La Sicilia superpotenza del 1200

Andando ancora indietro nella nostra Storia politica e istituzionale troviamo il Regno di Sicilia sotto la dinastia Hohenstaufen. Un’era non priva di momenti drammatici, ma complessivamente nella surreale prospettiva di una Sicilia superpotenza mondiale e Palermo capitale del mondo..

Capitolo 2: La Dinastia di Svevia o Hohenstaufen

 

  • 1 – La breve tirannia dell’Imperatore Enrico e la guerra civile durante la reggenza di Innocenzo III

Enrico, subito dopo l’incoronazione, dopo aver assegnato diversi feudi in Sicilia a suoi compatrioti tedeschi, trafugò quanto poté del tesoro di Ruggero, portandolo in Germania, tra cui il famoso mantello regale. Da allora e fino alla fine del Sacro Romano Impero quel mantello sarebbe stato usato all’atto delle incoronazioni, e tutt’oggi si trova a Vienna, dove risiedettero gli ultimi sacri romani imperatori. Le notizie del barbaro trattamento di Guglielmo III e dei suoi familiari, unito alla prolungata lontananza dell’Imperatore, che aveva affidato il Regno a governatori, alimentarono il malcontento e una congiura, cui prese parte anche l’ex ammiraglio Margarito da Brindisi, sfuggito alle epurazioni di Enrico per le sue qualità militari ed entrato in possesso del Principato di Taranto. Con il pretesto di una nuova crociata, Enrico tornò a capo di un grande esercito, compiendo nel Sud Italia, e soprattutto in Sicilia, atti di inaudita barbarie e crudeltà. Nel frangente accettò un dono di 16.000 scudi d’oro dagli emissari dell’Impero Romano d’Oriente, in cambio della promessa che la Sicilia non avrebbe ripreso a pretendere le effimere conquiste fatte da Guglielmo il Buono lungo le coste balcaniche, queste perse subito dopo la sua morte e i disordini che ne erano seguiti.  Tra le sue crudeltà, ricordiamo appena che Margarito fu accecato ed evirato, mentre il re designato dalla congiura, tale Giordano, che sarebbe stato imparentato con la vecchia casa regnante, morì con l’imposizione di una corona infuocata, mentre altri oppositori furono bolliti o bruciati vivi. La regina Costanza, siciliana di nascita, nulla poté sul suo brutale consorte durante questa feroce repressione in cui la Sicilia veniva trattata come un regno straniero conquistato. Interessante, in questa repressione, la cacciata degli ultimi musulmani da Catania, allora in armi e fedeli a Guglielmo III: è l’ultima testimonianza storica di una significativa presenza islamica nella Sicilia orientale, da sempre più rarefatta che in occidente.

Una malattia misteriosa si portò però via presto, già nel 1197, il successore di Federico Barbarossa a pochi anni dai suoi misfatti, tra tormenti terribili, a soli 32 anni. Di lui ricordiamo solo una piccola riforma monetaria: l’introduzione in Sicilia dei “denari” italiani (quindi l’unico innesto di monetazione di derivazione carolingia nel sistema monetario siciliano), come moneta divisionale, posta pari a 1/16 di tarí. Questo avrebbe fatto sparire le vecchie monete di rame di derivazione bizantina (i follari) e le monete in mistura d’argento di derivazione araba (le kharrubbe). Col tempo questi denari (di cui all’inizio erano coniati persino i quarti), detti anche “pìccioli”, avrebbero subito un processo di svalutazione molto più rapido di quello del tarì, perché coniati in moneta vile e perché, nei torbidi del XIV secolo, coniati addirittura dai feudatari; così sarebbero finiti per stabilizzarsi in età moderna a 1/120 di tarì e a 1/6 di grano, cioè sarebbero diventati l’unità di conto minima del sistema siciliano.

Costanza d’Altavilla per prima cosa, forse già conscia del suo cattivo stato di salute, si affrettò a fare investire il piccolo Federico dal papa del Ducato di Puglia e del Principato di Capua, formalmente feudi ecclesiastici. Il nuovo papa, Innocenzo III, pretese da Costanza che promulgasse la rinuncia all’apostolica legazìa sulla Sicilia concessa da Urbano II a Ruggero I (e che mai i papi avrebbero “digerito”). Costanza, tuttavia, pur avendo detto ai suoi legati che avrebbe accondisceso alle richieste papali, non arrivò a promulgare tale rinuncia, giacché morì prima che i suoi ambasciatori fossero tornati a Palermo, e così i diritti della corona sulla chiesa siciliana restarono al momento salvi. Poco prima di morire fece venire dall’Italia centrale Federico, a soli quattro anni lo fece incoronare e, sapendo che presto sarebbe rimasto orfano, lo mise proprio sotto la tutela di Innocenzo III, in cambio di un tributo annuo e al rimborso per le spese militari per la protezione del regno.

La Sicilia teoricamente sarebbe dovuta quindi essere amministrata direttamente dal papa, nella qualità di tutore di Federico II (lo chiamiamo così per tradizione storiografica, in realtà era soltanto I di Sicilia, mentre sarebbe stato II solo come S.R.I.). Per quanto Innocenzo III avesse un’alta concezione del suo ruolo teocratico, non poté realmente occuparsene. La tutela di fatto fu affidata a Gualtiero di Palearia, cancelliere del Regno, assistito da altri tre ecclesiastici in un consiglio di reggenza.

Neanche un anno dopo, però, il capo del partito “tedesco”, Marcovaldo di Anweiler, allontanato da Costanza insieme ai tedeschi più odiati dai siciliani, nonché sponsorizzato da Filippo duca di Svevia, zio del piccolo Federico, invade il Regno, occupandone e conquistandone quasi tutta la parte continentale. Il papa manda aiuti all’esercito siciliano e non riconosce l’usurpatore, ma senza molto successo. Con l’aiuto della flotta pisana Marcovaldo sbarca quindi a Marsala, si allea con i musulmani dell’interno, dilaga nel Val di Mazara e assedia Palermo, ma viene sconfitto dalle forze riunite del Governo della Reggenza e dei rinforzi papalini. I papalini a questo punto si ritirano sul Continente, dove al posto della signoria dell’Anweiler si viene a creare piuttosto una situazione di anarchia in cui le funzioni regie sono sempre più usurpate dagli inviati del papa, senza per questo riuscire a riportare l’ordine. Questo dà fiato all’usurpatore che continua la guerra, tentando senza successo un colpo su Messina con l’aiuto della flotta pisana, ma venendo nuovamente sconfitto dalle forze leali al Consiglio di Reggenza.

La situazione si complica quando Gualtiero di Brienne, genero di re Tancredi, si fa investire dal papa, che era anche alto signore feudale degli stati meridionali (Puglia e Capua), per la Contea di Lecce già appartenuta al suocero e per quello stesso Principato di Taranto che perfidamente Enrico VII aveva promesso allo sfortunato Guglielmo III e poi per breve tempo concesso a Margarito da Brindisi. Il Cancelliere, Gualtiero di Palearia, considerò violate le prerogative del Regno, anzi minacciato lo stesso pupillo dalla riammissione degli eredi di re Tancredi, e reagì alleandosi con Marcovaldo, ammesso nel Consiglio di Reggenza per un posto resosi vacante, mentre lottava nel Continente con Gualtiero di Brienne che, sempre nel nome del piccolo Federico, stava ottenendo molti successi.  Marcovaldo poco dopo morì. Il Regno cadde nel caos. Per un certo periodo si impadronì di Palermo e del piccolo re tale Guglielmo Capparone, mentre i musulmani nei castelli all’interno del Val di Mazara si erano resi in pratica indipendenti, il partito tedesco riprendeva piede nel Continente per la morte di Gualtiero di Brienne, Pisa e Genova, chiamate in Sicilia già da Enrico per ricevere aiuto dalle loro flotte contro quella siciliana, lottavano per il possesso della città di Siracusa, i feudatari e le città erano praticamente in balia di sé stessi. In questi anni di torbidi si svolse la IV Crociata, cui certamente la Sicilia nel caos non era in grado di partecipare, ma che avrebbe avuto un certo impatto sugli spazi geopolitici della stessa. Questa crociata in realtà non ebbe come obiettivo la Terra Santa, ma l’Impero Romano d’Oriente, occupato dai Veneziani e sostituito dal fantoccio “Impero Latino d’Oriente”, mentre ciò che ne restava si spappolava tra l’Impero di Nicea, quello di Trebisonda e il Despotato d’Epiro; anche se ricostituito dopo la morte di Federico con l’aiuto dei Genovesi, non si sarebbe più ripreso e a est del Regno, nei Balcani, si stava quindi creando un vuoto politico che sarebbe durato secoli, fino alla venuta dei Turchi.

Nel 1206, riconciliatosi con il papa, il cancelliere Gualtiero di Palearia riesce a rientrare in possesso di Palermo e della tutela del piccolo Federico, al quale nel frattempo non era mancata un’ottima formazione, nonostante i torbidi politici in atto. Sono leggende senza fondamento quelle che vorrebbero il piccolo Federico vagabondare abbandonato a se stesso per le vie di Palermo, protetto e sostentato dai cittadini e ritornare soltanto di tanto in tanto a Palazzo. I tentativi di Innocenzo III di riportare un po’ d’ordine nel Regno ai confini meridionali dello Stato della Chiesa ebbero modesto successo, nonostante qualche risultato nei territori di confine e un’assemblea quasi parlamentare da lui presieduta a San Germano, per pacificare almeno il Principato di Capua. Approfittando dell’assassinio in Germania di Filippo di Svevia (1208), egli pensa di dividere stabilmente le corone, attribuendo quella tedesca e imperiale al capo del partito guelfo, Ottone IV di Brunswick, che infatti venne incoronato a Roma nel 1209, e lasciando la Sicilia (ancora tutta da domare) al suo pupillo, al quale consigliò, giovanissimo, di sposare Costanza, figlia del re d’Aragona. Ottone, però, non rispetta i confini con il Regno di Sicilia, strappa allo stesso gran parte dell’Italia meridionale, cercando di costruire un grande regno italiano, all’interno dei confini dell’Impero. Ma i disordini che si creano in Germania, aizzati da papa Innocenzo che si era pentito di averlo incoronato, lo costringono ad abbandonare il campo mentre era già arrivato in Calabria, e quindi le sue conquiste non restano durature.

  • 2 – La grande ascesa di Federico dalla Sicilia al Sacro Romano Impero

Federico, nel frattempo (1209), era uscito di tutela, sopravvissuto fortunosamente all’anarchia.

Federico ebbe la fortuna di studiare molto da piccolo e da giovane, molto più che i suoi coetanei, e fu un uomo al di fuori del comune, di rara intelligenza e cultura. Cresciuto a Palermo, fu un vero re siciliano a tutti gli effetti, siciliana fu la sua lingua madre, anche se conosceva e parlava bene il latino, il greco, l’arabo e, un po’ meno bene forse, il volgare tedesco.

Uscito così, miracolosamente illeso, dall’anarchia della sua minore età a soli 15 anni entra nel pieno delle proprie funzioni quale re di Sicilia. Sposa una donna molto più grande di lui, la regina Costanza (da non confondere con l’omonima madre), che si rivelerà di grande aiuto nei primi anni di regno. I primi anni gli serviranno per ristabilire con mano ferma la sua autorità in Sicilia, mentre sui possedimenti continentali, già invasi da Ottone, resta alquanto debole.

Ma il suo “colpo da maestro” è il ricongiungimento delle corone siciliana e tedesca, a lungo avversato dai pontefici che temevano di essere presi “a tenaglia” da Nord e da Sud.

Approfittando delle divisioni interne all’Impero, lascia alla moglie il governo della Sicilia e, passando da Roma, con un viaggio avventuroso tra le città d’Italia a lui fedeli, giunge in Germania dove prende possesso del Ducato di Svevia. Qui con un capolavoro di diplomazia, concedendo ulteriori diritti ai feudatari, l’ereditarietà piena al Regno di Boemia, alcune concessioni di confine alla Danimarca, si allea stabilmente con il re di Francia, e insieme a questi a Bouvines (1212) sconfigge Ottone di Brunswick, i cui disordini, a capo del partito guelfo, sarebbero però continuati sino alla sua morte, avvenuta nel 1218. Federico è incoronato “Re dei Romani” ad Aquisgrana nel 1215 (cioè titolare delle tre corone di Germania, Italia e Borgogna, ma non ha ancora l’investitura imperiale). Papa Innocenzo, per dargliela, ha un conto in sospeso da saldare con la Sicilia, che aveva interrotto per la prematura morte della madre Costanza. Oltre che di Puglia e Capua, voleva essere riconosciuto signore feudale anche per la Sicilia e voleva ritirare l’apostolica legazìa a suo tempo concessa a Ruggero I. Oltre a questo Federico II avrebbe dovuto lasciare la Sicilia al figlio, ma questi non ebbe tempo di accontentare le pretese del papa anche se avesse voluto, tranne il riconoscimento della correggenza di Sicilia al figlio Enrico, perché nel frattempo questo papa sarebbe morto (1216). A questo punto ritiene giunto il momento di rafforzare il suo potere. Fa riconoscere il piccolo Enrico anche Re dei Romani (oltre che di Sicilia), scende a Roma, dove aiuta il successivo papa a rientrare per una sommossa che lì si era scatenata, e così ottiene senza pagare alcun prezzo di potere finalmente essere incoronato Sacro Romano Imperatore (1220). Onorio III lo incoronò con la moglie Costanza, ma con la promessa di unirsi alla V Crociata che si stava svolgendo, senza particolare esito, proprio in quel frangente.

L’Impero allora includeva le tre corone di Germania, Borgogna e Italia (la Boemia era invece un regno vassallo), ma solo sulla prima l’autorità dell’Imperatore era abbastanza salda. Federico però non era molto interessato alla Germania, dove fece riconoscere Re dei Romani il giovane Enrico, venuto dalla Sicilia. Provvide così a rafforzare la gestione “collegiale” dell’Impero, con una debole autorità centrale, per potersi meglio concentrare sul Regno di Sicilia, che restava il centro dei suoi interessi.  E proprio con il pretesto di riportare l’ordine sui vassalli ribelli del Continente e sui Saraceni dell’Isola Federico riuscì a rimandare la promessa di prendere parte alla Crociata in corso.

  • 3 – La restaurazione del Regno e lo stupor mundi

Si volse poi a restaurare, con successo, l’autorità regia sull’Italia meridionale, giacché la moglie fino ad allora si era limitata a governare in qualche modo sulla Sicilia, lasciando il Continente in pratica nella totale anarchia feudale. Federico tolse tutte le usurpazioni, ristabilì l’ordine, e convocò a tale scopo un Parlamento a Capua per i due stati continentali. Da questo momento in poi, pur restando sempre un’amministrazione assai decentrata, il Ducato di Puglia – Principato di Capua (le due amministrazioni sarebbero state ormai congiunte) venne organizzato con una burocrazia parallela, anzi gemella, rispetto a quella della “Sicilia” propriamente detta (Sicilia e Calabria), la cui amministrazione è ora centrata forse più su Messina che su Palermo. Federico, in altre parole, tentò seriamente di costituire uno stato siciliano unitario che andasse dalla Sicilia all’Abbruzzo, e non più uno stato siciliano con possedimenti nell’Italia meridionale, come era stato con i Normanni. Altro Parlamento tenne a Messina, riavvicinandosi sempre più al cuore dei suoi domini. Ormai la sua autorità nel Regno di Sicilia era ben salda, disturbata soltanto dalle continue pressioni pontificie per l’organizzazione di una crociata. In effetti Federico armò in quel frangente una flotta per aiutare i Crociati che occupavano la città di Damietta in Egitto, ma questa non arrivò in tempo e comunque tornò indietro senza nulla di fatto, e a nulla valse la punizione di Federico al Conte di Malta, comandante della spedizione, per ristabilire buone relazioni con il papato.

In quegli anni Federico, però, era impegnato soprattutto a ristabilire la sua autorità in tutta la Sicilia, scacciando i Genovesi da Siracusa e volgendosi quindi contro i Saraceni in Sicilia. Per debellarli dalle principali rocche ci vollero tre anni (1225), e alla fine molti dei superstiti sarebbero stati deportati in Puglia, a Lucera, sotto la sua protezione, dove divennero suoi fedelissimi sostenitori. Per gli ultimi musulmani, invece, arroccati nelle più impervie montagne del Val di Mazara, la guerriglia sarebbe durata ancora per alcuni decenni, almeno fino agli anni ’40, quando finalmente sarebbe seguita una definitiva pacificazione e progressiva assimilazione alla restante popolazione cristiana.

Per qualche tempo Palermo rimase la capitale amministrativa di questa costruzione, ma poi, fatalmente preso da un baricentro spostato verso il Nord, le assenze dalla capitale nominale si andarono intensificando. Alla morte della regina Costanza (1222), che presidiava l’amministrazione a Palermo, il testimone fu passato all’Arcivescovo Berardo, stabilissimo braccio destro dell’Imperatore-Re, ma ormai le funzioni più importanti seguivano la corte itinerante, e Palermo, pur restando la metropoli più importante del Regno, dove Federico teneva reggia nelle grandi occasioni, cominciò ad essere trascurata. A Palermo rimase l’ufficio prestigioso della Cancelleria del Regno, ma dal 1221 Federico non avrebbe nominato più alcun Cancelliere, preferendo un’amministrazione decentrata e itinerante, e – per le funzioni restate in capo alla cancelleria – ormai più burocratiche che politiche, queste furono affidate ai cappellani della Cappella Palatina. Egli, invece, cominciò a risiedere sempre più stabilmente in Puglia, e in particolare a Foggia, baricentro geografico dei suoi svariati domini. Il declassamento della Cancelleria rese autonomo un antico ufficio, prima posto alle sue dipendenze, quello del Maestro Notaro, o Protonotaro del Regno, che poi assorbì quello analogo del Logoteta del Regno, di origine bizantino-siceliota: Pier delle Vigne (1247) fu il primo “Protonotaro e Logoteta del Regno”, una sorta di segretario ufficiale, nonché custode degli atti ufficiali dello Stato. Questo ufficio sarebbe continuato ininterrotto sino al 1819. Altro importante ufficio, all’avanguardia per i tempi, fu l’istituzione di una vera e propria magistratura contabile: la Magna Curia dei Maestri Razionali, nel 1240. La Sicilia era quindi il centro politico di una monarchia universale, e se per un momento Palermo era potuta sembrare la “capitale del mondo”, la Sicilia era anche proiettata su ambizioni politiche più ampie di quelle strettamente nazionali siciliane, restandone infine quasi trascurata.

Per il resto gli ordinamenti ereditati dai Normanni furono mantenuti e perfezionati. Si privilegiò il livello “provinciale” dell’amministrazione. Il Regno di Sicilia propriamente detto era distinto nella Calabria Citra (Cosenza), Calabria Ultra (Reggio), Sicilia al di qua del Salso (Messina), Sicilia al di là del Salso (Palermo). Il Ducato-Principato (Puglia-Capua) era diviso in altre province, con uffici pressoché identici, che poi avrebbero costituito la mappa amministrativa del futuro Regno di Napoli e, tutto sommato, delle attuali province. Le due amministrazioni, “siciliana” e “pugliese”, trovavano poi nella Corte e nelle leggi emanate dal Parlamento (le Costituzioni) il loro momento unitario. Si noti che la distinzione in Valli, se non del tutto abbandonata, andò un po’ in ombra: Val Demone e Val di Noto erano insieme “Al di qua del Salso” (si adottava il punto di vista imperiale romano), mentre il Val di Mazara era “al di là” e col tempo si sarebbe parlato anche di “Vallo di Girgenti” come distinto dal Val di Mazara al suo interno. Per il Regno di Sicilia propriamente detto la zecca fu accentrata a Messina (per il “Ducato-Principato” era invece a Brindisi). A Federico si deve la coniazione dell’Augustale, moneta aurea del valore nominale di 5 Tarì (e cioè pari a un sesto di onza, la moneta virtuale di computo), vero simbolo della potenza e stabilità del Regno.

La figura di Federico II destò per i tempi scalpore e scandalo. Interessato alla scienza, poliglotta, cristiano ma laico, anzi anticlericale, e tuttavia persecutore degli eretici, impersonava lo spirito ghibellino e anticipava i tempi moderni in un’epoca ancora oscura. Per questa ragione fu detto, in positivo “stupor mundi”, ma anche, in negativo, fu dipinto come un vero Anticristo. Non riteniamo ben fondate queste ultime accuse, che furono lanciate esclusivamente dalla propaganda papale e guelfa, per motivi essenzialmente politici, piuttosto che religiosi. L’unico intervento in campo strettamente religioso di Federico fu una costituzione con cui condannava l’eresia patarina e stabiliva il culto cattolico come unica confessione cristiana ammessa nel suo regno. Altra cosa fu la tolleranza nei confronti di ebrei e musulmani, ma questo va solo a vantaggio dell’intelligenza politica del grande sovrano. A lui si deve l’adozione dell’Aquila (nera in campo argenteo, almeno nella versione adottata dal figlio Manfredi e poi rimasta classica), come simbolo del Regno di Sicilia, che andò a sostituire lo scudo blu, inframmezzato dalle strisce bianche e rosse, degli Altavilla. Con alcune aggiunte e modifiche grafiche, quelle aquile sarebbero rimaste il simbolo politico della Sicilia sino al 1848, per tornare nel Gonfalone dell’attuale Regione, nel recente 1990, oggi usato di fatto come stemma della Presidenza della Regione.

  • 4 – La Sesta Crociata

Nel 1225 sposa in seconde nozze Jolanda, detta anche Isabella (II) di Brienne, regina di Gerusalemme.
A quei tempi il Regno crociato di Gerusalemme si era ridotto a una striscia di terra sulla costa palestinese, centrata su San Giovanni d’Acri; il regno era già stato governato dal padre, Giovanni di Brienne, come reggente per la figlia, la quale aveva ereditato il regno dalla madre. Con questo matrimonio la Sicilia prendeva sotto tutela il piccolo regno orientale, che ne diventava come un’appendice (da cui dipendeva feudalmente la Contea di Tripoli, e, in maniera più contestata, anche il Principato di Antiochia). In quel momento, da Palermo, Federico controllava mezzo mondo: la Germania mediante il Consiglio di reggenza e il giovanissimo Enrico, che vi aveva lasciato come vicario, più debolmente la Borgogna, a questa collegata, la “Puglia” affidata ai suoi funzionari, primo fra tutti il Gran Giustiziere Morra, la Sicilia propriamente detta (con la Calabria) direttamente, e suoi emissari controllavano ciò che restava del Regno di Gerusalemme portato in dote dalla moglie. Solo l’Italia settentrionale recalcitrava ad obbedire ai suoi ordini, a inviare truppe, a pagare tributi. Le città lombarde, semi-indipendenti, si erano riunite in una Seconda Lega Lombarda (la “Prima” era stata contro suo nonno, il Barbarossa) e solo poche città ghibelline gli erano rimaste fedeli. Papa Onorio III, già legato in Sicilia durante la minore età di Federico, e che poi lo aveva incoronato imperatore, riuscì a sventare un’altra guerra quando già l’Imperatore aveva concentrato un’armata siciliana a Pescara per invadere l’Italia ribelle. Federico perdonava i “felloni”, che accettavano di contribuire in armi alle operazioni a Gerusalemme. Lo scontro era solo rinviato dalla mediazione e il papa guadagnava con l’occasione la crociata promessa.

Nel 1228, alla morte di Jolanda al parto, fu coronato re di Gerusalemme il neonato Corrado (il futuro Corrado IV imperatore). La crociata, però, da lungo tempo promessa al pontefice, non poteva rinviarsi, anche perché a causa del suo ritardo e di una falsa partenza che, per colpa di malattie diffuse, aveva costretto la flotta a tornare indietro, Federico era stato colpito per ben tre volte dalla scomunica di Gregorio IX, molto meno conciliante del suo predecessore. In sua assenza la tutela su Corrado e il Governo su Sicilia e Puglia fu lasciata al fedele Rinaldo Duca di Spoleto. La crociata di Federico si sarebbe rivelata un grande successo diplomatico: con il Trattato di Giaffa (1229) la Sicilia otteneva pacificamente da Al Kamil, sultano egiziano in ottimi rapporti con Federico, e in preda a problemi suoi interni, i luoghi santi, con una tregua di dieci anni, ciò che consentì a Federico di coronarsi anche Re di Gerusalemme, rilevando la corona dal figlio e unendola a quella di Sicilia. Nel frattempo Gregorio IX, anziché ringraziarlo per questo successo, gli aveva armato un esercito contro con cui aveva invaso la parte continentale del Regno, aizzava lombardi e tedeschi contro il potere imperiale, impediva al Patriarca latino di Gerusalemme di incoronarlo, costringendo Federico a porsi sul capo quella corona con le proprie mani.

La città di Gerusalemme sarebbe rimasta in mani siciliane fino al 1244, quando fu ripresa dai musulmani e il regno crociato, ormai agonizzante, si ridusse di nuovo alle fortezze costiere. Alla morte di Federico sarebbe passato al secondo figlio legittimo ancora vivo, Enrico e, alla morte prematura di questo (1254), nuovamente a Corrado, ma questi ormai poteva dirsi più re tedesco che siciliano. L’invasione angioina della Sicilia avrebbe reciso ogni legame di questa con l’oriente (del resto di lì a poco, dopo la morte di Corradino di Svevia, ciò che restava del Regno andò ai re di Cipro, e infine fu definitivamente sopraffatto dai musulmani). Nominalmente i Re di Sicilia si sarebbero però sempre continuati a considerare Re di Gerusalemme.

Al ritorno dalla Terra Santa trovò i disordini causati dal papato che non riconosceva la crociata portata a termine da uno scomunicato e per di più senza spargimento di sangue. Federico passò diversi mesi a riportare l’ordine con le armi. Alla fine costrinse il papa alla pace, a San Germano, ai confini del Regno, nel 1230: restò solo una disputa sulla città di Gaeta rivendicata dal papa, risolta nel 1232 con un arbitrato a favore della Sicilia.

  • 5 – Le Costituzioni Melfitane e la Nascita della Letteratura Siciliana

Sul piano interno la monarchia fridericiana è segnata da una ampia rivalutazione del diritto romano, sul piano civile, e su una imponente opera di codificazione del diritto pubblico dei tempi (fiscale, penale, processuale, e vario) che Federico volle per importanza pari a quella del Corpus Juris di Giustiniano. Nel Parlamento di Melfi (1231) furono approvate le “Costituzioni melfitane”, che per secoli avrebbero costituito l’ossatura di base tanto della legislazione napoletana quanto di quella siciliana. Le Costituzioni furono redatte in latino e in greco, allora ancora le due lingue ufficiali del Regno, sia pure con un regresso progressivo della seconda rispetto alla prima. La macchina fiscale fu rafforzata, le gabelle, rispetto a quelle statuite da Guglielmo il Buono, praticamente raddoppiate, al fine di mantenere l’amministrazione di uno stato moderno. Federico fece riprendere anche lo studio del diritto romano oltre a riportarlo pienamente in vigore. Tra le riforme piace ricordare quella che consentiva anche alle donne di ereditare i beni allodiali (cioè le proprietà private, non di diritto feudale). Fu riordinata la Magna Curia, o Gran Corte civile e criminale. Furono ridotti drasticamente i diritti dei baroni ad esercitare la giustizia e furono aboliti i barbari “giudizi di Dio”, sostituiti con le prove testimoniali. Furono introdotti gli atti scritti nei processi giudiziari. Federico aveva già fondato l’Università di Napoli (1224), perché il Regno trovasse al proprio interno dove formare i propri giuristi, e le famiglie non dovessero più mantenere i figli agli studi nella lontana Bologna. A lui è attribuita la fondazione di Augusta e la rifondazione di Gela, sotto il nome di Terranova.

Siciliani furono ancora i primi autori di una poesia in lingua volgare, esplicitamente favorita da Federico. Con Federico, quindi, nasce la letteratura siciliana propriamente detta. I codici dei “siciliani”, saranno poi traslitterati da autori toscani e lombardi in volgari italiani, e quasi tutti in questa forma sarebbero poi giunti fino a noi, dando così origine, per questa via, anche alla letteratura italiana propriamente detta. Si tenga conto, tuttavia, che il confine tra dialetti napoletani e lingua siciliana doveva essere ai tempi molto più “alto” di quello attuale. Il siciliano, con ogni probabilità, era allora parlato nell’intera Basilicata, nel Cilento, fino alla Terra di Bari, oltre che ovviamente anche nel Salento e in Calabria come oggi. E quindi poteva legittimamente assumere a quel ruolo di “lingua nazionale” cui forse pensava il monarca siciliano.

  • 6 – La Sicilia ghibellina nella guerra infinita contro il partito guelfo

Dopo un breve periodo relativamente pacifico, in cui fu domata qualche piccola ribellione interna, e furono tenuti due parlamenti a Siracusa (1233) e a Messina (1234), un’altra disgrazia cadde sul capo del grande sovrano: il figlio maggiore Enrico, che da anni aveva nominato in sua vece vicario in Germania per i possedimenti imperiali, si ribellò al padre e si alleò con i Comuni italiani guelfi ribelli della Lega Lombarda, sconfessando invece le città fedeli all’Impero, le ghibelline. Enrico fu deposto, condannato a morte, ma poi la pena fu commutata in ergastolo dal padre. Trasportato di prigione in prigione, in uno di questi trasferimenti (1242) Enrico sarebbe morto suicida buttandosi da un dirupo in Calabria, stando almeno alla narrazione del Boccaccio.

Dopo aver sconfitto il figlio, Federico si sposa per la terza volta, questa volta con Isabella d’Inghilterra. Federico avrebbe tenuto quasi segregata questa giovane moglie, da cui avrebbe avuto un altro figlio, Enrico, e che restò spesso lontana dal marito, fissando infine la sua residenza a Napoli fino alla morte, avvenuta nel 1241. Il venir meno del figlio in Germania lo costringe a uscire dalla Sicilia e a spostare verso nord il baricentro della propria azione. Riprende il disegno di costituire il Regno d’Italia in modo accentrato come il Regno di Sicilia. È costretto a tornare in Germania per domare la ribellione del Ducato d’Austria e quindi ristabilirvi l’autorità imperiale, del resto fin allora sempre salda, seppure nel regime feudale di quel regno. Sistema quindi le cose facendo riconoscere ora il figlio Corrado “Re dei Romani” (in sostanza lasciandogli il posto di vicario lasciato libero dal fratello Enrico), potendo così ritornare nel 1237 all’assedio di Milano, che guidava le città ribelli in Italia.

Sempre nel 1237 gli imperiali, le città ghibelline fedeli e le truppe del Regno di Sicilia sbaragliano i Lombardi guelfi nell’epica battaglia di Cortenuova, togliendo loro pure il Carroccio. Federico non seppe però approfittare da questa vittoria, perché pretese una resa a discrezione, non concedendo neanche condizioni onorevoli agli sconfitti. Nel frattempo estendeva il suo potere anche sulla Sardegna, creando nominalmente re dell’Isola il figlio naturale Enzio o Enzo, ed eccitando ancora di più la resistenza italiana dei Guelfi e del papa.  Federico è nuovamente scomunicato, addirittura si bandisce contro di lui una crociata. In verità Enzio, per parte di moglie, sarebbe stato signore solo del Giudicato di Torres e, nominalmente, della Gallura. Questa “presa” sulla Sardegna sarebbe durata peraltro solo fino al 1246, quando la moglie Adelasia avrebbe fatto sciogliere dal papa il matrimonio, benché il figlio di Federico avrebbe mantenuto il titolo nominale di “Re di Sardegna” fino alla morte.

La guerra che ne seguì contro il papato, spalleggiato dai Guelfi d’Italia e di Germania, non ebbe praticamente più fine, a parte qualche breve e fallito tentativo di conciliazione. Federico fu di nuovo scomunicato da Gregorio IX. Questi rispose con diverse ritorsioni, tra cui l’esproprio della potente Abbazia di Montecassino e l’espulsione dal Regno di Sicilia dei Frati Minori Osservanti e dei Benedettini, troppo fedeli al papa che, a sua volta, bandì una inaudita “crociata contro Federico II”. Teatro delle guerre fu soprattutto l’Italia centro-settentrionale, e non è possibile seguirle in tutte le loro fasi. A un certo punto, invaso lo Stato della Chiesa, Federico stava per entrare in Roma, ma ritenendolo al momento impossibile, tornò in Puglia, finalmente dentro i confini del Regno, dal quale mancava da quando gli si era ribellato Enrico (1235), e quindi da circa cinque anni. Ma anche allora non poté tornare in Sicilia ma si dovette trattenere nelle “Puglie”, dove doveva raccogliere truppe per la guerra ormai infinita contro il partito guelfo. Anche sul mare Federico ebbe la meglio, mentre il tentativo papalino di servirsi della flotta veneziana per assaltare la Sicilia, roccaforte del potere fridericiano, non ebbe alcun seguito.

Altro teatro fu quello diplomatico, nel quale Gregorio IX tentò senza successo di deporlo. In ogni caso il Regno, e la Sicilia stessa, furono inutilmente logorate da questa contesa infinita tra papato e impero. Nuovamente furono coniate monete di cuoio, ma pare poi Federico sia riuscito a dare ai portatori di questo corso forzoso il corrispondente in oro. Il papa tentò di convocare un concilio in Vaticano per dare una soluzione, diremmo oggi, internazionale alla contesa. Ma la flotta siciliana e pisana intercettò alla Meloria le navi genovesi che trasportavano la gran parte dei prelati destinati al concilio, con grandi ricchezze, le sconfissero, presero il bottino e i prigionieri. I rapporti tra Stato e Chiesa non potevano scendere più in basso. Nel frattempo cadeva Gerusalemme e i crociati siciliani si ritiravano sulle fortezze della costa, senza che nessuno al momento potesse dare loro aiuto.

La lotta fu così aspra che quando i Cumani, un popolo tartaro, arrivarono ad invadere e saccheggiare l’Ungheria, la Polonia e finanche la Boemia, dentro i confini dell’Impero (siamo poco dopo l’epoca di Gengis Khan), non si riuscì a trovare un accordo tra papa e imperatore per organizzare una difesa comune e fu praticamente solo per fortuna che la stessa Germania non finì per essere invasa. Nemmeno la morte di Gregorio IX (1241) riportò la pace. All’elezione di Innocenzo IV, essendo di famiglia genovese ghibellina, l’Imperatore aveva sperato in una riconciliazione, ma evidentemente il ruolo imponeva interessi troppo contrapposti per essere conciliabili. Un tentativo di pace, nel 1244, ormai concluso, svanì per una questione di etichetta su chi avrebbe dovuto fare il primo passo. Non sentendosi più sicuro in Italia, il papa riparò a Lione, che apparteneva sì all’Impero, ma era al confine con la Francia e retta temporalmente dal locale arcivescovo, da dove poté dar manforte al partito guelfo, ormai in difficoltà in tutta l’Italia. Ancora una volta i tentativi diplomatici fallirono, e nel concilio ivi tenuto, addirittura Federico fu dichiarato decaduto dalla corona di sacro romano imperatore.

Durante il soggiorno papale a Lione, Federico più di una volta progettò di recarvisi e di passaggio attraversare il Regno di Arelat (Borgogna) che non aveva mai potuto visitare ma gestire solo per mezzo della cancelleria imperiale, e in cui il potere centrale si stava progressivamente sfaldando. Nel tempo la Confederazione elvetica, il Ducato di Savoia, la Contea di Borgogna (poi detta Franca Contea) e la Contea di Provenza lo avrebbero di fatto smembrato; quando più tardi l’Impero avrebbe concesso temporaneamente, poi di fatto definitivamente, la parte centrale del Regno, detta Delfinato, alla Francia, sarebbe cessato di esistere del tutto. Ma, a partire dal 1243, quindi ancora vivo Federico, il più grande feudo di quel regno, la Contea di Provenza, già era andato in mano a Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia Luigi IX il Santo, proprio a colui che più tardi avrebbe conquistato la Sicilia. Per vari contrattempi, arrivato a Torino, Federico si fermò sempre e rinviò l’idea di mettere ordine anche in quel regno, ciò che poi non sarebbe mai più avvenuto. I rapporti con la Francia erano peraltro allora più che buoni. Luigi IX aveva tentato più volte inutilmente di riconciliare Imperatore e Papa, ed aveva ricevuto da Federico ingenti rifornimenti in vettovaglie alla sua partenza per la sfortunata VII crociata. Nel frattempo intanto perdeva il pieno controllo della Germania, dove al posto del figlio Corrado il papa aveva fatto eleggere altri “Re dei Romani”, conservando questi a malapena la Svevia e pochi altri fedeli feudatari ghibellini. Adesso Federico aveva abbandonato persino la stessa Puglia, continuamente impegnato nei campi di battaglia dell’Italia settentrionale. La Sicilia, teoricamente sede del Regno, dove ormai teneva corte di rado (una volta vi tornò ad esempio per sistemare a Palermo le tombe dei suoi avi), resta silenziosa e pacifica, il cuore dei domini di Federico, troppo esposta però alle ambizioni universali del suo re in guerre che in ultimo non erano più negli interessi di un Regno ormai trasformato in Impero. Nei momenti di pace, ormai sempre più rari in questa guerra totale, Federico aveva posto stabilmente sede a Palermo. In quelli di guerra, soprattutto nella fase finale del suo lungo regno, era costretto altrove, ma restava Palermo, allora in pratica la città più grande d’Europa, il cuore e la mente dello smisurato impero.

Prova ne è che quando papa Gregorio mandò emissari, non contento di aver fatto sollevare Italia e Germania contro Federico, anche in Puglia e in Sicilia, questi avrebbe trovato qualche congiurato e barone infedele, pochi in verità, solo nella parte continentale del Regno. La Sicilia rimase fedelissima al suo re/imperatore. Seguirono epurazioni interne e repressioni dei traditori, tra i quali venne ascritto, a torto o ragione, il segretario Pier Delle Vigne, fino ad allora fedelmente al fianco dell’imperatore (1246), e a cui si doveva la raccolta delle Costituzioni siciliane. Continuando senza soste e in modo non decisivo le guerre tra Guelfi e Ghibellini in Italia, e quelle in Germania tra il figlio Corrado e i nemici aizzati dal papa, a un certo punto Federico lascia il comando delle operazioni in Italia ad Enzio e rientra nel Regno, in Puglia. Tuttavia, il valoroso figlio naturale fu presto catturato dai Bolognesi e mai più rilasciato, se pur trattato da principe imperiale con tutti gli onori.

Federico fu quindi costretto a tornare nell’Italia settentrionale per sostenere il partito ghibellino, poi, riequilibrate le forze, ripasso in Puglia, e, finalmente, dopo molti anni, poté finalmente tornare in Sicilia nel 1249, dove tenne un Parlamento in cui chiese fondi per la guerra infinita contro i Guelfi: la Sicilia, fedelissima, non rifiutò.

Lasciato a Palermo il piccolo Enrico, avuto dal suo terzo matrimonio, varca di nuovo lo Stretto per intraprendere le ennesime campagne contro i Guelfi ribelli, ma in quel di Fiorentino di Puglia trova la morte: lascia il figlio legittimo maggiore, Corrado, erede dell’Impero, dei troni di Germania e d’Italia e di quello di Sicilia, ma, finché non volesse o potesse mettere piede in Italia o in Sicilia, suo vicario sarebbe stato il figlio illegittimo Manfredi, avuto da Bianca Lancia, il suo unico vero amore, forse sposata in punto di morte, mentre al piccolo Enrico restava, a scelta del fratello maggiore, o il Regno di Gerusalemme, o quello di Borgogna, lasciando quello non “optato” allo stesso Corrado. Manfredi restava comunque principe di Taranto e di altri feudi minori. Mai più la Sicilia avrebbe avuto una proiezione politica altrettanto ampia di quella che si stava chiudendo con l’imperatore e re Federico.

  • 7 – Re Manfredi

Alla morte di Federico II (1250) la Germania si rende in pratica “indipendente” dalla Sicilia, sotto il figlio Corrado IV che vi risiedeva stabilmente, lasciando il fratellastro Manfredi, figlio illegittimo, come vicario, secondo il menzionato testamento. Corrado sulle prime non poteva del resto occuparsi della Sicilia, perché papa Innocenzo IV gli aveva creato problemi in Germania, continuando a sostenere un altro “Re dei Romani”, Guglielmo d’Olanda, e ci volle del tempo per venirne a capo. Manfredi di fatto opera come un re. L’odio implacabile di papa Innocenzo IV, rifugiato a Lione fino alla morte di Federico II, non si limita a destabilizzare la Germania, ma rinfocola il partito guelfo in Italia, e finanche nel Regno di Sicilia, dove feudatari e città dell’Abruzzo, della Campania e della Puglia si ribellano. Manfredi deve lasciare la Sicilia (che comprendeva anche la Calabria) nominalmente al piccolo fratello Enrico, re di Gerusalemme, ma in pratica al suo balio Pietro Ruffo, il quale fu infido e cercò sempre di tramare ai danni di Manfredi. Ma è singolare come Sicilia e Calabria amassero Manfredi e non si ribellassero, a differenza degli stati meridionali, pronti alla prima occasione a voltare le spalle alla Sicilia. Manfredi con le sue sole forze riprende la Puglia, ma deve attendere il fratello Corrado dalla Germania (1252) che, dopo ben pochi successi in Italia settentrionale, riporta l’ordine in Abruzzo, a Capua e finalmente espugna Napoli, capofila della rivolta antisveva. Nella repressione di Napoli, oltre ai musulmani di Lucera, vediamo menzionati in soccorso del re anche musulmani di Sicilia, per l’ultima volta, e ormai del tutto allineati alla casa sveva. Dopo se ne sarebbe persa ogni traccia. Tiene anche un Parlamento a Melfi, e ridimensiona il potere di Manfredi, allora Principe di Taranto, per le maldicenze che il Ruffo aveva insinuato contro di lui. Gli toglie i feudi minori e il “mero e misto imperio” (i poteri giudiziari) nello stesso vasto Principato di Taranto.

Manfredi accettò senza fiatare questa diminuzione, con grande prudenza, e si ritirò a Taranto, ma si sarebbe rivelato poi un gran re di Sicilia. Limitando il suo dominio al solo Regno (compresi i possedimenti continentali) poté per certi versi curarne gli interessi meglio ancora del padre, con il quale condivideva spirito e interessi letterari. Manfredi avrebbe rafforzato l’istituto del Parlamento. Se Federico aveva invitato nello stesso i rappresentanti delle città (pur avendo ridotto al minimo l’autonomia municipale), in chiave antifeudale, Manfredi trasforma questa partecipazione da episodica a strutturale, dando quindi una larvale base democratica ai parlamenti siciliani.

Corrado IV sarebbe stato disposto ad accettare la sudditanza feudale al papa anche per il Regno propriamente detto (cosa mai concessa prima), pur di avere la pace, ma la stessa ostinazione di Innocenzo IV impedì ancora una volta questa degradazione della Sicilia a feudo, da sempre sognata dai papi e mai realizzata. Poco dopo (1254) la casa di Hohenstaufen è segnata da due lutti precoci. Muore prima Enrico, il fanciullo Re di Gerusalemme (il Regno è ripreso dallo stesso Corrado IV), e poco dopo lo stesso Corrado IV, lasciando erede di tutti gli stati il figlio Corradino e un vicario tedesco, anche per il Regno di Sicilia, che presto però, impegnato com’era in Germania, richiamò al vicariato Manfredi che, esautorato dal fratello, era ancora ritirato a Taranto. Manfredi riprende il potere e in qualche anno riporta l’ordine in un paese che di nuovo era dilaniato dall’anarchia istigata da Innocenzo IV e, alla morte di questo, da Alessandro IV. Nessuna proposta di pace fu mai accettata dai papi, neanche la donazione allo Stato della Chiesa dell’intera Terra di Lavoro. Manfredi a questo punto si risolse a riprendersi tutto con la forza, pacificando anche la Sicilia, che questa volta, per le troppe assenze di Manfredi nel Continente. era dilaniata da alcune adesioni ai Guelfi e da una rivolta repubblicana a Messina. Determinante in questi successi militari è l’apporto dei Saraceni di Puglia, discendenti di quei Siqilli deportati da Federico II quasi mezzo secolo prima. Espulso il Ruffo, quando si trovava in Continente, il governo della Sicilia fu affidato ai suoi stretti parenti di casa Lanza e poi comunque a ministri fidati. Soltanto nel 1257 l’intero Regno di Sicilia, dal confine papalino fino all’intera Sicilia, fu ripulito dai ribelli guelfi e tutto ritornò all’ordine, salvo nell’estremo nord, dove la città de L’Aquila resistette più a lungo nel ritornare sotto lo scettro siciliano.

Acquistato tanto potere per conto del lontano nipote, ancora sotto tutela della madre Elisabetta, Manfredi si fa quindi investire dal Parlamento a Palermo della corona di Sicilia (1258), con un vero strappo istituzionale. La corte sveva protestò per questa detronizzazione di Corradino, che era ancora vivo, vista in tutto e per tutto come un’usurpazione. Manfredi, però, sentiva il Regno suo per diritto di conquista e non lo avrebbe mai più consegnato a nessuno. La Sicilia sembrava avviarsi ad avere una dinastia nazionale e a recidere ogni legame con la Germania, ciò che in fondo le aveva causato più danni che altro. Ora non era più né guelfa, né ghibellina, ma semplicemnte siciliana. L’ascesa di Manfredi al trono siciliano determinò peraltro il definitivo collasso del potere imperiale in Italia, da allora in poi puramente nominale; Manfredi, infatti, restava il punto di riferimento di tutto il partito ghibellino in Italia, con proprie truppe e fazioni qua e là, ma non era più vicario per quel regno in nome del nipote Corradino, il quale a sua volta aveva difficoltà ad affermare nella stessa Germania il proprio potere, giacché anche questa era dilaniata da guerre civili e sede vacante. Restava però l’instabilità geopolitica che lo costringeva continuamente a varcare lo Stretto, avanti e indietro, per gestire ora le Puglie, ora la Sicilia, sebbene avesse fissato corte a Palermo più frequentemente di quanto non avesse fatto Federico II negli ultimi tempi. Quando si spostava in Puglia nominava dei governatori provvisori per la Sicilia. Da tutto ciò possiamo evincere che l’organizzazione dualistica del Regno, costruita da Federico II, aveva ormai messo radici, e si trovavano due burocrazie parallele, una per il Regno di Sicilia propriamente detto, che includeva ancora l’intera Calabria, e un’altra per il Ducato di Puglia e l’annesso Principato di Capua.

Nel 1260 Manfredi conclude una alleanza con l’Aragona, facendo sposare la figlia Costanza, avuta dal suo primo matrimonio con Beatrice di Savoia, con Pietro, figlio del re di quel paese. In seconde nozze (1259) Manfredi aveva sposato Elena Ducas, figlia del Despota dell’Epiro, da cui ebbe altri figli. Questo matrimonio consentì un’espansione della Sicilia nei Balcani. Già Manfredi aveva occupato Durazzo (1256); ora Elena, nel contratto nuziale, portava come dote la stessa Durazzo, Valona, Corfù, Bèrati ed altre piazzaforti in Albania o in Epiro. In cambio l’Epiro (staterello – si ricorderà – nato dalla frammentazione dell’Impero bizantino) si metteva sotto la protezione militare della Sicilia. Una spedizione siciliana nei Balcani, composta in gran parte di Mori di Lucera ed altri fatti venire dalla Sicilia, e forse anche dall’Africa, in aiuto al traballante Impero Latino d’Oriente, finì disastrosamente, ma Manfredi non voleva o poteva allontanarsi dai suoi domini, sempre in pericolo.

Il papato, dopo aver a lungo tentato di dare il Regno di Sicilia agli Inglesi, non ricevendone mai una risposta definitiva, si risolve a chiamare in aiuto i Francesi contro i Siciliani, e invita, in maniera del tutto illegittima, Carlo d’Angiò, fratello del re di Francia, ad impossessarsi della Sicilia. Non fu facile convincere Luigi IX a questa spedizione, giacché era stato sempre buon amico degli Hohenstaufen, ma ne fu infine convinto con la motivazione che in fondo Manfredi altro non era che un usurpatore, in quanto aveva sottratto illegalmente la Sicilia al nipote Corradino. Concluso l’accordo internazionale, Carlo d’Angiò, con una grande armata viene in Italia, ed è nominato prima Senatore di Roma (l’antichissima istituzione romana del Senato si era ridotta ad una magistratura unipersonale) e poi, solennemente, “Re di Sicilia”. L’incoronazione di Carlo, già conte d’Angiò e, fuori dal Regno di Francia, già conte dell’importante feudo di Provenza (teoricamente parte del Regno di Borgogna, in realtà stato a sé), a Roma nel 1266 è quanto di più nullo si possa immaginare. Tutti i re di Sicilia erano stati sempre incoronati a Palermo, non a Roma. Il Regno di Sicilia non si era mai riconosciuto feudatario del papa, se non per il Ducato di Puglia e il Principato di Capua, cioè le corone aggregate alla Sicilia sin dal 1130, e quindi il papa non aveva alcun diritto di investire alcunché. Il Regno di Sicilia era stato sin dalla sua origine parlamentare, e l’ultima parola sulla corona era sempre spettata al Parlamento, ciò che mai fece Carlo d’Angiò, il quale sin dall’inizio inaugurò un governo assoluto sul modello francese.

La masnada di predoni che accompagnava Carlo era fatta da avventurieri raccolti da tutta la Francia e dalle Fiandre. Passarono alla storia come gli “Angioini”, dal nome della piccola contea di origine di Carlo. Ma molti storici tradizionali siciliani li chiamano forse più correttamente “Provenzali”, dal nome del maggiore stato su cui regnava Carlo. Carlo d’Angiò, in altri termini, anche se assunse (abusivamente) il titolo di “Re di Sicilia”, può a ben diritto essere considerato il fondatore di un vero e proprio altro stato, il Regno di Napoli, siciliano soltanto nel nome.

La guerra sin dall’inizio non diede buoni risultati, giacché le difese di confine, presidiate dagli infidi comandanti delle province napoletane, a lungo occupate dai papalini in precedenza e mai affezionate veramente al Regno di Sicilia, non opposero che debolissima resistenza. Manfredi raccolse quindi un esercito con le truppe a lui più fidate: i musulmani, i feudatari tedeschi, i Siciliani, e i ghibellini della Toscana e del Nord Italia accorsi in sua difesa come poterono.

Nel 1266 Manfredi è sconfitto e ucciso a Benevento, la sua progenie dispersa, tranne la figlia maggiore, Costanza, già andata in sposa al re d’Aragona Pietro III, e la figlia Beatrice, che sarà liberata durante il Vespro e che sarebbe diventata poi marchesa di Saluzzo. Con lui quindi si estingue la dinastia sveva in Sicilia. Il Sud Italia si arrende subito riconoscendo dappertutto il nuovo re. Persino i musulmani di Lucera, ormai isolati, riconoscono inevitabilmente il fatto compiuto. La Sicilia, restando isolata, sulle prime almeno, fa buon viso a cattivo gioco, ed apre le porte ai francesi, abbattendo le aquile sveve ed innalzando i gigli angioini, ma la pace dura pochissimo. Già l’anno successivo una spedizione di fuoriusciti dalla Sicilia, a partire dalla parte occidentale, porta il disordine. Una flotta pisana e ghibellina, a Milazzo, sconfigge i francesi, ma non riesce a sbarcare.

  • 8 – La Malasignorìa Angioina

Carlo continua la sua totale eversione spostando finanche la capitale da Palermo a Napoli, città che era stata il centro di tutte le rivolte antisveve, e affidando alle cure di un “viceré” l’amministrazione (o dovrebbe dirsi la rapina?) della Sicilia, il quale non siede neanche nell’odiata Palermo, ma a Messina. Del resto in Sicilia ormai i francesi erano assediati nelle tre principali città di Palermo, Messina e Siracusa, mentre dappertutto i Siciliani li avevano cacciati e si reggevano da soli, con governi locali provvisori. Adesso i lealisti siciliani speravano nella venuta dell’ultimo rampollo degli Hohenstaufen, Corradino. Com’è noto questo ragazzo di 15 anni venne effettivamente in Italia ma fu sconfitto a Tagliacozzo e decapitato a Napoli (1268). Con lui si estinguevano definitivamente gli Hohenstaufen. Per condannarlo fu convocato un Parlamento-farsa, in cui intervennero molti giuristi. Tutti ritennero coraggiosamente che Corradino, detronizzato illegittimamente da Manfredi, non potesse certo essere accusato di tradimento, tutti tranne uno, tanto però bastò a Carlo per farlo giustiziare.

Carlo aveva iniziato il suo regno inasprendo le tasse e facendo rimpiangere ben presto a tutti il mite regno di Manfredi. Tuttavia nel Sud Italia pochi osarono ribellarsi, soprattutto in Puglia, e fra questi primi furono i Musulmani di Lucera, che Carlo assediò, sconfisse e disperse, tanto che di loro non se ne ebbe più notizia (1270). Nello stesso anno, suoi militari, ma mai lui in persona, con orribili stragi, rapine, stupri e violenze di ogni genere, vennero a capo delle rivolte siciliane, dove la notizia della morte di Corradino gettò l’opposizione nello sconforto. Se nei primissimi tempi nell’opinione pubblica siciliana non erano mancati alcuni sostenitori dei Provenzali, chiamati spregiativamente i “Ferracani”, la brutale occupazione francese alienò ogni simpatia al nuovo regime. Del resto Carlo considerava la Sicilia, che pure gli dava il titolo di re, nient’altro che un possedimento d’oltremare. Le sue reali mire erano sull’Italia. Di fatto, oltre al grande Regno di Sicilia, come Senatore di Roma era quasi padrone dello Stato pontificio, e come capo di fatto del partito guelfo, ormai egemone, controllava più di mezza Italia. Normale che aspirasse alla corona italiana, rendendosi inviso persino al pontefice per la sua smisurata ambizione. Le sue ambizioni italiane, tuttavia, restarono frustrate. I Comuni guelfi, Milano sopra tutti, non avevano intenzione di mettersi sotto un nuovo padrone, e la Chiesa finì per revocargli il controllo di Roma togliendogli la carica di Senatore.

Non potendo sfondare a nord, l’ambizioso predone decide di puntare a sud. Riesce a convincere lo zio, il re di Francia Luigi IX, ad intraprendere una nuova crociata, l’VIII, ma, per rendere saldo il Mediterraneo, lo convince che la spedizione in Terrasanta non sarebbe potuta essere sicura se prima non fosse stata conquistata la Tunisia. Il dirottamento fu infelice, perché a Cartagine si diffusero malattie tra i Francesi e l’arrivo di Carlo d’Angiò non migliorò di molto le cose. Lo stesso Luigi IX ne morì, e parte del suo corpo sarebbe stato seppellito a Monreale. Carlo si sfila dunque dalla spedizione, la cui stanca continuazione in Oriente, senza alcun risultato, da alcuni storici è considerata la IX e ultima crociata. La “Sicilia” conclude comunque una pace vantaggiosa con la Tunisia, costretta a pagare ingenti riparazioni e a mettersi sotto la protezione della Sicilia, con il pagamento di un tributo e la concessione di un “fondaco” (una sorta di concessione commerciale), nonché dovendo garantire l’incolumità e la libertà di culto per i pochi cattolici.

Negli anni seguenti, mentre il vecchio Ducato di Puglia – Principato di Capua, già soggetto malvolentieri alla Sicilia, si adatta abbastanza bene al nuovo ordine, nonostante qualche malcontento per l’eccessivo carico fiscale, la Sicilia resta invece in continuo fermento, subisce la violenza angioina-provenzale, ma da più parti si complotta o si prepara una ribellione, che non sarebbe tardata ad esplodere. Pacificata la Sicilia nel 1271, infatti, la abbandonò di nuovo ai suoi scherani e tornò sul Continente per le sue irrealizzabili mire sull’Italia intera. La Sicilia non ne ebbe alcun vantaggio. Anzi, la Repubblica di Genova, per vendicarsi di un tentativo di golpe con cui Carlo avrebbe voluto rendersi signore di quella Repubblica, con una spedizione navale “punì” con saccheggi e incendi il porto di Trapani e le Isole maltesi.

Non seguiamo, perché davvero effimere, le riforme amministrative e politiche degli Angioini, destinate a permanere più nel Regno di Napoli che in Sicilia. Ci limitiamo a dire che simbolicamente Carlo fece coniare a Messina di nuovo la pregiata moneta aurea che era stata di Federico, con una posa simile, ma questa volta detta “Reale” e con i gigli francesi al posto dell’Aquila siciliana: mai più la Sicilia avrebbe avuto questa sostituzione di simboli, che invece a Napoli avrebbe messo radici, rafforzata secoli dopo dai Borbone, che avrebbero fatto del Giglio francese (odiato dai Siciliani) il simbolo stesso delle loro “Due Sicilie”. Altro simbolo “napoletano” del “nuovo” Regno di Sicilia sarebbe stato la Chinea, cioè il cavallino rampante, in onore all’omaggio feudale simbolico fatto annualmente al papa. Il Regno di Napoli nasceva, quindi, valorizzando proprio ciò che re Altavilla e Hohenstaufen avevano subito a malincuore: la sudditanza feudale a Roma degli stati meridionali, una sudditanza che mai aveva interessato l’Isola di Sicilia, addirittura sovrana, al contrario, in materia religiosa.

Che negli anni tra il 1271 e il 1282 il malcontento dovesse crescere a dismisura lo si ricava da tutte le testimonianze disponibili. La Sicilia era stata resa letteralmente priva di ogni diritto. Fu vessata molto più che il Continente, da prelievi che non si potevano definire più gabelle, ma praticamente rapine, oltre a veri espropri, con i pretesti più disparati. Non fu convocato più alcun Parlamento. Fu vietato ai Siciliani di portare armi. Alcuni storici nazionali riportano che il permesso di sposarsi, da Ruggero II imposto ai soli nobili, fosse esteso a tutta la popolazione, con l’obbligo di pagamento di una tassa allo scopo. Riportano parimenti che, chi non potesse pagarla, fosse costretto a pagare in natura con la propria futura sposa. Vero o no che sia, la storia, peraltro autorevolmente riportata dal Di Blasi, rende conto di una verità fuori discussione: i Francesi consideravano i Siciliani alla stregua di servi, e certamente non ne rispettavano le donne, sposate e no che fossero. Ciò che attirò un odio sordo, diffuso, generale, anzi un desiderio represso di vendetta. La tradizione storica ci ha lasciato traccia di un complotto internazionale, il cui protagonista sarebbe stato Giovanni da Procida, fuoriuscito dal regno e filosvevo. Il partito legittimista guardava ora alla figlia superstite di Manfredi, Costanza, ora regina d’Aragona, ma aveva appoggi anche in Italia, dove l’espansionismo di Carlo era malvisto, e persino nell’Impero Romano d’Oriente, restaurato con l’aiuto dei Genovesi, ma timoroso dell’espansionismo napoletano sui Balcani. Tutto ciò è assai verosimile. Ma a nulla sarebbero giunti questi disegni se il clima di odio nell’Isola non avesse reso colma la misura al punto che si aspettava solo il momento per l’inevitabile esplosione.

Cronologia politica:

1194-1197 Enrico (I di Sicilia, VI S.R.I) e Costanza I Altavilla

1197-1198 Costanza I Altavilla

1198-1250 Federico (I di Sicilia, II S.R.I.) (sotto reggenza di Innocenzo III fino al 1210,  1215-1235 nominalmente correggente il figlio Enrico II)

1250-1254 Corrado (I di Sicilia, IV S.R.I.), vicario Manfredi Hohenstaufen

1254-1258 Corradino (Corrado II), vicario Manfredi Hohenstaufen

1258-1266 Manfredi

1266-1282 “Mala Signorìa” angioina di Carlo d’Angio

 

 

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