fu messo in minoranza con la sua proposta di accettare un incontro a Ischia tra i due fratelli (Federico e Giacomo). Il Lauria, dopo un ultimo scontro con il re, prese il pretesto di accompagnare fuori dal regno la regina madre Costanza e il vecchio Giovanni da Procida che si ritiravano dalla politica, forse sconcertati dalla guerra tra i due fratelli e che tornavano in Catalogna. Una volta a Napoli, passò definitivamente al nemico, tenendosi in pegno le isole di Gerba e Kerkennah, per le quali si fece investire direttamente da Bonifacio VIII. Al suo posto la flotta fu affidata al genovese Corrado Doria. Ora Federico era solo, solo con il suo Popolo siciliano contro tutti. Allettato dalla promessa di una forte ricompensa in denaro, lo stesso Giacomo II stava guidando le operazioni militari e sbarcò a Patti nel 1298. Nonostante la presa di alcune piazze, la Sicilia resiste con la forza di un leone. Per mare i nemici sono sconfitti: il figlio di Ruggero Lauria, ormai nemico, Giovanni, è catturato e condannato a morte per fellonia dalla Magna curia. Giacomo si ritira, lasciando in Sicilia alcuni presidi, che poco a poco i Siciliani vanno riconquistando. Torna in forze l’anno nuovo e sbarca a Capo d’Orlando. I Siciliani, infatuati dai continui successi, pensano di essere invincibili sul mare, e, in condizioni di inferiorità numerica, costringono Federico III ad attaccare la coalizione aragonese-guelfa-francese. La battaglia navale di Capo d’Orlando, del 1299, si risolve in un disastro per i Siciliani, peraltro proprio contro il Lauria, imbattibile sui mari, e Federico si mette a stento in salvo a Messina. Ciò che ottennero i Siciliani fu solo di causare talmente tante perdite tra gli Aragonesi che tra di loro iniziò a serpeggiare il malcontento, al punto che Giacomo abbandonò la coalizione, anche perché ancora non aveva visto un soldo della compensa promessa dal papa.

Sebbene avessero perso un nemico, però, la sconfitta si faceva sentire. Carlo II mandava il figlio Roberto come vicario in Sicilia, e questo, terra dopo terra, nel Val Demone, e soprattutto in Val di Noto, prende diverse fortezze. Alcuni generali e feudatari siciliani, vedendo la causa persa, passano al nemico. Le isole sul Golfo di Napoli (Ischia e Procida) sono perdute. Il colpo più grosso però fu l’entrata degli Angioini a Catania, per un tradimento. Anche in Calabria si perdeva terreno. Sembrava tutto perduto.

All’estremo opposto un altro esercito sbarcava intorno a Trapani e dava l’assedio. Ma a questo punto, nonostante alcune defezioni e tradimenti, successe una cosa incredibile. I Siciliani si strinsero ancora una volta intorno al loro re, non abbandonarono le piazze in loro possesso, si autotassarono e mandarono soldati, ricostruendo un grande esercito che piombò su Trapani. Mentre l’esercito francese si stava spostando da Trapani a Marsala, nella pianura della Falconara, il 1° dicembre 1299 le truppe francesi furono travolte dai Siciliani che lottavano per la loro libertà. Un figlio del Re di Napoli, Filippo, fu preso prigioniero. La guerrà infuriò con nuovo vigore. All’estremo opposto della Sicilia i napoletani venivano pure sconfitti e perdevano terreno. Napoli chiese di nuovo rinforzi alla Francia. Il papa mandò in Sicilia a combattere i Templari e i Gerosolimitani di S. Giovanni (i futuri Cavalieri di Malta). Ma i Siciliani non si arrendevano. Riorganizzarono la flotta, sfidarono i Napoletani a Ponza in mare, ebbero di nuovo la peggio per l’enorme sproporzione di forze, ma continuarono a resistere.

I Francesi e gli Italiani raccolsero di nuovo un grande esercito che sbarcò in Sicilia nel 1302, diede per qualche tempo l’assedio a Palermo, ma questa resistette non meno coraggiosamente di come aveva fatto Messina all’inizio della Guerra del Vespro. Vedendo l’inutilità dell’assedio si addentrano verso sud, occupano qualche piazza, ma alla fine esausti, decimati da un’epidemia, isolati in una terra straniera e del tutto ostile, si arrendono.

Re Federico III propone e ottiene da Carlo di Valois, il francese comandante della spedizione, una pace che passerà alla storia come la Pace di Caltabellotta (1302), con cui si considera conclusa la prima fase del Vespro, la più eroica e nazionale. Gli Angioini abbandonano le parti occupate nell’Isola, e i Siciliani quelle occupate nel Continente, e fra queste Reggio Calabria che mai aveva abbandonato la causa siciliana in vent’anni. Di fatto Napoli e Sicilia si riconoscono reciprocamente, ma è la Sicilia, più piccola, a dover fare concessioni immediate apparentemente più gravose. Il titolo di “Re di Sicilia” spetta a Napoli. A Palermo (o a Messina, dove risiedeva più frequentemente il re, restando la prima sempre capitale nominale) solo il titolo di “Re di Trinacria”, e … a tempo. Alla morte di Federico il “Regno di Trinacria” si sarebbe dovuto estinguere e ripassare sotto dominio napoletano. I beni sequestrati alla Chiesa durante la guerra sono restituiti. I diplomatici pontifici chiedono che la Sicilia, come Napoli, si consideri feudataria dello Stato della Chiesa, con la donazione di un censo annuo, soldati e agevolazioni sulle importazioni di grano. Federico è costretto ad accettare tutte le condizioni, ma non fa ratificare dal Parlamento la soggezione feudale al papa; in pratica restò solo obbligato al peso del pagamento di un censo. Questi pagamenti sarebbero stati poi irregolari e avrebbero fruttato anche qualche “scomunica per morosità”, ma intanto Bonifacio VIII toglieva interdetti e scomuniche comminate durante la lunga Guerra del Vespro.

In realtà, cessato il fragore delle armi, la Sicilia aveva conquistato di fronte al mondo intero il diritto alla propria piena indipendenza, seppure nei limitati confini dell’Isola, e seppure senza più quell’impero mediterraneo che era stato del primo e più grande Regno di Sicilia. Già tre giorni dopo la Pace di Caltabellotta il re abbandonò il titolo di “Re di Trinacria”, che riteneva umiliante, e prese a chiamarsi semplicemente “Re di Sicilia”. Il mondo aveva ora “Due Sicilie”, ciascuna con un proprio re: a Napoli e in “Trinacria”. In ossequio al Trattato, Federico sposa Eleonora d’Angiò, nel 1303, dalla quale ottiene numerosi figli, maschi e femmine.

Sulla “Trinacria” va anche detto che la solerzia papale nel trovare un nome alternativo, avendo riservato il nome “Sicilia” al re di Napoli, valse a dissotterrare dalle memorie classiche un termine e un’icona dell’Isola di cui non si aveva più traccia dalla fine dell’antichità classica e che si era forse perduto, anche se la scarsità delle fonti iconografiche non ci consente di dirlo con assoluta certezza. Il termine sarebbe stato presto ripreso anche da Dante nella Commedia, e il simbolo classico riprese così ad essere l’emblema più tipico della Sicilia, anche se non in via ufficiale. Una tradizione vorrebbe far rimontare il suo uso più indietro, alla rivolta del 1282, insieme all’uso dei colori giallo e rosso, ma ciò non appare ben documentato. L’attribuzione dell’attuale emblema a quella data può intendersi quindi come puramente ideale e indicativo. È ben vero che alla fine del 1200 si “riscopre” la Trinacria, come concetto e come emblema, sulla scia del nuovo “nazionalismo”, ed è ben vero che d’ora in poi ridiventa il simbolo classico e iconografico della Sicilia, ma mai in modo ufficiale, giacché – come si è visto – la bandiera del Regno di Sicilia resta quella delle due aquile fridericiane inquartate con i pali gialli e rossi, e sempre l’aquila resta simbolo del Regno anche nella monetazione ed in ogni iconografia ufficiale.

La Sicilia ad ogni modo beneficia da questo periodo di pace. Il re aveva dovuto concedere numerose “regalìe” e quindi le finanze regie erano un po’ ridotte. Ma c’era ancora un buon equilibrio tra i poteri del Re, del Parlamento, delle Città, dotate tutte di magistrati elettivi, e delle Signorie feudali. I Siciliani tornano a casa a lavorare. I mercenari catalani, che non erano abituati a stare senza far nulla, sono spediti da Federico in Oriente, dove costituiscono la Compagnia dei Catalani, una compagnia di soldati di ventura, che però si richiama sempre a Federico come fedeltà feudale. I rapporti con l’Aragona si normalizzano, ma restano piuttosto freddi. I rapporti con Napoli sono sempre tesi, ai limiti di una ripresa del conflitto. Una controversia diplomatica sul fondaco e protettorato su Tunisi, la cui titolarità era rimasta incerta negli anni della Guerra del Vespro, fu affidata all’arbitrato di Giacomo d’Aragona che diede ragione ai Napoletani a sfavore dei Siciliani (1309), dimostrando ancora una volta la sua ostilità contro la Sicilia.

Le legislazioni di Federico nei vari Parlamenti furono degne di nota. Il Parlamento di Messina (1310) vietò i maltrattamenti degli schiavi musulmani che si fossero convertiti al Cristianesimo (e la loro emancipazione entro sette anni dalla conversione), e l’emancipazione dei servi della gleba greci che si fossero convertiti al cattolicesimo. Questa riforma ha due effetti pratici. Da un lato ci rivela una persistenza di clero e popolo greco-ortodosso non ancora allineato alla Chiesa Romana a due secoli e mezzo di distanza dalla spedizione normanna; persistenza che si evolve rapidamente in “uniatismo”, sotto l’Archimandridato di Messina, giacché nessun servo aveva intenzione di rimanere tale, contribuendo ad un’altrettanto rapida scomparsa del cristianesimo ortodosso in Sicilia. Di passaggio l’emancipazione dei servi ortodossi ci rivela che già allora non c’era più da tempo servitù della gleba tra i contadini latino-cattolici. Dall’altro la distinzione che trovavamo in epoca di dinastia normanna tra “servi” (non pienamente liberi) e “rustici” (contadini salariati ma liberi) svanisce del tutto, trasformando in lavoro salariato agricolo formalmente libero tutto il proletariato contadino, ancora una volta, come nella libera circolazione dei feudi, in modo del tutto precoce rispetto al resto d’Europa. Lo stesso istituto della schiavitù, già rarissimo e limitato a qualche prigioniero di guerra, resiste soltanto di nome (e fino al Congresso di Vienna di secoli dopo), giacché da ora in poi diventa impossibile tenere in schiavitù un cristiano e si ha l’obbligo di emancipazione entro sette anni di qualunque schiavo non cristiano che si fosse convertito. La Sicilia di Federico è certamente un paese all’avanguardia, non solo per diritti politici o per condizioni economiche, ma anche sotto il profilo dei diritti civili. Federico intraprende anche riforme a carattere moralizzatore e religioso, dimostrandosi per certi versi molto più buon cristiano di quei papi che lo andavano scomunicando per motivi politici, nonché mostrando apprezzamento per  i Francescani e in genere per una Chiesa genuinamente vicina ai dettami evangelici.

All’estero riprese la politica di potenza della Sicilia. Approfittando di una rivolta dei musulmani di Gerba, Federico va in aiuto della guarnigione assediata e recupera l’isola con l’appendice delle Isole Kerkennah (1309). Capolavoro politico-militare fu però la conquista in Grecia del Ducato di Atene (1311), cui si aggiunse presto quello di Neopatria (1319), ad opera della Compagnia dei Catalani. La Sicilia ora aveva anche possedimenti nel cuore della Grecia, al pari dei più potenti stati marinari italiani, come Genova o Venezia. Il Ducato d’Atene era il primo titolo del Regno superiore alla contea, e fu affidato al secondogenito Manfredi, e, quando questi morì prematuramente (1317), fu affidato al terzogenito Guglielmo.

Lo sviluppo economico, demografico e culturale della Sicilia del primo Trecento, sotto Federico, è di tutto rispetto. Non mancarono anche primi segnali di anarchia baronale, purtroppo. L’aristocrazia, di fondamentale importanza nella Guerra del Vespro, cominciava ad accumulare troppi diritti, fino a minacciare l’autorità regia, stretta dalle continue necessità della guerra. Ma la Casa Regnante sotto Federico III riuscì sempre a tenere a freno ogni eccesso, arrivando a colpire con l’esilio il conte Giovanni Chiaramonte, colpevole di una vendetta privata, tra le famiglie più in vista della nobiltà di origine normanna. Nel 1325 egli e il figlio Pietro II, in una legislazione parlamentare, puniscono la prassi di alcuni nobili di controllare le elezioni municipali per mezzo di loro clienti, vanificando gli elementi di democrazia che il re vi aveva introdotto.

Con la dinastia Aragona fu stabilizzato il dominio specifico delle regine di Sicilia, la cosiddetta “Camera Reginale”, che comprendeva Siracusa e diverse altre città, quasi tutte del Val di Noto, e le relative entrate pubbliche. La Camera reginale aveva una sua amministrazione separata, come una vera e propria provincia a sé del Regno.

La pace sarebbe durata a lungo, se non fosse stato per la discesa dell’imperatore Enrico VII, che destò speranze di riscatto per il partito ghibellino. Enrico propose a Federico un’alleanza per spartirsi il Regno di Napoli. Per Federico III sarebbe stata la fine dell’incubo. Riunisce il Parlamento e proclama nuovamente la guerra contro Napoli, attirandosi di nuovo contro il papa, i Guelfi del Nord Italia, la Francia (1312), con scomuniche annesse. Federico sbarca in Calabria, ma lì viene raggiunto della notizia della prematura morte di Enrico VII e del disimpegno dei Tedeschi sull’Italia. Si ritrovava di nuovo la Sicilia sola contro tutti. Cerca di saldarsi con i Ghibellini, sbarca a Pisa, dove gli offrono la signoria della città. Ma lì si rende conto che in Italia il partito ghibellino è allo sbando e debole; sperava di riceverne aiuto e si trovava davanti chi chiedeva aiuto a lui. Decise di tornare in Sicilia e cercare di difendersi là. Nel frattempo comunica alla nazione che il primogenito Pietro è dichiarato erede al trono. I Napoletani sbarcarono di nuovo in Sicilia, occuparono qualche terra (Castellammare), diedero il guasto alla campagna, ma poi dovettero ritirarsi. Il vero fatto è che anche loro ormai avevano difficoltà a trovare alleati disposti a morire per loro. E anche la Sicilia era logorata da questa guerra, finanziariamente ed economicamente. Tra piccole scaramucce, proposte di pace, tregue e riprese di ostilità la guerra tra Napoli e Sicilia si protraeva ormai stancamente. Nel frattempo i papi si erano trasferiti ad Avignone, sotto stretta protezione angioina (la Provenza apparteneva agli Angiò) e continuarono la politica filofrancese, ma con minore preoccupazione per la Sicilia, ormai lontana. Giovanni XXII chiese a Federico di cedere tutte le città occupate in Calabria, in cambio di una promessa di pace che però, dopo che questi ebbe ingenuamente adempiuto, non venne. Federico tentò di ingraziarselo, riprendendo per qualche tempo il titolo di “Re di Trinacria”, ma vedendo che non gli fruttava niente si allea con i Ghibellini e manda una spedizione a Genova, nel tentativo (vano) di reinsediarli al potere. Tornato in Sicilia tassa i Siciliani per la guerra, e in particolare tassa le rendite ecclesiastiche, senza proteste dal clero isolano, che dipendeva da lui, ma attirandosi le ire del papa, che nuovamente lo scomunica, e che lancia sulla Sicilia un nuovo interdetto che sarebbe durato dal 1321 al 1335.

Ma Federico, accusato dalla pubblicistica papale di non fare l’omaggio feudale al papa, di essere tiranno, eretico, nemico di Dio, e così via, tira diritto: nel 1320 associa al trono Pietro II, dopo un voto del Parlamento a Siracusa e l’incoronazione, come sempre, a Palermo (1321). Alla Città di Palermo, per compensarla dei tanti aiuti dati durante la guerra, è concesso (1320) il privilegio che il suo Bàjulo avesse il titolo di Pretore (una sorta di sindaco); titolo che avrebbe mantenuto sino al 1861. Anche Pietro II si sposa, ormai adulto (1323), con Elisabetta di Carinzia.

L’alleanza storica con la Germania continuava, siglata da un nuovo trattato di alleanza difensiva tra Federico III e l’imperatore Ludovico IV il Bavaro (1327). Quest’imperatore scese a Roma e impose un antipapa, Nicolò V. La Sicilia non seguì l’Impero in quel breve scisma, ma gli restò fedelmente alleata sul piano politico. Pietro II, con una flotta, giunse nel Lazio, aiutò l’imperatore nelle sue operazioni in Toscana. Il ritiro di Ludovico IV lasciò di nuovo i Siciliani soli, ma di fatto né Napoli né la Sicilia avevano soldi o voglia di combattere; la guerra continuava solo sul piano teorico. Negli ultimi anni di regno ci furono ancora alcuni episodi nell’eterna guerra con gli Angioini di Napoli, ma nessuno degno di nota, mentre i sovrani erano impegnati a rintuzzare l’arroganza baronale, e a limitare l’uso pubblico delle armi, che si stava diffondendo in modo un po’ troppo preoccupante. Una rivolta dei musulmani di Gerba (1337) avrebbe fatto perdere il possedimento siciliano, mentre il quartogenito Giovanni, fu fatto “marchese” di Randazzo, primo titolo superiore a conte, interno all’Isola (il Ducato di Atene e di Neopatria era infatti un possedimento estero).

Quando morì, nel 1337, Federico fu pianto da tutto il Regno, considerato un vero Padre della Patria ed eroe dell’indipendenza siciliana. Lasciava un regno ricco, civile, con una considerazione internazionale, e una Nazione in crescita.

  • 5 – Pietro II

Purtroppo il figlio Pietro II non si rivelò all’altezza di tanto padre. Si appoggiò sin troppo sul potere dei fratelli Damiano e Matteo Palizzi, esponenti di una potente famiglia messinese, e tanto bastò perché la Sicilia entrasse in una vera e propria guerra civile, complice la potenza baronale, ormai non più a freno. La Corona ora non è più arbitra ma parte in campo. Il primo a insorgere è il conte di Geraci, Francesco Ventimiglia. Ma Pietro II seda facilmente la rivolta e riporta l’ordine, anche se durante la repressione del moto il conte di Geraci muore accidentalmente. Pietro II dimora in questi anni stabilmente a Catania, restando sempre Palermo la capitale nominale.

Proprio mentre Pietro ebbe il primo erede, il piccolo Ludovico, perse il fratello Guglielmo, duca d’Atene. Il ducato greco passa a Giovanni, Marchese di Randazzo (1338). Nel frattempo re Roberto d’Angiò riprendeva le ostilità contro la Sicilia, sempre spalleggiato dai papi avignonesi, occupando Lipari e per qualche tempo Milazzo. Nel 1339 Pietro II fu dichiarato decaduto dal trono da papa Benedetto XII, colpito da scomunica, la Sicilia da interdetto e da scomunica per tutti i suoi abitanti. Viene proibito il commercio con la Sicilia (il primo caso al mondo di sanzioni economiche?). Per fortuna nessuna repubblica italiana tenne conto di queste sanzioni e gli affari continuarono come sempre.

Ad ogni modo, nei pochi anni di regno di Pietro II l’unità del regno non era messa in discussione, né le divisioni interne favorirono più di tanto gli Angioini di Napoli, l’eterno nemico esterno, anch’essi esausti e in preda a loro problemi interni ed esterni. Preoccupante è però la concessione in ereditarietà delle maggiori cariche del Regno: i conti di Mistretta, gli Alagona, massimi esponenti della nobilità catalana, diventano prima a vita e poi in maniera ereditaria “Grandi giustizieri” del Regno, mentre i Chiaramonte, Conti di Modica, massimi esponenti della nobilità “latina”, diventano parimenti prima a vita e poi in maniera ereditaria “Grandi ammiragli”. Le istituzioni municipali, formalmente restando demaniali, vedono prima truccare le elezioni municipali, e poi svuotarle del tutto sotto l’influsso delle grandi famiglie. Palermo, formalmente sede del Regno, sarebbe diventata di fatto una Signoria dei Chiaramonte, che ivi costruiscono il loro grande palazzo, lo Steri (attuale sede dell’Università), che rivaleggia con il Palazzo Reale. Più fedeli alla Corona sarebbero stati gli Alagona, che però parimenti diventano a poco a poco di fatto “Signori di Catania”, con non minori abusi. La Città di Messina, massima potenza commerciale del Regno, riesce a salvarsi dall’egemonia dei Baroni, ma si governa quasi a repubblica marinara a sé stante, e poco a poco usurpa alla Corona il diritto di battere moneta, che da diritto sovrano diventa municipale, sol perché a Messina Federico II aveva posto la zecca. Ma ai tempi di Pietro II questo processo è solo agli inizi. Nel 1340 i Palizzi sono cacciati dal Regno, dopo aver inutilmente istigato il re contro il fratello Giovanni (il marchese di Randazzo e duca d’Atene), ingiustamente accusato di complottare contro di lui. È la regina Elisabetta, che per i due fratelli messinesi aveva un debole, a salvar loro la vita e a consentire loro di riparare a Pisa. Raimondo Peralta viene fatto Cancelliere al posto di Damiano Palizzi. In questo contesto (1341) muore anche la regina madre, Eleonora d’Angiò, moglie di Federico III, che, senza prendere i voti, aveva trascorso gli ultimi anni della sua vita a Catania in un monastero di benedettini, dove aveva una cella per sé, e dove si fece seppellire con abito monastico. Mentre sembrava che il regno fosse relativamente pacificato (restava solo Lipari occupata dai Napoletani) e l’ordine ristabilito, re Pietro muore prematuramente nel 1342, a soli 37 anni, inaugurando una serie di morti reali che avrebbe condannato la Sicilia a perdere la propria casa regnante.

  • 6 – La reggenza di Giovanni, Duca d’Atene

Alla sua morte sopravvivono tre figli minori: il piccolo Ludovico, Giovanni, e Federico, che nasce pochi mesi dopo la morte del padre. Tutore per il nipote Ludovico, di soli quattro anni, è lo zio Giovanni, duca d’Atene.

Giovanni è un governante di polso, della stessa tempra del padre Federico. Senza potere reale non poté, in pochi anni, combattere tutti i mali del Regno, ma restaura alquanto l’autorità regia rispetto allo strapotere dei baroni. Fa incoronare a Palermo il nipote, doma una rivolta a Messina, caccia gli angioini da una nuova fugace spedizione ordita dalla regina Giovanna che era successa a re Roberto, e poi anche da Lipari nel 1347 (che occupavano dal 1339). La disfatta angioina era legata a una guerra civile che dilaniava Napoli dopo l’uccisione del principe consorte, fratello del re d’Ungheria. La regina fu costretta a un Trattato di Pace “definitivo” con la Sicilia: Napoli riconosceva in perpetuo l’indipendenza della Sicilia, con il solo diritto alla retrocessione dell’Isola in caso di estinzione della casa sovrana. Altra concessione era quella di tornare al titolo riduttivo di “Re di Trinacria”, lasciando quello “di Sicilia” a Napoli; sarebbe stato mantenuto il censo a favore della Chiesa, con una sanatoria sul passato. Al di là della forma, questo trattato significava il completamento e il consolidamento del Trattato di Caltabellotta del 1302, che ancora formalmente dava alla Sicilia un’indipendenza solo transitoria. Insomma sarebbe stato un vero successo per la Sicilia. Sarebbe stata però ancora una volta l’opposizione papale che voleva porre condizioni durissime alla Sicilia, in termini di vassallaggio e riparazioni, a fare saltare l’accordo. E così ripresero, ma sempre più stancamente, le ostilità tra i due regni. Ma sulla Sicilia doveva cadere una tegola ancor peggiore in quegli anni. La Sicilia, infatti, fu il primo dei paesi occidentali ad essere colpito dalla Peste Nera. Il terribile morbo si abbatté su di essa scardinando il tessuto economico e sociale come un formidabile colpo. Comprendendo la gravità del male, il Duca Giovanni si ritirò nei boschi dell’Etna, sperando che il clima più salubre della montagna lo avrebbe salvato. Ma così non fu: raggiunto dalla pestilenza, morì nel 1348, e con lui l’ultimo bastione di governo centrale della Sicilia.

  • 7 – Anarchia baronale durante la minore età di re Ludovico e poi di Federico IV

Si apriva in Sicilia un terribile vuoto di potere, giacché re Ludovico aveva ancora soltanto dieci anni. Giovanni lasciava il Ducato d’Atene e Neopatria e i feudi siciliani al piccolo figlio Federico (che comunque sarebbe morto nel 1355, lasciando il Ducato al cugino omonimo Federico, fratello minore di Ludovico). Per la Costituzione siciliana, la tutela del re, oltre alla regina madre Elisabetta, andava ora al Gran Giustiziere Blasco Alagona, di fatto signore di Catania. Ma questo era solo l’inizio della totale dissoluzione del potere centrale, dell’appropriazione dei diritti dello Stato da parte di feudatari grandi e piccoli che non riconoscevano all’Alagona una dignità superiore alla loro. L’errore fatale fu fatto dalla regina madre Elisabetta, che aveva sempre parteggiato per i Palizzi, poi esiliati. Ora richiama il superstite Matteo Palizzi, che il Gran Giustiziere Blasco Alagona non vuole fare approdare in Sicilia. Ma la regina fa il doppio gioco, lascia Catania, lo fa sbarcare a Messina, dove è accolto dalla sua fazione. Palizzi si mette d’accordo con l’ormai potentissimo clan familiare dei Chiaramonte, che possiedono più di mezza Sicilia. Insieme, impadronitisi della famiglia reale, che non fa ben capire da che parte sta, mentre il potere centrale collassa, attaccano il legittimo governo del Regno del giustiziere Alagona. Per farlo si appellano a una sorta di patriottismo dei “Latini” (cioè gli oriundi siciliani) contro i “Catalani”, colpevoli di essersi preso il Regno, dimenticando che re Ludovico era catalano pure lui, e che molti feudatari minori, paurosi dell’ambizione dei Chiaramonte, ancorché “latini”, si buttano dalla parte catalana. È guerra civile, con due governi che entrambi si richiamano al piccolo Ludovico; una guerra a bassa intensità, con colpi di mano, devastazioni di campi, cambi di casacca frequenti tra i contendenti. La Sicilia era dilaniata da povertà e carestie. Il Governo di Messina, a sua volta, aveva scelto un alleato troppo forte, i Chiaramonte, che da Palermo si consideravano i veri signori dell’Isola. Stranamente papato e Napoli, teoricamente in guerra con la Sicilia, non approfittarono di questo momento di debolezza, il primo perché troppo lontano, nell’esilio avignonese, il secondo perché dilaniato dalle sue guerre civili e con l’Ungheria. Anche l’Aragona in questi anni si disinteressa della Sicilia avendo altre priorità, soprattutto impegnata nella difficile conquista della Sardegna, mandando solo deboli soccorsi al governo alleato di Catania; la Sicilia è in questi anni come ripiegata su se stessa e quasi sequestrata dal mondo.

Alla fine (1350) si arrivò a una “pace” che in realtà era solo una tregua, in cui tutti i contendenti mantenevano lo statu quo e i rispettivi titoli, ma questi erano efficaci solo nelle zone rispettivamente controllate. E tutte le usurpazioni baronali erano provvisoriamente mantenute fino alla maggiore età di Ludovico. Non mancarono piccole violazioni della tregua. Ma non tutti gradivano il caos. Una rivolta contro i Chiaramonte nel comune di Palermo (1351), condotta al grido di “Viva lu re e lu pòpulu” fu soffocata dai potenti baroni. La Sicilia non era divisa nettamente tra le due parti, ma letteralmente a macchia di leopardo. Il partito “catalano” controllava il castello di Vicari, a due passi da Palermo, mentre i Chiaramonte amministravano “per conto” della regina la camera reginale, e quindi controllavano Siracusa, non troppo lontano da Catania. Nella tregua Blasco Alagona manteneva la carica di giustiziere (non poteva però emettere giudizi sulla parte controllata dai Latini), ma rinunciò alla carica di reggente, che, alla morte della regina Elisabetta (1352) fu presa dalla badessa Costanza, sorella maggiore di Ludovico.

Dal 1352 Ludovico, quattordicenne, comincia a compiere atti da sovrano, e dà segni di volersi emancipare dalla pesante tutela di Matteo Palizzi. Fa firmare una pace ai tre principali contendenti, che ora gestiscono congiuntamente la carica di “Vicario” nelle principali città del Regno, ma non può entrare nel pieno delle sue funzioni prima della maggiore età. Comunque comincia a girare il regno, a fare sentire la sua autorità. Nel frattempo muore anche un fratello minore del re, Giovanni (1353): una specie di maledizione sembrava perseguitare la casa Aragona, sterminando, uno ad uno, i suoi componenti. Aizzando in Messina una rivolta contro Matteo Palizzi, il conte Manfredi Chiaramonte (cui presto sarebbe succeduto il figlio Simone), lo fa massacrare insieme alla famiglia dalla folla messinese (1353), ma il re ripara sotto la protezione degli Alagona a Catania, temendo il troppo potere della famiglia palermitana. Nel frattempo anche la sorella maggiore, la vicaria Badessa Costanza, muore; il vicariato passa alla minore Eufemia, mentre ancora Ludovico non è maggiorenne. Si arriva quindi ad una nuova guerra civile, in cui Simone Chiaramonte, pur di conservare il suo potere, si allea con i nemici di sempre, gli Angioini di Napoli, contro il legittimo governo di Sicilia, rinserrato a Catania. In cambio, però, chiede per l’Isola di Sicilia una semi-indipendenza: al re di Napoli sarebbe stato sì riconosciuto in esclusiva il titolo di “Re di Sicilia”, ma questi aveva l’obbligo di farsi coronare a Palermo, di visitare la capitale dell’Isola ogni tre anni, di affidare tutta l’amministrazione dell’Isola a Siciliani, di lasciare indiscussi i poteri semi-sovrani che ormai avevano acquisito i feudatari, nessun siciliano sarebbe stato giudicabile fuori dall’Isola. Insomma una specie di “statuto speciale” ante litteram che sarebbe valso alla Sicilia la semi-indipendenza dentro il Regno di Napoli. Questa alleanza però rese odiosi i Chiaramonte, che anno dopo anno persero posizioni a favore del governo legittimo. Re Ludovico reintegrò i Ventimiglia nei loro possedimenti delle Madonie, condusse personalmente (era giovanissimo, non ancora maggiorenne) una campagna di successo in Val di Mazara, il popolo di Siracusa buttò fuori la guarnigione chiaramontana al grido di “Viva lu re di Sicilia e lu pòpulu”. Stava quasi per rassodarsi l’autorità regia, Ludovico preparava matrimoni, quando, nel 1355 la sventura si abbatteva di nuovo sulla casa reale: moriva a 17 anni, poco dopo il cugino Federico duca d’Atene e marchese di Randazzo, prima ancora di essere entrato nel pieno delle sue funzioni. La Sicilia, sgomenta, era colpita di nuovo da una sfortuna incommensurabile; della casa reale restava ora solo, come maschio, il fratello più piccolo, di 12 anni, Federico (considerato IV, ma – come si è visto – in realtà solo il terzo re di Sicilia a portare questo nome), oltre alla vicaria Eufemia. Il Gran Giustiziere Blasco Alagona, che pur essendo uno dei tanti signori che usurpavano i poteri regi nelle città demaniali non lo aveva mai abbandonato, né tradito, lo seguì pochi giorni dopo nella tomba, lasciando i suoi possedimenti, il giustizierato e la signoria di fatto su Catania al figlio Artale.

Federico IV fu affidato alla tutela della sorella maggiore, Eufemia, con un governo debolissimo, nelle mani dei feudatari “fedeli” alla corona, e in condizioni interne di guerra civile, anzi di anarchia vera e propria. Sarebbe inutile seguire le innumerevoli tregue, riprese di ostilità, devastazioni di questi tristissimi anni. Il giovane re, dopo essere stato “controllato” a Messina dal conte Enrico Rosso (o della fazione “russa” come dicevano i Siciliani di allora) passa poi a Catania, sotto la protezione di Artale Alagona. Federico, ancorché minorenne e sotto la tutela della sorella, interveniva come poteva, più come mediatore tra i grandi feudatari che non come vero sovrano. La defezione dei Chiaramonte chiama in Sicilia gli Angioini di Napoli, che occupano Messina nel 1356, e poi si lanciano in una spedizione di “riconquista” dell’Isola, guidati dai re Luigi e Giovanna di Napoli in persona. Eppure ormai erano cessati i tempi della “crociata” contro la Sicilia; papa Innocenzo VI nel frattempo aveva infatti tolto l’interdetto che risaliva ai tempi del Vespro, non sapendo più per quale ragione ancora fosse mantenuto, anche se una vera pace con il papato non si era ancora stipulata. Dopo una serie di successi dei Napoletani-Provenzali, questi assediano Catania, e in quel momento il regno sembrava perduto. Ma, proprio a questo punto, gli stessi feudatari che avevano sempre ignorato gli ordini del governo e del re, sentono il pericolo del ritorno della mala signorìa e si sveglia di nuovo un sentimento nazionale, soprattutto quando arrivarono le notizie del brutale saccheggio angioino di Aci. Da tutta la Sicilia accorsero soccorsi a Catania. Persino i Chiaramonte, timorosi di aver invitato un nuovo tiranno, abbandonano di fatto i Napoletani al loro destino. Anche un paio di navi arrivate dalla Catalogna, e mandate in soccorso da Eleonora (regina d’Aragona e sorella maggiore di Federico IV), aiutano nell’impresa. Gli Angioini sono sconfitti (1357) e devono ritirarsi, mantenendo però Messina, Milazzo e e le Eolie. Come segno di buona volontà e di riconciliazione nazionale, Federico si trasferì nei possedimenti di Francesco Ventimiglia (a Cefalù), ma questi lo tenne più prigioniero (con la vicaria Eufemia) che ospite. Continuò comunque il caos, la “confederazione” di Signorie baronali debolmente presieduta dalla Corona, l’usurpazione dei diritti demaniali. In questo frangente (1359) moriva pure la Vicaria Eufemia, che debolmente era riuscita a non far rompere gli Alagona con i Ventimiglia, e a ottenere alcune tregue con i Chiaramonte (formalmente fedeli ancora a Napoli), mentre Federico non era ancora maggiorenne. Senza alcuna base giuridica i Ventimiglia, che erano soltanto “Gran camerari” a vita ed ereditari, si proclamarono tutori di Federico IV, stringendo la vigilanza sullo stesso.

  • 8 – Il debolissimo regno di Federico IV

All’esterno l’oligarchia baronale sapeva bene o male compattarsi per difendere l’autonomia del Regno, e per questo aveva bisogno di un re, anche solamente simbolico. Ma all’interno, pur rispettando la forma degli ordinamenti dei precedenti sovrani, li stravolse usurpando praticamente tutti i diritti della Corona. Federico IV riesce però a fuggire dalla prigione dorata dei Ventimiglia (1361), ormai quasi diciottenne e quindi a emanciparsi da ogni tutela, se non quella di fatto degli Alagona che, tra tutti i grandi del Regno, erano quelli che mostravano più senso dello stato e rispetto per la corona. Riesce a concludere un matrimonio vantaggioso con Costanza d’Aragona, sua consanguinea (tra regine in senso proprio e consorti sarebbe quindi la quarta con questo nome) e a convincere Ventimiglia e Chiaramonte a fare atto di sottomissione al re, a un re per ora quasi senza alcuna risorsa economica o potere. Federico IV ora pensava di andare a Palermo a incoronarsi, ma una fazione avversa gli impedì il passaggio nel centro della Sicilia. Con le truppe a lui fedeli il debole re tentò la prova di forza, ma la battaglia che ne seguì (a Caltanissetta) non fu decisiva per nessuna delle due parti. Dovette accettare patti umilianti per continuare a regnare, più da “arbitro” che da vero signore. In cambio i suoi vassalli lo insultavano, chiamandolo “asino”, tranne i sempre fedeli Alagona, che pure non mancavano di usurpare i diritti regi nei territori da loro controllati. E tuttavia questa “pace” del 1362 mise termine a una guerra civile endemica che era iniziata nel 1348 alla morte del duca Giovanni, ma questo avrebbe rappresentato una modifica costituzionale radicale del Regno. Nel 1348 c’era ancora un’autorità centrale salda; nel 1362 i pochi organi centrali funzionanti, come la Magna Curia, vedevano una rappresentanza paritetica dei grandi del Regno. Oppure, nel caso della flotta, questa era data dalla somma di quelle cittadine.

Non tutti gli storici però danno una valutazione negativa di questa apparente anarchia. Probabilmente la Sicilia si stava avviando a un regime di “signorìe” sovrane come quelle dell’Italia centro-settentrionale, debolmente confederate tra loro, ma garantendo tranquillità e ordine all’interno dei rispettivi confini. Insomma, l’unico vero danno sembrava essere la perdita dell’unità politica, che durava almeno dalla conquista normanna. Nel 1363 la drammatica esistenza di Federico IV fu allietata dalla nascita di una figlia, la futura regina Maria. Affinché non fosse troppo felice, però, tre giorni dopo il destino gli tolse la moglie Costanza per una recrudescenza della peste. Nel 1364 l’ultimo barone ribelle, Manfredi Chiaramonte, di uno dei tanti rami della potente famiglia, abbandona gli Angioini e rientra nella più comoda “confederazione anarchica” che allegramente governava la Sicilia di allora e per premio viene fatto Ammiraglio del Regno, per una flotta in verità tutta da ricostruire. Nello stesso anno una rivolta spontanea cacciava i Francesi/Napoletani da Messina. Federico IV in qualche modo regnava: riuscì ad entrare a Palermo, si spostava liberamente. Spostò infine la sua residenza da Catania a Messina quando questa fu liberata. Ormai i pontefici avevano compreso che la divisione tra i due regni di Sicilia era irreversibile e spingevano per una soluzione diplomatica, ma le trattative con Napoli andavano per le lunghe. Il re, poco a poco, tentava di recuperare pezzi di sovranità. Quasi sempre non ci riusciva, anche per sua debolezza di carattere. Ma pure qualche piccolo risultato dovette dare fastidio, se nel 1371 sfuggì a Messina a un attentato di origine baronale.

Si deve a questo debolissimo re però un grande risultato: la pace definitiva con Napoli nel 1372, con il Trattato di Avignone. Finalmente, dopo 90 anni, si poneva termine alla Guerra del Vespro, con tanto di benedizione da parte di papa Gregorio XI. L’indipendenza dei due regni era garantita. Il Regno di Napoli era l’unico che si sarebbe chiamato ufficialmente “Regno di Sicilia” (ma nei fatti tutti lo chiamavano “Regno di Napoli”), mentre l’Isola doveva essere solo “Regno di Trinacria” (ma questo nome fu usato solo per la corrispondenza con Napoli e il papa, per il resto si riprese a usare il titolo di “Re di Sicilia”). I due regni erano nominalmente feudi papali e, per la sola vita della Regina Giovanna, il re di Trinacria era feudatario anche del re di Sicilia (Napoli). Napoli lasciava Milazzo e le altre fortezze ancora tenute in Sicilia ma teneva le Isole Eolie solo per la vita della regina Giovanna (in realtà non le avrebbero più restituite per secoli). Alcune limitazioni erano poste persino all’apostolica legazìa che però non fu revocata. Non era il migliore trattato per la Sicilia, ma un regno debolissimo, esausto da 90 anni di guerre interne ed esterne, otteneva finalmente il riconoscimento internazionale per la propria indipendenza. La Guerra del Vespro era stata sostanzialmente vinta. La Sicilia manteneva i Ducati di Atene e Neopatria, dove forse l’autorità regia era più in onore che in Sicilia. Federico IV, comunque, preferì non incoronarsi mai a Palermo, forse per non dover fare omaggio feudale a Giovanna di Napoli e, incidentalmente, per questo non lo fece nemmeno alla Chiesa. Il tributo alla Chiesa, poi, fu pagato poco e male, e terminò con una sorta di sanatoria. Federico si imparentò, quindi, con la nobiltà meridionale, sposando Antonia Del Balzo (1373) e riprendendo i suoi tentativi di lento recupero della sovranità.

La morte accidentale anche della seconda moglie (1375) lo condusse letteralmente a una malattia psicologica da cui non riuscì più a venire fuori, cui seguì la morte, nel 1377, a soli 34 anni, secondo alcuni per tumore. Lasciò erede universale della Sicilia e dei possedimenti greci la figlia Maria, sotto la tutela di Artale Alagona, Gran Giustiziere come il padre Blasco, e lasciando a un figlio naturale, Guglielmo, solo la contea di Malta e Gozo.

  • 9 – La Sicilia sotto i “Quattro Vicari”

La debole pace, e il minimo recupero dell’autorità regia, naturalmente svanirono di nuovo. La povera regina senza regno fu messa sotto tutela dai più potenti baroni del Regno, che finirono di spartirsi le spoglie dello Stato (1378): i “Quattro Vicari”, collegialmente reggenti, e cioè Manfredi Chiaramonte di Palermo, Artale Alagona di Catania, Francesco Ventimiglia (Madonie) e Guglielmone Peralta (Sciacca). Nessuna famiglia minore o città avrebbe osato mettersi contro queste quattro famiglie unite, anche se c’è da dire che raramente queste erano unite per davvero. Di fatto la Sicilia si avviava a dividersi in quattro stati. In questo vuoto di potere cominciava a insinuarsi l’Aragona, che – in piena espansione nel Mediterraneo – dopo la Sardegna ambiva ora ad inglobare la Sicilia. Il 1378 è anche l’anno dello Scisma d’Occidente. Dopo il ritorno dei papi a Roma, la fazione filofrancese rielegge un antipapa ad Avignone.

La concordia durò poco, come la legittimità del governo baronale. Il “quinto” barone per importanza, il conte di Augusta Raimondo Moncada, irato per essere stato escluso dal Governo dell’Isola, rapisce la regina (1379), già promessa a Galeazzo Visconti di Milano, e, dopo una prigionia tra Augusta e Licata, la consegna ai Catalani (1381), dalla cui consegna sarebbe derivato, anni dopo (1391), il matrimonio con un nipote del Re Pietro IV, Martino (figlio del fratello), che poi sarebbe stato chiamato “Il Giovane”, per distinguerlo dall’omonimo padre, Duca di Montblanc, fratello del re, anch’egli di nome Martino (ma questa volta “Il Vecchio”). Per inciso ricordiamo che la madre di Martino il Vecchio, Eleonora, era la sorella maggiore di Federico IV, la figlia maggiore di Pietro II: Martino il Vecchio e Maria erano quindi cugini di primo grado. A questo punto il Governo dei Quattro Vicari è a tutti gli effetti, da un punto di vista giuridico, nient’altro che un’usurpazione, giacché la regina Maria, erede anche se femmina, in attuazione del Trattato del 1372, ormai maggiorenne, non li riconosceva più tali. Da notare che, nell’assedio di Augusta contro il Moncada, Artale Alagona per la prima volta nella storia siciliana, usò bombarde, cioè armi da fuoco mai viste prima d’allora.

Ma i vicari vanno avanti con il loro governo e, approfittando dello scisma che nel frattempo aveva colpito la Chiesa (1378), si appoggiarono ai papi di Roma, contro quelli di Avignone sostenuti dagli Aragonesi. Il Ducato d’Atene e Neopatria, nel frangente, si proclama fedele all’Aragona (1381) ammainando le bandiere siciliane per tanto tempo tenute (la Regina Maria ne resta duchessa a vita, ma i ducati non sono più feudo siciliano bensì aragonese).

Il Governo vicariale è stato dipinto dalla storiografia generalmente a tinte fosche. In realtà, pur nelle ondate continue – fino alla fine del secolo – della Peste Nera, la Sicilia durante il loro dominio va lentamente recuperando il terreno perduto. Forse, come sopra accennato, essi stavano trasformando, sul modello “italiano”, la Sicilia in un insieme di Signorie, come quella degli Scaligeri di Verona o dei Visconti di Milano. Anche quelle Signorie, dal punto di vista del “Regno d’Italia” interno al Sacro Romano Impero, rappresentavano uno sfaldamento dell’autorità centrale a favore di stati provinciali o regionali, ma – chissà perché – in quel caso repubbliche, signorie e principati italiani sono salutati come piccoli stati, con una loro storia politica vista in positivo, mentre le analoghe formazioni siciliane sono stigmatizzate in negativo come “anarchia baronale”. L’unico svantaggio reale, per la Sicilia, era la perdita dell’unità politica, mentre al loro interno le signorie garantivano l’amministrazione della giustizia, la sicurezza dei traffici e finanche – come si poteva ai tempi – la cultura, non peggio di come avrebbe fatto un governo unitario, con il punto a favore che si trattava di dinastie ormai da secoli sicilianizzate, e non gravitanti, come la casa “Aragona”, sulla Penisola Iberica, dalla quale questa discendeva, con la quale si era continuamente imparentata, e dalla quale non si era mai realmente separata.

I più potenti, infine, i Chiaramonte, anche se non al dominio immediato dell’intera Isola (ciò che non era possibile, ma quanti secoli avrebbero messo i sovrani francesi a controllare effettivamente tutto il territorio della Francia?) ambivano chiaramente alla Corona, e quindi a diventare una vera dinastia nazionale, ciò che forse sarebbe stato provvidenziale per la storia della Sicilia. I Quattro Vicari, sotto la guida dell’ammiraglio Manfredi Chiaramonte, riconquistano Gerba (1388) e la detengono per qualche anno (fino all’invasione aragonese del 1392). Ma una serie di successioni mette infine il Vicariato in deboli mani: nel 1388 muore Francesco Ventimiglia e gli succede il figlio Antonio; nel 1389 muore il più valido sostenitore dell’indipendenza del Regno, Artale Alagona, e gli succede il meno esperto fratello Manfredi; nel 1391, infine, tocca al potente Manfredi Chiaramonte, che lascia il vicariato al figlio Andrea.

L’indipendenza della Sicilia è ormai in pericolo: all’orizzonte si delinea l’invasione da parte dell’Aragona, questa volta non più come “alleata” e liberatrice, ma come conquistatrice. I vicari, dopo il matrimonio della regina Maria (1391), mentre Giovanni re d’Aragona (il fratello del suocero di Maria), continuava a non avere eredi maschi, intravedono il pericolo per la Sicilia, e – in una concitata riunione a Castronovo – giurano, insieme alla migliore feudalità siciliana, che avrebbero difeso con ogni mezzo la libertà dell’Isola. Ma la corruzione di Martino il Vecchio fu più forte del patriottismo di un momento. A uno a uno i paladini dell’indipendenza si sfilavano, i due vicari minori (Peralta e Ventimiglia) prendevano accordi separati con l’Aragona, la città di Messina riconosceva Martino e Maria, lo stesso Manfredi Alagona tentennava. Solo i Chiaramonte, ormai re siciliani “in pectore”, erano disposti a difendere con ogni mezzo la Sicilia.

  • 10 – La restaurazione regia dei due Martini e l’estinzione di una monarchia propria

Avendo in mano la Regina Bianca non mancava certo la legittimazione ad occupare la Sicilia. Con una spedizione ben organizzata, Martino il Vecchio, con al seguito gli sposi (Maria e il figlio Martino), a capo di una banda di avventurieri catalani e aragonesi, si avvia verso la Sicilia.

La mancanza di uno stato proprio funzionante si rivelerà esiziale per le sorti di questa Terra. Martino il Vecchio sbarca a Trapani nel 1392, proclamando di voler restaurare l’autorità regia dalle tante, troppe, usurpazioni baronali.

In realtà sa di dover scendere a compromessi, per attirare a sé parte della feudalità. E, in sostanza, ci riesce. I Siciliani si macchiano di una grave colpa in quell’occasione, preferiscono avere una dinastia che viene da lontano, e che probabilmente li avrebbe lasciati indisturbati nei loro interessi, a una potenziale dinastia siciliana, vicina, che avrebbe prima o poi riportato sul serio la legalità in Sicilia. I Chiaramonte sono abbandonati al loro destino. I loro sterminati beni diventano strumento di compenso per i nuovi “briganti” spagnoli, oltre che per i collaborazionisti. Collaborazionisti tra i quali sarebbero cominciati a fioccare i titoli di marchese, per i più grandi, e l’elevazione di molti militi a “barone”, segnando l’inizio di un lungo processo inflazionistico dei titoli nobiliari siciliani. Palermo è espugnata, Andrea Chiaramonte, l’ultimo esponente della famiglia, impiccato allo Steri. Si piegano tutti, e naturalmente anche i “vicari” Ventimiglia e Peralta. Non si accetta però di dialogare con gli Alagona, simbolo stesso del vecchio Regno di Sicilia, e troppo potenti ancora per consentire il ristabilimento dell’autorità regia. Come i Chiaramonte sono prontamente debellati dalla loro signoria catanese e costretti all’esilio.

E tuttavia, nonostante il governo tirannico di Martino il Vecchio (solo nominalmente intestato al figlio Martino il Giovane e alla nuora Maria), la spedizione ebbe il merito di ricostituire l’autorità e l’unità del Regno, sia pure con gli inevitabili compromessi di un sistema feudale, e sia pure dopo lunghe e alterne lotte che durano almeno cinque anni. Significativa, ad esempio, la testimonianza, almeno dal 1397, dell’istituzione di un abbozzo di “Ministero della Salute”, il “Protomedicato”, che si sarebbe poi spinto fino al pieno XIX secolo, quando le strutture sanitarie sarebbero state accentrate a Napoli dalle Due Sicilie. Nel frattempo, per vicende politiche e militari attinenti alla Penisola Balcanica, tra il 1388 e il 1390, anche i possedimenti greci, in capo a Martino e Maria ma già feudi aragonesi sono definitivamente perduti. Martino il Vecchio tenta di fare riconoscere l’antipapa di Avignone, per allineare la Sicilia con l’Aragona, ma in questo non riesce: i due sovrani, per tenere l’ordine, devono dichiararsi fedeli a Roma. Il demanio riacquista molti poteri usurpati dai baroni durante l’anarchia, ma fino ad un certo punto: tra continue rivolte, compensi ai Siciliani “collaborazionisti”, compensi a una nuova ondata di baroni catalani venuti al seguito della spedizione, lo Stato siciliano si ricostruisce molto lentamente.

Se il fratello di Martino, Giovanni il Cacciatore, fosse riuscito ad avere discendenza propria, ancora una volta la Sicilia avrebbe potuto fortunosamente salvare la propria indipendenza, con un nuovo ramo autonomo della Casa Aragona. Ma la sorte che già aveva segnato il ramo siciliano della famiglia non doveva essere migliore con i cugini catalani.

Nel 1396 re Giovanni muore senza eredi: Martino il Vecchio viene incoronato Re d’Aragona e lascia quindi la Sicilia al figlio Martino il Giovane. Ancora Sicilia e Aragona sono regni separati, ma il destino appare segnato, anche perché il “Giovane” è un pupillo nelle mani del padre, incapace di politica propria e per nulla affezionato alla Sicilia. Il “Giovane” vedrà morire il piccolo erede avuto da Maria, Pietro Federico, a solo un anno per un incidente mentre giocava con una lancia. Nel 1402 la malattia o il dispiacere si portano via la stessa regina Maria. Martino il Giovane si risposa con Bianca di Navarra, con la quale finalmente viene coronato a Palermo nel 1403 (per inciso, senza parlare più di feudalità o di censi da pagare al papa) ma i due pongono stabilmente la loro sede a Catania; anche il figlio avuto da questa sposa morirà prima di compiere un anno. Si deve a questo re una certa attività legislativa ed amministrativa: dopo un Parlamento tenuto dal “Vecchio” in cui è approvata l’ultima tornata di “Costituzioni” volute dal re e votate dal Parlamento, inizia l’era dei “Capitoli”, proposti dal Parlamento, al contrario, e poi approvati dal re; ma Martino il Giovane emana anche molte “Prammatiche”, cioè legislazioni di secondo livello, fatte direttamente e solo da lui. Con lui nascerà il Regio Consiglio, formato dai più importanti magistrati del Regno, sorta di esecutivo, che poi – in epoca viceregia – sarebbe diventato il “Sacro Regio Consiglio”. Le città demaniali sono effettivamente sottratte alle signorìe baronali, la milizia e i castellani regi riprendono a funzionare regolarmente e a dipendere dalla Corona.

La regina Bianca si mostra donna capace di reggere saldamente lo Stato, già in una prima assenza del marito (1404/05) richiamato in Aragona e ad Avignone per motivi politici inerenti a quella corona. Ma ormai la Sicilia è una pedina dell’Aragona. Nel 1408, per guidare una spedizione in Sardegna per conto del padre, Martino lascia nuovamente la moglie Bianca come vicaria. Il fior fiore dell’aristocrazia siciliana lo segue, tra i quali anche quella di nuova acquisizione, come Sancho Ruiz de Lihori, Grande Ammiraglio (il posto lasciato dai Chiaramonte) e Bernardo Cabrera, nuovo Conte di Modica e Gran Giustiziere (il posto lasciato dagli Alagona). In pratica è una spedizione in grande dell’esercito e della flotta siciliana, ma questa non serviva ad ampliare il potere della Sicilia bensì solo della monarchia di Barcellona.  La Sardegna, infatti, era entrata da una settantina d’anni circa nell’area di influenza catalana, ma non era ancora doma. E qui Martino, pur avendo conseguito vittorie, vi trova la morte per malattia (1409), senza aver lasciato figli legittimi. Martino il Giovane è l’ultimo “re proprio” della Sicilia. Da questo momento in poi tutti i re di Sicilia sarebbero stati anche re di altri paesi per quasi quattrocento anni e questo avrebbe certamente arrestato ogni processo di sviluppo nazionale dell’Isola.

Gli succede brevemente nel trono il padre, Martino il Vecchio (II come re di Sicilia, giacché non lo era mai stato prima), ma si tratta di una successione nominale poiché la Sicilia resta sotto il Governo della Regina Bianca, confermata come vicaria. Il “Vecchio”, da parte sua, non sarebbe più riuscito ad avere nuova discendenza nonostante passasse a nuove nozze con Margherita di Prades con cui, stando alle cronache, vecchio e malato non sarebbe neanche riuscito ad unirsi. Notevole che il Consiglio che assisteva la regina era costituito dai rappresentanti delle sei principali città (Palermo, Messina, Catania, Siracusa, Girgenti e Trapani), segno di una vitalità comunale allora di tutto rispetto. Inutili le preghiere dei nobili siciliani di far riconoscere almeno come erede di Sicilia il figlio naturale di Martino il Giovane, Federico de Luna. Nel 1410 Martino II muore, facendo estinguere del tutto la dinastia aragonese.

Si apre un periodo incerto di interregno, durante il quale la Regina Bianca resta regina vicaria di Sicilia. Questi due anni, purtroppo, saranno segnati da una nuova guerra civile (mentre altre ne succedevano in Aragona) tra la regina Bianca da un lato, e il giustiziere e conte di Modica Bernardo Cabrera dall’altro che, in assenza del re, si sentiva costituzionalmente chiamato a farne le veci. Dietro questi due governi paralleli della Sicilia c’erano due partiti: quello nazionale siciliano che pressava per l’elezione di un re proprio con la regina Bianca, e la nuova ondata di feudatari catalani venuti con i Martini (tra cui lo stesso Cabrera, che aveva tolto la grande contea di Modica proprio ai Chiaramonte), che nulla avevano a che spartire con i vecchi catalani del Vespro, ormai sicilianizzati, e che propendevano per una stretta unione con Catalogna e Aragona. Per un momento si pensò ad un matrimonio tra la stessa Bianca e il Peralta, discendente per parte materna dagli Aragona. Ma anche questa ultima occasione di dotarsi di una propria dinastia regnante sfumò per fatti contingenti. La regina tenne parte del territorio, ma non Catania, occupata dal Cabrera. In un Parlamento di guerra, a Taormina nel 1411, tentò di rassegnare le dimissioni da vicaria e di diventare “Presidente” di un governo provvisorio formato dai rappresentanti delle principali città, feudatari e prelati. Donna intelligente e di polso, vero capo di stato, siciliana soltanto adottiva ma più siciliana nel cuore di molti siciliani di nascita, avrebbe affidato a questo governo il compito di individuare un re e convocare un nuovo Parlamento per acclamarlo una volta sconfitto il Cabrera. Purtroppo il progetto naufragò per l’ottusità della città di Messina che in questo governo pretese la maggioranza assoluta dei rappresentanti e il triplo di quelli della città di Palermo. E così la guerra continuò con fasi alterne, tra cui: il curioso e fallito episodio del tentativo di rapimento della regina Bianca allo Steri di Palermo, operato dal Cabrera, che vagheggiava di sposarla; la temporanea occupazione papale di Messina e Milazzo, per punire l’Isola ribelle per il rifiuto di un dominio feudale che non c’era mai stato e che i re non avevano mai riconosciuto; l’invio di ambasciatori dalla Catalogna, che  ormai non voleva mollare la presa sulla Sicilia, i quali in un arbitrato assegnarono il governo al Cabrera; la conseguente rivolta dei baroni “nazionalisti” e la cattura dello stesso Bernardo Cabrera, che però non pose fine alle ostilità da parte della fazione catalana.

Il “lungo Trecento” siciliano volgeva così al termine. Nel bene o nel male era stata l’epoca della nascita del nazionalismo siciliano moderno. Il Regno “dell’Isola di Sicilia”, ristretto rispetto a quello precedente di dinastia normanna e sveva aveva con difficoltà conquistato il proprio diritto all’esistenza nel novero delle nazioni-stato europee dei tempi. Era nato anche un vero e proprio senso di appartenenza nazionale, uno spirito nazionale, che sarebbe durato secoli, così come il consolidamento dello Stato di Sicilia e il primo ordinamento costituzionale parlamentare europeo propriamente detto. Anche la lingua cambia. Ormai il siciliano ha soppiantato tutti gli idiomi precedenti (tranne il greco di Sicilia, che sopravvive in parte a Messina città e in alcuni luoghi del Val Demone, ma in posizione ormai apertamente recessiva, testimoniata dalle continue traduzioni di atti notarili dal greco al latino di questo secolo, segno che la lingua si andava perdendo), persino tra gli ebrei di Sicilia, che fra di loro scrivevano in siciliano sotto la forma dei caratteri ebraici. Il siciliano è ora anche lingua scritta, anzi lingua nazionale, dapprima timidamente accanto al latino e solo per usi pratici, e poi sempre di più con l’avanzare del secolo, specie come lingua parlamentare e politica. Solo la presenza di una dinastia propria non si sarebbe rivelata una conquista duratura, per una serie di sventure dinastiche, e questa complicazione avrebbe segnato in negativo i successivi quattro secoli di storia del Regno. Ma molte delle conquiste del Vespro si sarebbero rivelate particolarmente durature, e tra queste certamente quella della Costituzione parlamentare.

Cronologia politica:

1282-1285 Pietro I (dal 1283 vicario Giacomo Aragona) e Costanza II Hohenstaufen

1285-1296 Giacomo (vicario Federico Aragona, il futuro Federico III, dal 1291)

1296-1337 Federico III (in realtà II)

1337-1342 Pietro II (associato al trono dal 1320)

1342-1355 Ludovico (fino al 1348 sotto la reggenza di Giovanni Aragona, Duca d’Atene, dal 1348 al 1350 sotto la reggenza del Gran Giustiziere Blasco Alagona e della regina Elisabetta di Carinzia, dal 1350 al 1352 sotto la reggenza della sola Elisabetta, dal 1352 al 1353 sotto la reggenza di Costanza Aragona, dal 1353 al 1355 sotto la reggenza di Eufemia d’Aragona)

1355-1377 Federico IV (in realtà III, fino al 1359 sotto la reggenza di Eufemia, dal 1359 al 1361 sotto la reggenza del Gran Camerario Francesco Ventimiglia)

1377-1392 Maria (dal 1377 al 1378 sotto la reggenza del Gran Giustiziere Artale Alagona, dal 1378 al 1392 sotto la reggenza dei Quattro Vicari: Manfredi Chiaramonte (Andrea Chiaramonte dal 1391), Artale Alagona (Manfredi Alagona dal 1389), Francesco Ventimiglia (Antonio Ventimiglia dal 1388), Guglielmone Peralta.

1392-1402 Martino I “il Giovane” e Maria

1402-1409 Martino I “il Giovane” (nel 1404-05 e dal 1408 vicaria la regina Bianca di Navarra)

1409-1410 Martino II “il Vecchio” (vicaria la regina Bianca di Navarra)

1410-1412 Interregno (vicaria la regina Bianca di Navarra)

 

 

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