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La Finanza siciliana dopo gli accordi di Crocetta e Musumeci: un quadro riassuntivo (seconda parte)

Nella scorsa puntata e in questa stiamo mettendo nero su bianco la tragedia che ha colpito la Finanza siciliana negli ultimi dieci anni, prima che le mistificazioni coloniali intervengano a coprire tutto con una coltre di luoghi comuni sulla Sicilia mantenuta e sprecona.

La realtà è che la Sicilia è stata stuprata dall’Italia, con la complicità imperdonabile della classe politica dirigente.

La volta scorsa eravamo rimasti al primo degli accordi di Crocetta, ovvero quello del 9 giugno 2014.

Sembrava enorme, ma è era in fondo solo l’antipasto. Il peggio doveva ancora venire.

Saltiamo per un attimo quello che accade nel 2015, perché meriterebbe un articolo a parte. Diciamo in breve che il precedente accordo disciplinava l’applicazione in Sicilia della grande riforma contabile dell’armonizzazione. Con questo pretesto la Sicilia, nell’estate del 2015, avrebbe cancellato unilateralmente tutti i residui attivi nei confronti dello Stato italiano per tutte le imposte illegalmente incassate da questo al posto della Regione. Il regalo, per circa 10 miliardi, porta la Sicilia a un disavanzo di circa 6 miliardi. Lo Stato, non contento di questo regalo, fa finta che al disavanzo corrisponda un debito verso qualcuno e ne pretende la restituzione dalla Regione, facendosi così regalare praticamente il doppio, sebbene il primo regalo è fatto di colpo, mentre il secondo restituito in comode rate trentennali. Solo sulle accise Crocetta, incredibilmente, tiene duro. A regalare quelle ci avrebbe pensato nel 2022 Schifani, ma quella è un’altra storia.

Non credo che a memoria d’uomo sia stato fatto un saccheggio più pesante di quello del 2015. Ma, dicevo, il tema meriterebbe un articolo a parte. Saltiamo dunque al 2016.

Il 20 giugno 2016 si fa il secondo grande accordo tra Stato e Regione. Ricordiamo che nel primo si era esplicitamente rinunciato a tutto il gettito del contenzioso costituzionale e, implicitamente, come poi sarebbe avvenuto l’anno dopo, a mezzo dell’introduzione della riforma contabile, a tutti i propri crediti vivi, restituiti due volte. Ma il precedente accordo regolava solo il passato. Ora c’era da togliere alla Sicilia anche il futuro.

Si è visto, in un nostro precedente intervento, che l’Irpef era stata defraudata alla Regione spostando il luogo della riscossione del tributo maturato in Sicilia. Ora era ora di porre termine a questo scandalo e istituzionalizzare il furto.

Per vendere un contentino ai Siciliani, alla Sicilia si promette di abbandonare il criterio storico di attribuirle “teoricamente” il 100% dell’IRPEF riscossa in Sicilia (cosa mai avvenuta realmente), perché adesso le sarebbe data una quota dell’IRPEF dichiarata da soggetti passivi aventi domicilio fiscale in Sicilia. In altre parole si passa dal criterio del “riscosso” al criterio del “dichiarato”. Però, piccolo particolare, non viene dato alla Regione il 100% del gettito dei dichiaranti aventi domicilio in Sicilia, ma, fatte salve alcune norme transitorie, solo il 71%.

Perché il 71%? Non si sa. Probabilmente per cristallizzare il furto dell’IRPEF in essere, già di circa il 30%. In questo modo il furto diventa legale. Ci si discosta ancora di più dal modello statutario dei tributi propri, surrogato dai tributi erariali devoluti. Ora l’IRPEF non è più neanche un tributo erariale devoluto, ma un tributo erariale e basta! Un tributo erariale sul quale è consentita, graziosamente, una compartecipazione per la Regione. Una compartecipazione, si badi, con la quale la Regione avrebbe dovuto fare fronte a QUASI TUTTA LA SPESA PUBBLICA IN SICILIA, ormai scaricata su Regione e Comuni a valanga. Nessuna misura compensativa, nessuna valutazione di LEP. Niente. La Sicilia, come un paese tributario qualunque, versa il 29% a Roma dominatrice, e cerca di sopravvivere con tutto il resto. Peraltro il “dichiarato” è un brutto surrogato del maturato. La gran parte dei redditi fondiari potrebbero infatti ormai essere in capo a proprietari che hanno trasferito altrove la loro residenza. Il relativo gettito, benché maturato in Sicilia, adesso va allo Stato con tutti i sentimenti e la controfirma del Capo dello Stato, siciliano anagraficamente per beffa.

In termini finanziari ciò equivale a un regalo ANNUO DI CIRCA 4 MILIARDI. Al confronto la rinuncia al gettito per il contenzioso, di circa 5 miliardi, una tantum, o il regalo di 10+6 miliardi di residui attivi (10 per la cancellazione dei residui, e 6 per lo spalmarsi del conseguente disavanzo nei trent’anni futuri), impallidiscono. Impallidiscono, perché il regalo di 21 miliardi circa, per quanto abnorme, disumano, violento e vile, era comunque un regalo una tantum. Questo è ancora più grave, perché è una semper. Non togliendo funzioni alla Regione, anzi condannandola a fare accantonamenti, un po’ per l’impagabile contributo al risanamento della finanza pubblica erariale, un po’ per ripianare il disavanzo/regalo allo Stato, questa praticamente non può più chiudere i bilanci, neanche tenendo i servizi al minimo, anzi interrompendo servizi essenziali, bloccando il turn over, e cose del genere. Non può più. E la stessa Sicilia, da un punto di vista macroeconomico, deve subire questo salasso di circa 4 miliardi di mancata IRPEF, di cui solo una piccola parte ritornerà in Sicilia sotto forma di spesa e stipendi pubblici. Il salasso continuo rischia ora di uccidere la Sicilia. Ma il problema sembra non esistere per nessuno.

Ogni tanto il siciliano comune se ne accorge che c’è qualcosa che non va. Ma la sua capacità di analisi non riesce ad andare al di là di un semplice “qua è tutto uno schifo”, attribuendo semplicemente all’avidità o incapacità dei propri politici il disastro. Ma ovviamente tutto quello che abbiamo descritto è lontanissimo dalla sua percezione. E la schiavitù va avanti tranquilla.

Abbiamo detto sbrigativamente delle “norme transitorie”. Queste, soffermiamoci un attimo, sono un ulteriore sfregio, una coltellata sul viso gratuita. Il 71% dell’IRPEF, infatti, decorre dal 2018. Nel 2016, senza motivo, la Sicilia deve accontentarsi del 56,1% e nel 2017 del 67,4%. Perché? Per questo: vae victis!

L’accordo è dapprima recepito nel DL 113/16, art. 11, e poi trasfuso nella modifica dell’art. 2 dell’antico DPR 1074/1965, mutilato in tal senso con il D. Lgs. 251/16, anche questo votato dal CdM, in modo non paritetico, ma con Crocetta invitato “nel rango di Ministro” (poropom pom pom).

A scanso di equivoci, la legge di bilancio per il 2017, oltre a riepilogare i punti principali dell’accordo, impone anche alla Sicilia, dal 2018, la norma capestro del “pareggio in bilancio” per evitare che questa faccia un passo da sola. Da ora in poi qualunque spesa, anche per comprare uno spillo, è soggetta all’arbitrio del CdM, il quale può obiettare che la spesa non sarebbe coperta e quindi può cassarla. Di fatto, la “Regione più autonoma d’Italia”, per ogni mossa finanziaria deve prima andare a Roma e chiedere il permesso per ogni cosa, per tutto, come l’ultimo dei possedimenti coloniali. Tanto varrebbe trasferire a Roma l’assessorato all’Economia, e finanche l’ARS, perché il CdM elabori direttamente tutto ciò che riguarda la Sicilia. Di fatto è già così, ma non si vede. L’ARS e gli Assessorati regionali sono lasciati a Palermo, come capri espiatori per le manifestazioni locali. In quel modo, invece, la reale condizione della Sicilia sarebbe sin troppo evidente.

Dimenticavo: nello stesso accordo la Regione, oltre a rinunciare a quasi un terzo dell’IRPEF ad essa spettante, si impegna per una progressiva riduzione strutturale della spesa corrente (tagli! Peggiori di quelli imposti dalla Trojka alla Grecia) e per la “riqualificazione della spesa” (cioè farsi dire da Roma le residue spese come si devono indirizzare). Questo è stato il Governo Crocetta, per la memoria storica. Tanto erano insostenibili questi tagli che un nuovo accordo, questa volta di Musumeci, del 19 dicembre 2018, li avrebbe aboliti, ma sostituiti con nuove norme sulla “riqualificazione della spesa regionale” (ormai è un pilota automatico, un commissariamento permanente e istituzionale).

Direte: “ma che tagli saranno stati mai”? Per curiosità: RIDUZIONI DELLA SPESA CORRENTE IN MISURA “NON INFERIORE” AL 3% ANNUO DAL 2017 AL 2020, fatte salve alcune voci tra cui la sanità. In altri termini, con facili calcoli, nel periodo di peggiore recessione dalla Peste Nera, cosa fa il tiranno italico alla Sicilia? Un taglio complessivo in tre anni dell’8,7327% sulla spesa pubblica. Meno spesa, meno redditi, meno domanda, meno offerta, meno occupazione, più emigrazione…

Ah, dimenticavo ancora. Nel frattempo, dal 2014, la Regione, pur avendo rinunciato al gettito del vecchio contenzioso costituzionale, aveva qua e là ripreso a farne di nuovo. NON SIA MAI! Questa volta la Regione non solo deve rinunciare agli effetti positivi delle sentenze che fossero derivati da eventuali pronunce di accoglimento, ma deve proprio ritirare tutti i ricorsi pendenti. La rinuncia al gettito vale solo se i ricorsi non si possono più ritirare e vanno a sentenza. Questa volta lo Stato non vuole più nemmeno essere svergognato: la Sicilia deve ritirare i ricorsi. E non solo li deve ritirare, ma se non li ritira lo Stato non fa valere l’accordo e non dà neanche i decimi di IRPEF promessi, un ricatto bello e buono, peggiore di quello di un mafioso qualunque. E poi dicono che la mafia è siciliana…

Anche questa volta, stranamente, la Corte dei Conti non si accorge di nulla.

Se questo accordo vi è sembrato “tombale”, devo purtroppo ricordarvi che non è tutto. In questo modo si sanciva per sempre la legittimità del furto dell’IRPEF, per circa 4 miliardi l’anno, ma restava aperto il fronte dell’IVA, che valeva tra i 3 e i 3,5 miliardi l’anno.

Per questo si fa il terzo grande accordo di Crocetta, quello del 12 luglio 2017.

Il metodo è ormai tracciato. Non più tributo erariale devoluto, ma compartecipazione regionale a un tributo erariale. Però qua il furto è troppo grosso, che si fa? Bene, si abbassa la percentuale di compartecipazione fino al punto giusto per sanare ogni furto. Intanto l’IVA alle dogane, la stessa che a Bolzano va al 100% alla Provincia autonoma, qui va al 100% allo Stato. Ci mancherebbe.

Poi, sull’IVA maturata, e non più su quella riscossa (anche qui, dunque, il criterio del riscosso viene abbandonato) viene data a decorrere dal 2017 una compartecipazione – udite udite – del 36,4%!! Quello che era un tributo proprio in pratica è intascato per circa due terzi dallo Stato e tanti saluti. Lo Stato di fronte a questa nuova percentuale, contro al 100% teoricamente spettante prima, dà qualche ristoro alla Regione, o toglie qualche funzione? Ma quando mai: chi ha dato, ha dato, e chi ha avuto, ha avuto. Questa è la legge, ancora una volta vae victis. Piccola consolazione: almeno è sul maturato e quindi non conta la sede legale dell’impresa. Ma l’anno dopo la Regione fa una brutta scoperta. Il maturato è “calcolato” dall’ISTAT, e, stranamente, il 36,4% del maturato è di meno del 36,4% del riscosso.

Direte: è impossibile. Ciò sarebbe possibile solo se la Sicilia fosse esportatrice netta verso l’Italia, ed in essa avessero sede tante imprese i cui consumi si svolgono sul Continente, tante in più rispetto al contrario, cioè alle imprese italiane che hanno sede altrove, ma il consumo dei cui beni e servizi avviene in Sicilia. E invece, magia della contabilità dell’ISTAT, il gettito, seppur di poco, si contrae. In pratica abbiamo il fondato sospetto che ci tocchi non il 36,4% del gettito IVA maturato in Sicilia, bensì il 36,4% di quello che vuole lo Stato, a piacere, al loro buon cuore.

In cambio lo Stato, dopo tanta generosità, si ritira quasi del tutto dal finanziamento dei Comuni siciliani, e in pratica del tutto dalle ex-province, ora tutte accollate alle ricche finanze regionali.

Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Ma l’ANCI, stranamente, non se ne accorge.

Questo accordo va in Consiglio dei Ministri che già Crocetta non c’è più. La sua “era” era terminata, e non ha potuto più fare null’altro per noi. Il CdM che lo deve recepire, questa volta, invita come Ministro il suo successore, Musumeci. Questi, insieme ad Armao, in campagna elettorale aveva denunciato gli accordi “scellerati” di Crocetta ed aveva previsto fuoco e fiamme. Misteriosamente, però, una volta arrivato a Palazzo d’Orléans, tanta baldanzosità si spegne come d’incanto. Il Presidente-Ministro delega l’Assessore Falcone alla seduta in CdM. Questi vota a favore senza fare il minimo cenno di dissenso. Mattarella, ovviamente, firma senza alcun problema. Arriva così il D. Lgs. 16/18 che dà un’altra picconata all’art. 2 del DPR 1074/1965.

Da ora in poi, i circa 7 miliardi l’anno denunciati da Baccei come “dirottati” dalla finanza regionale a quella statale, lo sono per sempre e per legge costituzionale, con un danno per la Sicilia praticamente incalcolabile.

Insediatosi Musumeci in pratica non cambia nulla. Seguono altri accordi, ma ormai di minore momento. La Corte Costituzionale, mai benevola con la Sicilia, aveva avuto qualcosa da obiettare sulle modalità di ripartizione del contributo al risanamento della finanza pubblica erariale. Con accordo del 19 dicembre 2018 questo è dunque ridotto, dal 2018 al 2019, da 1,3 miliardi circa a 1 miliardo circa. 300 milioni di ossigeno per le casse esauste della Regione, anche perché ormai i bilanci letteralmente non chiudevano più. Restiamo in vetta come contributo pro capite, rispetto a TUTTE le altre regioni italiane, ma in modo appena appena meno scandaloso. Lo stesso accordo concede 540 milioni, una tantum, per strade e scuole provinciali. In pratica, abbandonata sola a sostenere le ex province, la Regione riusciva a malapena a pagare gli stipendi, ma non aveva più un centesimo per le politiche di questi enti. Questi soldi, però, erano un’una tantum per ben sette anni. La Regione dovrebbe farceli bastare, con varie rate, dal 2019 al 2025. In pratica, per esempio, il 2023 dispone di 100 milioni per tutte le strade e le scuole di Sicilia. Di fronte a tanta grazia la Regione non poteva fare a meno di sdebitarsi, ritirando ancora una volta tutti i ricorsi contro lo Stato. Viene il dubbio atroce che questi ricorsi, sui quali non ho fatto conti, valessero ben più delle centinaia di milioni elargite a denti stretti dallo Stato in questo accordo.

Un successivo accordo, il 15 maggio 2019, riguarda tematiche minori, e tutto sommato irrilevanti. La più interessante è una limatura di circa 150 milioni sul contributo al risanamento della finanza pubblica erariale, ma con l’impegno di Palermo di farsi dire da Roma esattamente come spendere la minor somma richiesta. In pratica, ormai, gli accordi sono semplicemente l’ordinaria amministrazione di una Regione conquistata e commissariata. La Commissione Paritetica umiliata a sancire questi accordini da ragionieri, cento milioni di qua, cento milioni di là, altro che norme di rango costituzionale. Non c’è più nulla da spremere, si galleggia e si procede a vista in mezzo alle macerie. Da questi accordi, peraltro, l’Assemblea è completamente esautorata e chiamata solo a ratificare i provvedimenti di legge conseguenti.

Su queste macerie, nel 2020, si è abbattuta la crisi del Covid. Penso però di avere avvilito abbastanza i miei pochi lettori, e comunque il quadro è ormai abbastanza chiaro e immutato da allora nei suoi elementi essenziali. Comunque, in altri interventi, se necessario, vedremo anche cosa è successo dopo, fino all’attualità.

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