L’ultimo secolo di vita del Regno di Sicilia indipendente

E adesso andiamo ancora più indietro, in un tempo che oggi può sembrare surreale, quando sulla carta geografica dell’Europa figurava ancora un “Regno di Sicilia”: la Sicilia del 1700… fino alla catastrofe del 1816, con cui il sogno fu brutalmente interrotto.

 

Capitolo 6: La Dinastia Borbone

 

  • 1 – La Sicilia durante la Guerra di Successione Spagnola

La Guerra di Successione Spagnola tenne impegnata l’Europa (e il mondo coloniale da questa dipendente) per ben 13 anni, divisa tra il partito austriaco (quelli che volevano la corona spagnola fosse retrocessa al ramo austriaco degli Asburgo) sostenuto dall’Inghilterra, allora nella sua prima espansione coloniale, e il partito francese (che voleva attribuire la detta corona al nipote dell’ultimo re di Spagna, Filippo di Borbone, figlio di una sorella). Curiosamente, al momento, Filippo era “Duca d’Angiò”, cioè signore di quella stessa regione da cui era venuto secoli prima Carlo d’Angiò. Benché il ricordo della cacciata dei Francesi fosse divenuto ormai cultura popolare, nell’attualità l’ostilità verso gli stessi e l’attaccamento agli Asburgo non era a quanto pare poi così sentito al momento da far sottolineare questo sinistro accostamento.

Alla morte dello sfortunato e malato re Carlo II di Spagna, il re sole, Luigi XIV, occupa subito la Spagna incoronando il nipote. In Sicilia re Filippo IV Borbone (V in Spagna) è immediatamente riconosciuto dall’ultimo viceré asburgico, il Veraguas, che però è prontamente sostituito per timore di simpatie con la vecchia dinastia. Sulle prime sembra che non sia cambiato nulla rispetto al recente passato. La Sicilia è interessata solo marginalmente da questa guerra. Gli unici eventi degni di rilievo sono alcune simpatie per gli Asburgo (ormai solo d’Austria), inevitabili dopo quasi due secoli di abitudine, le insofferenze delle maestranze palermitane per i soldati francesi e irlandesi sbarcati in Sicilia, e una continua difesa delle coste da una invasione che però non arrivò mai. La carica viceregia vide alcuni rapidi avvicendamenti durante la guerra fino al 1707, per poi stabilizzarsi su Carlo Antonio Spinola, marchese di Los Balbases. Ci furono – è vero – alcune congiure filo-asburgiche, come quella del prete Cappellani o di Giovanni Mauro da Giuliana, ma furono presto sventate e isolate, senza seguito come erano.

L’unico vero disagio fu l’interruzione dei commerci, per l’insicurezza dei mari, che causava un generale declino economico, nonché una rarefazione nella convocazione dei regolari parlamenti, dovuto alle difficoltà di guerra: nel 1702, poi nel 1707, dopo ben cinque anni, e poi mai più durante tutta la guerra.

Alla fine, con il Trattato di Utrecht (1713), i Borbone possono sedere in Spagna, ma devono concessioni agli inglesi nelle colonie, gli stati italiani e belgi all’Austria, la Sicilia al piccolo Piemonte dei Savoia, che si era saputo destreggiare tra Francia e Austria con un capovolgimento di alleanze al momento opportuno. La regina Anna d’Inghilterra, artefice di questo accordo, sembrò sensibile, incredibilmente, alle ragioni costituzionali dei Siciliani. In teoria, all’estinzione della casa regnante sarebbe spettato infatti al Parlamento decidere chi dovesse essere re. Gli emissari della regina furono sorpresi, arrivati a Palermo, nel notare che l’aristocrazia, dopo secoli di congiure indipendentiste sedate, era completamente intorpidita ed acquiescente alla corona spagnola. In pratica davano più importanza all’Unione Perpetua decretata da Re Giovanni nel 1460 (peraltro traslata alla Castiglia dall’Aragona) che non all’antica Costituzione del Regno. La risposta unanime fu che non dipendeva da loro, e che sarebbero stati lieti di accogliere un nuovo re solo se quello considerato a tutti gli effetti legittimo, Filippo V (IV in Sicilia), avesse ceduto i propri diritti. La decadenza dell’ultima fase della corona spagnola sembrava aver condotto la Sicilia a decadere a puro “oggetto” e non più “soggetto” della politica europea. Per un altro verso, però, il cambio di quattro dinastie in un terzo di secolo, avrebbe scosso i Siciliani dal loro secolare torpore ed avrebbe ridato vigore alla coscienza di essere uno Stato e una Nazione.

Unico evento di nota di questa ultima convulsa fase della unione con la Spagna, fu l’esplosione di una controversia tra la Corona e la Santa Sede. Per una questione del tutto secondaria, il Vescovo di Lipari ricusò la giurisdizione del Tribunale della Monarchia, con il quale la Chiesa di Sicilia era del tutto autonoma organizzativamente da quella universale, appellandosi al papa, invocando il fatto che per secoli, dopo il Vespro, le Eolie erano state legate a Napoli e non alla Sicilia. Il papa, Benedetto XI, non vedeva l’ora di sbarazzarsi di questo istituto concesso ai tempi dei Normanni e che non aveva mai potuto debellare. Ne iniziò una contesa che sarebbe esplosa nelle mani del nuovo re di Sicilia, Vittorio Amedeo di Savoia.

Il Trattato di Utrecht non recideva del tutto i legami tra Sicilia e Spagna. Era come se l’Unione perpetua fosse stata messa solo tra parentesi. Si riservò Filippo di Borbone il diritto di recesso nel caso in cui Vittorio Amedeo non avesse avuto eredi diretti. Mantenne l’aristocrazia spagnola la Contea di Modica, che ora si sentiva ancora più indipendente dal Regno di Sicilia di cui pure faceva parte. Restava il Tribunale dell’Inquisizione spagnola.

  • 2 – Re Vittorio Amedeo di Savoia e la breve unione personale con il Piemonte

Vittorio Amedeo II sbarcò con la regina consorte Anna d’Orléans a Palermo, e ci fu un pacifico passaggio di consegne tra l’ultimo viceré spagnolo, il marchese di Los Balbases, e quello che veniva percepito come finalmente un re proprio. C’era nell’Isola un fermento nuovo; si percepiva che stava finendo un’epoca e se ne stava aprendo un’altra. Non c’erano incoronazioni a Palermo dai tempi dell’imperatore Carlo V. Si fecero lavori al Palazzo Reale, per renderlo degno di accogliere un re in carne ed ossa. Le illusioni nazionaliste, purtroppo, non sarebbero durate a lungo. Giusto quando venne Vittorio Amedeo si trovava a Palermo il Gran Maestro di Malta, che fece il ligio omaggio feudale, per la prima volta direttamente nelle mani del re e non di un viceré.

La Sicilia per i Savoia, in confronto ai loro domini ereditari, non era certo un piccolo possedimento. Era una corona regale, di livello più alto del ducato-signorìa-contea di Savoia-Piemonte-Nizza, ma soprattutto era, in confronto al piccolo e povero Piemonte, una vera Nazione, più grande da un punto di vista demografico, geografico ed economico dello stesso paese d’origine del nuovo re. Nonostante i residui di altissima sovranità nominale, nella sostanza la Sicilia si separava dalla Spagna dopo 300 anni circa di unione personale. Sembrava che fossero coronati i sogni dei Siciliani di avere un re proprio. Nominalmente Re Vittorio considerava pertinenza della sua nuova corona anche quelle di Cipro e Gerusalemme, cadute da secoli in mano islamica, quest’ultima per l’antica eredità di Federico di Hohenstaufen. Curiosamente, queste eredità siciliane in Terra Santa, i Savoia se la sarebbero portata dietro anche quando poi avrebbero perso la Sicilia, mentre l’avrebbero rivendicata anche i Borbone di Napoli, quali successori nel Regno di Sicilia, come si vedrà appresso. Da una relazione riservata alla Corte da parte di un magistrato-burocrate del Regno, apprendiamo che la Sicilia rivendicava allora (silenziosamente, come retaggio irrisolto della Guerra del Vespro) come propria pertinenza, oltre al Regno di Gerusalemme, anche circa mezzo Regno di Napoli (in pratica le intere odierne regioni di Puglia, Basilicata e Calabria), come “Ducato di Puglia e Calabria” e “Principato di Taranto”. Nella stessa relazione, per la prima volta, almeno a nostra memoria, troviamo le acque territoriali, rivendicate entro trenta “leghe” dalla Sicilia e isole adiacenti, cioè circa 90 miglia marine attuali, se non erriamo il calcolo, una enormità, se si considera che in età storica recente il confine era di appena 6 miglia, in pratica tutto il mediterraneo centrale. Ma si trattava di una pretesa assai teorica, ricordo di un’antica potenza navale di epoca normanna e sveva, ormai svanita.

Vittorio Amedeo effettivamente trovava un regno mal funzionante da un punto di vista amministrativo, impoverito dalla guerra, dal malcostume, dall’assenza di cure di un re proprio, e non si può negare una certa buona volontà, almeno all’inizio, nel risollevarne le sorti.

Convocò e presiedette personalmente il Parlamento, ciò che non avveniva dai tempi di Carlo I (V) d’Asburgo e stabilmente dai tempi dei re aragonesi. Il Parlamento del 1713, convocato dopo anni di paralisi costituzionale, ebbe una solennità unica, ed anche, finalmente, un carattere politico. Vittorio Amedeo non chiese soldi, anche se fu premura delle Camere regolare adeguatamente i donativi necessari, ma riforme legislative, nel campo della giustizia, del commercio, della sicurezza e della cultura.

Nonostante ciò, tra Vittorio Amedeo, con la sua corte sabauda al seguito, e la Sicilia nel suo complesso, non scattò però molta simpatia. Il Re scoprì con un certo disappunto di essere diventato re di un regno costituzionale dove il Parlamento e i Giudici regnicoli praticamente contavano almeno quanto lui. Scoprì con non minore disappunto che le grandi famiglie nobiliari più in vista della Sicilia superavano in ricchezza non solo tutta la piccola nobiltà sabauda e piemontese, ma lo stesso re in persona. In più, l’aristocrazia siciliana, ma anche le città gelose dei loro privilegi, si mostravano ostili ad ogni tentativo di riformare un sistema che nel tempo si era come cristallizzato. Girò il Regno per un anno intero, durante il quale rimosse i provvedimenti più punitivi contro la città di Messina, poi prese la decisione di lasciarlo, e di mantenere la propria residenza a Torino, dove si sentiva più sicuro, affidando come sempre la Sicilia alle cure di un Viceré, il conte Maffei, esattamente come avevano fatto gli Spagnoli, lasciando quindi immutata la Costituzione dell’Isola.

La scelta di Vittorio Amedeo fu forse troppo rinunciataria. Se avesse accettato la scommessa di regnare sull’isola mediterranea, trattando al contrario il Piemonte come un remoto possedimento, avrebbe avuto davanti potenzialità infinite per creare uno stato ricco e florido che avrebbe potuto giocare un ruolo di primo piano nell’Europa e nel Mediterraneo di quei tempi. In ogni caso i Siciliani si sentirono umiliati e traditi da questa scelta: essere viceregno della potente Spagna era una cosa, essere viceregno degli avidi e “poveracci” piemontesi era considerato un affronto. Il rapporto si logorò e, alla lunga, Vittorio Amedeo non avrebbe potuto regnare contemporaneamente su due stati tanto diversi e lontani.

Anche se il viceré Maffei cercò di dedicarsi alle riforme, il suo governo fu logorato, per non dire travolto, dalla contesa con la Santa Sede (nata nel 1712 sotto i Borbone e passata alla storia come “controversa liparitana”) che stava cogliendo un piccolo pretesto per revocare la mai sopportata Apostolica Legazìa. Lo Stato e la Chiesa arrivarono a uno scontro frontale, con la Chiesa siciliana divisa tra la fedeltà al papa e quella al re, con scomuniche e interdetti. Vittorio Amedeo aveva incaricato una “Giunta” per questo compito speciale, che si muoveva fuori dalle direttive del Maffei, e che operava con tanta crudeltà, e sulla base di semplici delazioni, che finì per alienare del tutto le simpatie verso la nuova dinastia. Questa guerra, diplomatica e religiosa, logorò il re sabaudo e si sarebbe composta solo molti anni dopo (1728), con la sostanziale vittoria delle ragioni dell’Autonomia della Chiesa siciliana, fatti salvi alcuni abusi e alcuni limiti alla giurisdizione del “Giudice della Monarchia”; limitazioni che furono dovute dare come “contentino” alla S. Sede che usciva politicamente sconfitta da questo lungo contenzioso. Ma al momento il Regno era nella bufera.

Altri problemi ebbe con la Spagna, che conservava con i Cabrera la Contea di Modica, considerata quasi uno stato indipendente e quindi non soggetto alle leggi del Regno. Vittorio Amedeo poi fece i suoi di errori, restringendo i margini di autonomia del Viceré, “proprietario” soltanto di nome, giacché soggetto a direttive strette che venivano da Torino, e facendo cadere la riserva delle principali magistrature del Regno a favore dei Siciliani. Con piemontesi e savoiardi ai vertici dello Stato, i Siciliani ebbero la sensazione tangibile di essere stati ridotti a provincia, da un paese più piccolo e più povero del loro per giunta. Il programma di riforme che Vittorio Amedeo aveva promesso in Parlamento non poté in pratica neanche iniziare.

Da questa debolezza e impopolarità trasse profitto il governo spagnolo. Quando, solo 5 anni dopo, nel 1718, Filippo IV (V), guidato dal potente cardinale Alberoni, dopo aver strappato senza combattere la Sardegna agli austriaci, fece sbarcare le sue truppe a Palermo, queste furono accolte con giubilo dai Siciliani. Come casus belli la Spagna invocava la violazione del Trattato del 1713, perché Vittorio Amedeo non avrebbe rispettato “le leggi, consuetudini, franchigie, prerogative e libertà infino allora godute dalla Sicilia”, cioè fu accusato di violare la Costituzione siciliana, nonché di aver violato l’obbligo di riservare ai Siciliani tutte le dignità ecclesiastiche e civili: musica per le orecchie siciliane. Il viceré sabaudo, preso di sorpresa, dovette rifugiarsi nell’interno, a Caltanissetta, e quando anche questa non lo fece entrare e trovò ostilità crescenti lungo tutto il suo passaggio, a Siracusa, mantenendo solo poche piazzeforti rifornibili dal mare, mentre in tutta la Sicilia la restaurazione borbonica veniva vissuta come un ritorno ad un governo pienamente legittimo in unione con la Spagna. Il Marchese de Lede, incaricato della spedizione, fu nominato viceré. Sotto di lui non si risolse la questione con la S. Sede, ma sciolse la “Giunta” e i rapporti cominciarono a distendersi.

Ma il ritorno degli Spagnoli durò poco. I Savoia che resistevano duramente, specie a Milazzo, chiesero aiuto all’Austria, sapendo di non poter prevalere sulla più potente Spagna. Si formò una Quadruplice Alleanza (Austria, Paesi Bassi, Francia e Regno Unito) per fermare l’espansionismo spagnolo. Dopo due anni di guerra, Austriaci, Inglesi e Piemontesi ebbero la meglio. La flotta spagnola fu sconfitta a Capo Passero, gli Spagnoli prevalsero via terra nella battaglia di Francavilla, ma alla lunga la mancanza di linee di comunicazione con la madrepatria doveva rendere insostenibile la situazione. Gli Austriaci dilagavano nel Val Demone. A un certo punto sbarcano a Trapani, che ancora resisteva nelle mani dei Savoia e aprono un altro fronte in Val di Mazara. La Spagna così decide di ritirarsi, accontentandosi di poter succedere con un ramo della famiglia Borbone nel piccolo ducato di Parma e Piacenza, dove la casa Farnese stava per estinguersi senza eredi diretti. L’Austria, come compenso per l’aiuto prestato, chiese la corona siciliana, dando ai Savoia in cambio la più piccola Sardegna (1720). I Savoia dovettero accettare e, in ogni caso, sulla Sardegna avrebbero avuto miglior gioco nel controllarla, mentre non avrebbero perso nulla in termini di titolo giacché anche questa era formalmente un regno. Nelle ultime fasi della guerra, quando gli Austriaci stavano per avvicinarsi a Palermo, merita di essere ricordato il coraggio e la provvidenza del Pretore di Palermo, conte di San Marco, che – per evitare che la capitale diventasse terreno di scontro tra Spagnoli e Austriaci – arma le corporazioni, fortifica la città, praticamente rendendola neutrale, e la rifornisce di provviste e di piccoli mulini per resistere a lungo. Arrivata la notizia della pace, il comandante austriaco avrebbe trattato con il massimo onore il coraggioso e prudente primo cittadino della capitale.

Nel riconoscere all’Austria il possesso della Sicilia, la Spagna rinuncia definitivamente all’Unione Perpetua, trasferendola esplicitamente al Sacro Romano Impero. L’Imperatore Carlo VI d’Asburgo-Austria diventava così Re di Sicilia, ultimo Sacro Romano Imperatore ad assommare in sé le due cariche, dai tempi Carlo V ai primi del XVI secolo. Ma, rispetto al più importante, Federico II, i rapporti si erano ora totalmente invertiti: ai tempi di Federico Hohenstaufen, la Sicilia era la corona sovrana e l’Impero era, nonostante la sua vastità, una corona secondaria e dipendente in unione personale con la Sicilia; ora, mezzo millennio dopo, era la Sicilia ad essere diventata una piccola pertinenza dell’Impero, istituzionalmente in modo non troppo diverso dal Regno d’Ungheria, anch’esso aggiogato al casato d’Austria. Nonostante ciò la Sicilia conservava la sua formale indipendenza, il suo Stato e la sua costituzione del Vespro, al di là della rapida successione di dinastie regnanti.

  • 3 – Carlo VI Imperatore e l’unione personale con l’Austria

Gli Austriaci, rappresentati allora dall’Imperatore Carlo VI d’Asburgo, non avevano rinunciato, nonostante i trattati del 1713 e del 1714, alle loro mire sulla Spagna. Rispolverando l’Unione Perpetua tra Sicilia e Spagna, consideravano la Sicilia il primo lembo di Spagna riconquistato, a differenza del Regno di Napoli o del Ducato di Milano (e del piccolo Stato dei Presìdi in Toscana), considerati a tutti gli effetti stati italiani. Tennero così a Vienna una “cancelleria in castigliano” per comunicare con il piccolo Regno di Sicilia. Negli atti pubblici siciliani l’Imperatore Carlo si firmava come Re Carlo III (sottinteso di Spagna e di Sicilia, in continuità con Carlo II), e – forse per sembrare ancor più spagnolo – riattivò a pieno regime l’Inquisizione spagnola, con gli ultimi roghi pubblici, che invece nei domini asburgici non esistevano, e che nella stessa Sicilia erano desueti da più di sessant’anni.

La breve occupazione militare austriaca, prima dell’insediamento del primo legittimo viceré, il Duca di Monteleone, si rivelò particolarmente dura. Il comandante austriaco che portava le truppe dal Regno di Napoli, impose l’accettazione della moneta napoletana in Sicilia con un cambio sfavorevole con conseguenze molto pesanti per un’economia già provata da anni di guerra, in termini di inevitabile inflazione.

Con tutto ciò non può dirsi che il sovrano austriaco non sia stato rispettoso della Costituzione Siciliana, alla quale prestò giuramento come avevano fatto sia i sovrani spagnoli (che in tutto voleva imitare per legittimarsi) sia Vittorio Amedeo. C’è però da dire che le Guerre di Successione fecero saltare o dilazionare alcune convocazioni parlamentari, ma poi – sotto gli Asburgo d’Austria – queste ripresero con regolarità. Fra le leggi approvate in questi parlamenti, la nomina di un deputato a Vienna per assistere i Ministri imperiali negli affari che riguardassero la Sicilia. Un tentativo del Monteleone di deporre e incarcerare il Pretore di Palermo e deporre tre senatori di Palermo su sei, terminò con il reintegro dei magistrati municipali, la liberazione del Pretore e la destituzione del viceré, sostituito dal Portocarrero, conte di Palma. Quest’ultimo avrebbe soppresso, in un successivo Parlamento, le milizie territoriali create dal De Vega secoli prima, come ormai inutilmente onerose per le finanze del Regno. Ora il sistema di fortezze regolari era sufficiente per tenere a bada un’offensiva ottomana ormai spenta e ridotta solo a qualche atto di pirateria. Le milizie urbane, peraltro, distoglievano forza lavoro dalle normali occupazioni, in un momento in cui c’era bisogno di sfruttare la pace per rilanciare l’economia dell’Isola. L’Imperatore-Re Carlo concesse questo scioglimento, ma pretese per questo un “pizzo” che il Parlamento dovette concedere, in termini di imposta straordinaria, e che in parte andò a rinforzare la flotta siciliana.

Ancora segnaliamo che, di fronte ad una richiesta inusitata di un milione di scudi (400.000 onze) nel Parlamento del 1732, i parlamentari ebbero il coraggio di ricusarlo, riducendolo a 800.000 (320.000 Oz.), dimostrando che la Costituzione parlamentare aveva natura sostanziale. Negli anni successivi il viceré Sastago, visto che le gabelle destinate a questo finanziamento straordinario si erano rivelate insufficienti, si limitò a richiedere e a ottenere di convertirle in donativo diretto, di più facile riscossione. Del resto gli Asburgo d’Austria erano ben abituati a regnare su tante corone, ciascuna con le sue tradizioni e le sue istituzioni da rispettare (si pensi almeno ai regni di Boemia e di Ungheria). Al contempo, però, fu inevitabile con il nuovo governo un’opera di razionalizzazione e modernizzazione del Regno, le cui istituzioni alla fine della dominazione spagnola erano andate praticamente alla deriva. Fra i provvedimenti che i Siciliani dovrebbero ricordare meglio c’è quello dell’istituzione della Deputazione delle Strade (1731), con cui inizia una manutenzione meno frammentaria delle Regie Trazzere, cioè del sistema viario che, dall’inizio del Regno, aveva garantito le comunicazioni interne. Alcune iniziative a favore del commercio, come la costituzione a Messina di una compagnia anonima (la prima società per azioni, in pratica) per il commercio internazionale, con privilegio pubblico, o l’istituzione di un “tribunale di commercio”, tutte novità progettate in era “austriaca”, avrebbero visto la luce solo qualche decennio dopo, in piena era “borbonica”. Solo a Messina riuscì nel 1728 l’apertura del Porto franco, che ristorava la città delle antiche esenzioni soppresse dopo la rivolta del secolo precedente.

Nel 1726 due trattati con i Tunisini e i Tripolini resero sicuro il commercio navale siciliano. Analogo accordo con gli Algerini saltò nella sostanza perché questi pretendevano che all’accordo prendessero parte anche i Cavalieri di Malta, ma il governo viceregio rispose candidamente che, nonostante l’imperatore fosse anche re di Sicilia, e quindi signore feudale dei Cavalieri, non era in grado di controllare la loro politica estera, segno del grado di quasi indipendenza che questi avevano acquistato in due secoli dalla concessione dell’imperatore Carlo V. Il rigore austriaco non piacque però molto ai Siciliani, ormai abituati dai viceré spagnoli ad una condizione di semi-anarchia, e, in ogni caso, pur inviando viceré italiani o spagnoli, il governo degli Austriaci non entrò mai in empatia con le classi dirigenti isolane. I Siciliani consideravano generalmente Carlo una specie di usurpatore, non meno di Vittorio Amedeo, e propendevano per un ritorno nell’area spagnola, ormai borbonica.

I rapporti con il papa si andarono normalizzando. Già nel 1722 il papa investe Carlo VI dei “feudi” di Napoli e Sicilia. Si è già visto che la sudditanza feudale al papa del Regno di Sicilia non era mai stato riconosciuta, ma i pontefici la ritenevano dovuta e – essendoci ancora in atto la contesa sull’apostolica legazìa – Vienna non volle al momento esasperare gli animi. Si arrivò ad una composizione della crisi nel 1728, con l’accettazione ancora una volta dell’autonomia ecclesiastica della Sicilia, sia pure con alcune concessioni puramente formali alla Santa Sede per motivi di immagine.

L’occasione per un nuovo cambio di dinastia si presentò nella Guerra di Successione Polacca. Senza volerla seguire nella sua dinamica, del tutto estranea alla Sicilia, questa fu l’occasione perché la Spagna occupasse i due regni “di Sicilia” e li riportasse nella propria orbita. Il Regno di Sicilia e il Regno di Napoli (e lo Stato dei Presìdi) sono così dati al figlio di Filippo V di Spagna, Carlo di Borbone (1734). L’occupazione fu abbastanza facile: gli spagnoli, questa volta alleati di Inglesi e Olandesi, non avevano sui mari alcun contrasto da parte dell’Austria, potenza continentale che poteva contare solo sulle modeste flotte napoletana e siciliana. Del resto la “conquista” dei Borbone venne vista ancora una volta dai Siciliani come un “ritorno” degli Spagnoli, e quindi della legittimità. Negli ultimi tempi il governo di Vienna, chiamato dai Siciliani del tempo degli “Alemanni”, cioè tedeschi, era stato particolarmente esoso per mantenere una truppa di difesa, e questo ne aveva fatto scendere la già bassa popolarità. A questo si aggiungeva la corruzione del Segretario di Stato Quiros, aduso ad arricchirsi vendendo funzioni pubbliche. Il suo ritiro e la convocazione del Parlamento non valsero a risollevare una incomprensione reciproca che era forse peggiore che non quella con i Savoia. Una volta occupato il napoletano, la Sicilia “austriaca” non aveva alcuna speranza di resistere da sola. Non ci furono stragi, fu praticamente una passeggiata militare, con una resistenza simbolica degli Austriaci a Palermo, e appena più sostanziosa a Messina e Siracusa, giusto per l’onore delle armi. Solo il castello di Trapani fu più persistente nella resistenza, ma alla fine anche questo dovette arrendersi.

  • 4 – Arrivano i Borbone con Carlo III

Carlo viene solennemente incoronato Re di Sicilia nel 1735. Sarebbe stata l’ultima incoronazione di un Re di Sicilia, a circa 600 anni di distanza dalla fondazione del Regno. Questa volta, per effetto dei trattati, ogni residuo formale legame con la Spagna è risolto. Sul piano internazionale pare significativo che l’arrivo di Carlo, nel 1734, sia stato percepito dai Siciliani come un pieno ritorno nell’orbita spagnola, ma poi, poco per volta, l’influsso della Spagna andò indebolendosi, senza che ci sia stato un momento esatto in cui questo sia cessato del tutto.

Ancora una volta i Siciliani pensavano che fosse giunto il momento di una piena indipendenza. Carlo è incoronato con il nome di Carlo III, considerando quindi il predecessore né più né meno che un “abusivo” sulla corona siciliana. Ma dopo, ovviamente, Carlo preferisce risiedere a Napoli, la capitale del Regno maggiore, inviando – come sempre – un “viceré proprietario” a Palermo. Per l’occasione fu rispolverato il vecchio titolo di Alfonso il Magnanimo, “Rex utriusque Siciliae”. Ciò naturalmente non significava affatto che si era creato un regno unitario. Carlo era re “di entrambe le corone”, cioè di Napoli, alias Sicilia al di qua del Faro, e di Sicilia, alias Sicilia al di là del Faro (in latino, peraltro, “utriusque” significa “di ciascuna delle due”, e non “di entrambe insieme”, che si sarebbe detto “ambarum Siciliarum”). Nel titolo prendeva la formula di “Sua Maestà Siciliana”. Nelle poche cose gestite in comune (la Corona, la rappresentanza diplomatica) i due regni erano rappresentati sistematicamente con il rapporto di 3⁄4 e 1⁄4 tra Napoli e Sicilia. Ma, a parte questo, restavano due stati separati in tutto e per tutto, assoluto quello napoletano, parlamentare quello siciliano. La fine della Guerra di Successione polacca (1738) vide confermate a Carlo le due corone di Napoli e Sicilia, con l’appendice toscana dello Stato dei Presìdi, e quella emiliana del ducato di Parma e Piacenza. Anche la successiva Guerra di Successione austriaca, in cui le “Due Sicilie” furono interessate tutto sommato marginalmente, videro confermare ai Borbone i medesimi possessi (1748), con l’unica concessione che il Ducato di Parma e Piacenza, il primo possedimento di Carlo in Italia, dovette essere concesso a un fratello del re, allontanandosi definitivamente dall’orbita delle “Due Sicilie”. Poco impegnato il Regno di Napoli, pochissimo il Regno di Sicilia che – con le parole del Di Blasi – “non ebbe altra parte in questa guerra, che quella di somministrare truppe, viveri, e munizioni al suo monarca”.

Per un verso Carlo non fu re assenteista come gli spagnoli. Tra i primi provvedimenti, già nei primi mesi di Regno, la coniazione dell’onza aurea, per secoli pura moneta di conto. Il titolo della moneta siciliana era più puro di quello della moneta napoletana, ma questo – unito alla parità monetaria fissa e irrevocabile che instaurò tra il Ducato napoletano e l’Onza siciliana (rapporto di tre a uno) – fu un modo sottile per estrarre metallo pregiato dalla Sicilia e spostarlo a Napoli, in assenza di finanze comuni tra i due stati. Per evitare l’ovvia fuoriuscita del metallo pregiato dalla Sicilia, qualche anno dopo dovette intervenire, vietandola, non sappiamo però con quanto successo. Carlo – per seguire da vicino le vicende siciliane – costituì, gia nel 1735, una “Giunta di Sicilia”, avente ad oggetto le deliberazioni riguardanti il Regno. La Giunta era costituita da un Presidente, tratto dall’aristocrazia siciliana, e quattro giurisperiti, due napoletani e due siciliani, più un segretario. In realtà questa era l’estensione di quella richiesta che il parlamento del 1720 aveva già fatto a Vienna di avere un proprio “deputato” a corte. Il Presidente della Giunta, infatti, era scelto dal re da una rosa di nomi proposta dalla Deputazione del Regno. Era, quindi, in sostanza una nomina elettiva e parlamentare.

Per i Siciliani, in ogni caso, era l’ennesima delusione nel non vedere coronato il loro sogno di avere un re proprio e quindi una piena indipendenza anche sul piano estero. La sua breve presenza in Sicilia, con l’ambasciatore di Malta che fece il suo ligio omaggio feudale, il Palazzo Reale per qualche tempo sede del Regno, l’intervento personale del re nelle questioni politiche ed amministrative, la restituzione a Messina del suo Senato, dopo le dure repressioni di fine Seicento, tutto faceva sperare in una rinascita nazionale. Ma il sogno svanì presto, e i Siciliani dovettero inghiottire l’ennesima delusione, condannati nuovamente allo stato di viceregno nel quale erano incagliati sin dai primi del 1400. Il peggio però doveva ancora venire. Alla dinastia Borbone sarebbe toccato regnare nell’ultima fase storica del Regno di Sicilia (1734-1816) e, sempre a loro, di uccidere letteralmente il nostro secolare Stato.

Carlo III (VII a Napoli) fu, a giudizio unanime, un sovrano illuminato. Ereditò due regni bisognosi di riforme e non le fece certo mancare. Seppe pure farlo rispettando le tradizioni costituzionali diverse dei due stati, il che forse rallentò un po’ il cammino delle riforme in Sicilia, ma non impedì che questa camminasse al pari delle altre nazioni europee verso una progressiva modernizzazione.

Sul piano costituzionale cambiò pochissimo. In pratica era dall’inizio del Governo viceregio che la Sicilia, pur avendo attraversato alcune riforme amministrative significative, era amministrata più o meno allo stesso modo. C’era ormai una “costituzione vivente” che integrava i Capitoli di Catania del 1296, la cui forza veniva considerata indiscussa.

Le legislature parlamentari videro ampliare, sotto i Borbone, la propria durata da 3 a 4 anni. Il mandato viceregio formalmente resta triennale, ma in pratica è esteso a tempo indeterminato con continui rinnovi. Il castigliano, come lingua della corte viceregia, fu progressivamente abbandonato, entro gli anni ’40 del secolo, a favore del toscano, che ormai aveva fatto regredire definitivamente il siciliano a lingua letteraria, ancorché considerata “nazionale”, e insidiando e restringendo sempre più l’uso del latino in ambito accademico, forense e canonico (nel 1741 la prima convocazione del Parlamento in lingua italiana). Il Settecento vide nascere la prima timida rete di scuole pubbliche, ma si trattava ancora di interventi frammentari. La legislazione, anche su impulso del governo viceregio (dietro il quale c’era la Corona, che riprendeva a occuparsi attivamente della Sicilia), sale di livello, rispetto all’evidente scadimento della seconda metà del Seicento, ma sempre secondo la gerarchia tradizionale delle fonti sicule: al vertice, immutabili, il Corpus Juris di Giustinano e le antiche Costituzioni del Regno, poi le legislazioni capitolari approvate dai Parlamenti con il placet regio, poi le prammatiche viceregie (e raramente regie), infine i dispacci regi e viceregi.

Lo Stato riesce anche a riprendere il controllo dei principali comuni demaniali (e a concedere la demanialità ad alcuni feudi che si compravano l’emancipazione), pur nel formale rispetto dell’autonomia dei Consigli civici. La Corona ora controlla direttamente la nomina dei “sindaci” (cioè dei rappresentanti) delle Città demaniali al Parlamento (formalmente acclamati dal Consiglio Civico), in modo da avere una voce certamente governativa al suo interno. Nei comuni maggiori questa sarà comunque espressione di una piccola aristocrazia legata alla Corona (solo a Palermo il “Pretore” apparteneva in genere alla prima nobiltà), mentre in quelli minori, che lo Stato controllava meno, il ruolo di rappresentante veniva dato ad avvocati, già paghi di essere gli unici senza quarti di nobiltà ad essere rappresentati in Parlamento, e quindi ancor più ligi degli altri ai dettami del Viceré. Il Parlamento votava stabilmente per Bracci. Spesso la nobiltà faceva quadrato nei Bracci militare ed ecclesiastico e poteva anche mettere in minoranza il Governo che controllava solo quello demaniale. Qualche volta il Governo riusciva a tirare dalla propria parte l’Ecclesiastico e strappare ai nobili qualche privilegio. E qualche volta, infine, lo Stato poteva portare avanti anche un processo di timida laicizzazione coalizzando Braccio militare e demaniale contro quello ecclesiastico.

Sul piano religioso, dopo secoli di stentata tolleranza, finalmente si legittima la presenza dei greco-cattolici di origine albanese in Sicilia: nel 1734 apre il Seminario Italo-Albanese ad opera di Padre Guzzetta, nel 1784 si istituì un “vescovo ordinante”, competente solo per il rito e per le ordinazioni, ma senza una vera e propria diocesi. Il processo sarebbe stato completato solo due secoli dopo, con l’Istituzione dell’Eparchia di Piana nel 1937, per le forti resistenze e limitazioni che la Chiesa latina non cessò di esercitare su questi fedeli considerati in odore di “ortodossia”, e quindi potenzialmente eretici. Nel frattempo, però, la Chiesa greca originaria di Sicilia, costituita da una serie di monasteri basiliani siciliani e calabresi, e soggetta all’Archimandrita di Messina, andò progressivamente in declino già nel Settecento, e finì per essere assorbita dalla Chiesa latina messinese, ma per tutto il secolo, seppure sotto prelati latini, ancora sopravvisse. Solo nell’Ottocento si sarebbe progressivamente scardinata, lasciata vacante dapprima, sotto le Due Sicilie, colpita poi dalle soppressioni degli ordini monastici dopo l’Unità d’Italia, dall’accorpamento con la Diocesi latina di Messina nel 1883 e infine dal terremoto del 1908, con la quale fu chiusa l’ultima parrocchia di rito greco, per riaprire simbolicamente solo nel 2011.

Altra apertura religiosa di re Carlo fu la revoca dell’espulsione degli ebrei di fine Quattrocento (1741), nella speranza che questa comunità desse impulso alle attività economiche. Ma non per questo si sarebbe mai più ricostituita una comunità ebraico-sicula degna di nota, e – visto l’insuccesso dell’iniziativa – la nuova norma finì per essere revocata qualche anno più tardi.

La “religione” di Malta, cioè i Cavalieri di S.Giovanni, nei secoli aveva perso gran parte della sua funzione militare, ed era ormai una sorta di porto franco famoso per il suo ospedale all’avanguardia. I Cavalieri provarono anche a sfidare l’autorità del Regno di Sicilia su di loro, considerando l’omaggio annuale del falcone solo un atto di alta sovranità, ma nell’ambito di una sostanziale indipendenza. Nel 1754 impedirono la visita del vescovo di Siracusa, determinando una ferma reazione di re Carlo con un blocco commerciale durato un anno. Un arbitrato internazionale, comunque, avrebbe riportato le Isole Maltesi all’ordine all’interno del Regno di Sicilia. Questi teneva stabilmente nelle Isole un “uomo del re”, mezzo ambasciatore e mezzo prefetto.

Tra le altre riforme del periodo, l’istituzione del Supremo magistrato di commercio (1739), per le cause di diritto commerciale, fino ad allora regolate dai giudici ordinari. È da ricordare che allora la Sicilia aveva un diritto civile romano antico, e un diritto commerciale dato dagli Usatges di Barcellona, introdotti in Sicilia con ogni probabilità ai tempi del Vespro, oltre a numerosi usi locali sulle diverse piazze commerciali. Al di sotto del Tribunale erano corti minori, i cosiddetti “Consolati di mare”, nei singoli porti. Ma la corruzione di questi magistrati, e i conflitti di competenza con le altre magistrature, furono tali che il Parlamento finì per chiederne la soppressione. Il Re accolse la supplica, lasciando sopravvivere solo i consolati delle due “metropoli”, Palermo e Messina, e limitando i poteri della magistratura commerciale ai soli rapporti tra mercanti o con gli stranieri. Anche il vertice del Tribunale fu riformato, abolendo il “Supremo magistrato”, e facendolo presiedere direttamente dal Presidente del Tribunale del Concistoro, che era – ricordiamo – la più alta magistratura costituzionale e amministrativa del Regno, una sorta di Consiglio di Stato o Corte Costituzionale ante litteram.

Carlo riordina anche la sanità, estendendo su tutta la Sicilia l’ufficio, prima municipale palermitano, della Suprema deputazione generale di Salute Pubblica (1743). Impossibile ricordare le tante piccole e continue innovazioni del secolo. Ne ricordiamo una fra tutte: la citata fondazione a Messina della prima società anonima (una sorta di piccola “Compagnia siciliana delle Indie” sul modello di analoga società formata anni prima a Napoli per il regno continentale), con 350.000 scudi (140.000 onze) di capitale sociale (1752). Anche la Sicilia si avviava quindi alla modernizzazione in senso capitalistico. Gli stessi aristocratici cominciavano a mal sopportare gli orpelli di diritto pubblico legati alla loro carica, ed erano più interessati ad uno sfruttamento di diritto privato dei beni feudali, così come a un’appropriazione delle terre comuni, non diversamente da come in parallelo avveniva in Inghilterra nelle enclosures. L’aristocrazia siciliana, e intorno ad essa tutte le classi emergenti, comprese le borghesie delle grandi città orientali, sviluppava sempre più un forte sentimento nazionale isolano, tenuto d’occhio con sospetto dalla monarchia borbonica, ma sempre incanalato nel quadro costituzionale.

In quest’ottica i Siciliani andavano scoprendo e rivalutando l’origine normanna del loro Stato, e la stretta parentela istituzionale che li legava agli Inglesi, data dalla presenza di un Parlamento assai simile (i due Bracci militare ed ecclesiastico corrispondevano quasi esattamente ai pari temporali e spirituali della Camera dei Lords, mentre il Braccio demaniale corrispondeva alla grossa alla Camera dei Comuni).

Ci furono varie riforme dell’amministrazione, anche in senso sociale. Se non riuscì subito il decollo di un’istruzione pubblica per i “civili” (il ceto medio), maggior successo ebbe la “deputazione de’ projetti” per prendersi cura dei neonati abbandonati, sotto il viceré Laviefuille. Sotto lo stesso governo troviamo le prime testimonianze di logge massoniche in Sicilia.

Dal punto di vista dei governi viceregi, nei primi tempi, dopo la conquista/liberazione, questo fu affidato provvisoriamente alla presidenza di Pietro di Castro, marchese di “Grazia Reale”, ma già nel 1737 si riprese con la nomina di un viceré regolare, Bartolomeo Corsini, principe di Gismano. Quella di Carlo fu l’epoca d’oro delle riconquiste di sovranità da parte del Parlamento. Il Parlamento del 1738, ottenne che tutte le cariche ecclesiastiche, tranne l’arcivescovato di Palermo, fossero riservate a regnicoli siciliani. Sotto il Corsini fu istituito il citato Tribunale di Commercio, e fu stipulato uno storico trattato di pace tra i due “regni” (che ora gestivano una politica estera praticamente congiunta) e l’Impero Ottomano, e poi con il suo stato vassallo della Tripolitania. Sempre sotto il Corsini si ebbe la revoca dell’espulsione degli Ebrei di cui si è detto. Era ancora viceré il Corsini quando l’illuminazione pubblica notturna, per la prima volta nella storia, nel 1744, rischiarò le tenebre delle due principali arterie della capitale. La società si modernizzava lentamente ma tangibilmente. E l’amministrazione pubblica diventava più complessa, costringendo lo Stato a creare nuovi uffici e tribunali, come ad esempio la “Giunta dei Contrabbandi”, per sgravare il Tribunale del Real Patrimonio, delle continue cause relative alle sfilacciate dogane esterne dell’Isola.

Nel 1747 al Corsini successe Eustachio duca di Lavieufuille, un militare, che sulle prime pensava di poter amministrare il Regno come una caserma ma che, dopo una pioggia di ricorsi a Napoli, dovette anche lui piegarsi al rispetto delle “Costituzioni e Capitoli” del Regno. Anche lui dovette espandere l’amministrazione statale, istituendo la “Giunta frumentaria”, per mettere ordine nel vitale traffico dei grani. A lui si devono particolari attenzioni sulla città di Messina, per farla rinascere come polo commerciale e marittimo siciliano, tra cui la sopra menzionata fondazione della prima società anonima siciliana. Con il Lavieufuille, ancora, la Sicilia si dota di un esercito regolare proprio. Fino ad allora aveva sempre avuto una flotta propria, un sistema di fortezze costiere, una milizia territoriale di difesa, le truppe baronali all’occorrenza, le difese cittadine, ma la presenza stanziale di truppe ordinate in senso moderno, era stata affidata a potenze esterne, dapprima alla Spagna, poi alle varie corone con cui si era stati in unione. Adesso, senza venir meno del tutto la difesa “napoletana”, la Sicilia si dota di cinque reggimenti propri, fatti da soldati di cittadinanza siciliana: due di cavalleria e tre di fanteria.

Al Lavieufuille, dopo una breve presidenza, successe il Marchese di Fogliani, nel 1755, già Primo Ministro a Napoli. Questi sarebbe stato il viceré più longevo, nel suo mandato, di tutti: ben 18 anni, tra continui rinnovi, fino al 1773.

Il suo governo, fino al 1759, in parallelo a quello del Tanucci a Napoli, guidava il Paese in modo equilibrato e pacifico.

  • 5 – Il Regno di Ferdinando III durante il lungo viceregno del Fogliani

Nel 1759 Carlo succede nel Regno di Spagna, con il titolo di Carlo III. Napoli e Sicilia sono lasciate al figlio minore Ferdinando (IV di Napoli, III di Sicilia), sotto la correggenza di un “triumvirato” di due “napoletani” e un “siciliano”, il Presidente della Giunta di Sicilia, Pietro Bologna Beccadelli, principe di Camporeale. Appare altrettanto significativo della crescita del nazionalismo isolano che a Palermo si sia fatta una vera e propria cerimonia dell’incoronazione (senza far partire da Napoli il piccolo Ferdinando che allora aveva solo 9 anni), sebbene celebrata un po’ freddamente dal viceré Fogliani, e non si siano fatti solo i “festeggiamenti” come si sarebbe fatto all’epoca degli Asburgo di Spagna. Questo viceré, in carica da alcuni anni, lo sarebbe rimasto per tutta la minore età di Ferdinando III ed anche per i primi anni della sua maggiore età: con i suoi diciotto anni e più di governo Fogliani – come si è detto – è stato il viceré più longevo della storia di Sicilia.

Agli inizi nulla sembrava cambiare: Tanucci continuava a Napoli le riforme da assolutismo illuminato, Fogliani continuava a Palermo, insieme ai Parlamenti, in maniera sostanzialmente indipendente. Il vero re sembra ancora Carlo III di Spagna, che riesce a dare indirizzi anche alle due monarchie “siciliane”. Provvedimento emblematico di questo periodo è l’espulsione dei Gesuiti nel 1767, voluta dalla Spagna, e prontamente eseguita anche a Napoli e in Sicilia, teoricamente in modo autonomo. L’espulsione dei Gesuiti ebbe un grande effetto per l’economia siciliana, perché mise in commercio l’immenso patrimonio accumulato in secoli dalla loro Società, ora amministrato e messo in vendita da una “Giunta degli abusi”. Ma significò anche la perdita degli storici collegi, malamente secolarizzati o sostituiti da altri istituti di formazione. Il viceré Fogliani aprì a Palermo una sorta di liceo, le “pubbliche scuole di grammatica e di rettorica”, e poi altre, poco a poco, si aprirono nel resto del Regno, sia pure meno capillarmente della vecchia rete di collegi gesuitici. Alla fine del processo, nonostante il danno immediato, l’istruzione divenne quindi più popolare e nelle mani dello Stato, ma ci vollero alcuni decenni. Nel 1786, quasi vent’anni dopo quindi, furono aperte in Sicilia le “Scuole normali”, abbozzo di prime scuole elementari pubbliche.  Di rilievo anche la nascita del “Seminario Nautico” a Palermo, ancora oggi funzionante come scuola secondaria di grande tradizione.

A Palermo chiuse anche il Collegio Maggiore dei gesuiti, che aveva avuto funzioni universitarie. La sua riapertura come “Accademia Nazionale”, e quindi laica e statale, iniziata due anni dopo, prese due decenni per andare a regime, ma fu anche un bene, perché oltre alle tradizionali lauree in filosofia e teologia, questa avrebbe rilasciato anche lauree di ogni tipo, nel clima di risveglio nazionale siciliano di fine secolo. Quell’Accademia poi si sarebbe trasformata nell’Università degli studi di Palermo soltanto nel 1806, in piena epoca napoleonica, nonostante i Gesuiti, allora appena riammessi, pretendessero inutilmente la restituzione del Collegio.

Nel 1760, scacciati i pirati barbareschi che ne avevano fatto un covo, fu colonizzata l’isola di Ustica. Ciò che però non avrebbe salvato la piccola colonia da successive incursioni di algerini, fino a che questa non fu stabilmente fortificata. Furono fatti progetti di colonizzazione anche dell’isola di Lampedusa, ma questa sarebbe stata completata solo tra gli anni ’80 del 1700 e gli inizi del successivo secolo.

Durante il viceregno del Fogliani, questo seppe ingraziarsi i ceti dirigenti dell’Isola che sistematicamente ne chiedevano e ottenevano il rinnovo nella carica. Ciò non significa che non ebbe i suoi grattacapi, tra qualche carestia e l’endemico brigantaggio, che però ricevette un notevole ridimensionamento dall’azione di polizia svolta dal Principe Giuseppe Lanza di Trabia, nominato Vicario del Viceré, con poteri speciali.

Quando Ferdinando cresce ed esce di tutela apprende con disappunto che “al di là del Faro” non è re assoluto come a Napoli, e che deve tenere conto di una “rappresentanza della Nazione”. I rapporti sono tesi sin dall’inizio, e non fanno che peggiorare nel tempo.

Il Parlamento del 1770 chiede che le truppe mercenarie degli svizzeri siano sostituite con un reggimento di fanteria siciliana, segno anche questo di una progressiva presa di coscienza nazionale. Chiede anche che, oltre alla Giunta di Sicilia, la Deputazione di Sicilia potesse mandare un agente “eletto” per rappresentare direttamente a Corte la volontà della Nazione.

Una rivolta popolare, dettata da normali condizioni di malcontento e di alto prezzo dei beni di prima necessità, costringe il Fogliani alla fuga da Palermo nel 1773. Il viceré ripara a Messina. L’ordine è riportato a Palermo, si dovette concedere un generale indulto, per qualche tempo le funzioni di ordine pubblico nella capitale sono lasciate nelle mani delle corporazioni, ma si comprende che in Sicilia c’è un problema. Il cardinal Filangeri è “Presidente del Regno”, per la prima volta, senza essere “Capitano Generale”, cioè capo delle Forze Armate. Il viceregno è poi restaurato nella vecchia forma, ma comincia una sottile tensione tra Napoli e Palermo. La Sicilia è infatti un vero e proprio Stato, che mal sopporta l’autorità del re napoletano concepito come “straniero” non meno dei predecessori. Si sceglie di inviare viceré che favoriscano una maggiore integrazione tra le due parti del dominio borbonico, senza voler urtare troppo la suscettibilità dei grandi di Sicilia. La carica di viceré è ora sottoposta ad alcune limitazioni e a un controllo più stretto da Napoli.

  • 6 – La Sicilia degli ultimi Viceré

Poco dopo Fogliani, anche il Tanucci, padre delle riforme illuministe, è licenziato e il governo inizia a prendere una piega più reazionaria. Dopo un breve governo tutto sommato accomodante coi Siciliani come quello del Colonna, viene spedito a Palermo l’illuminista Caracciolo, già ambasciatore a Parigi, a “mettere ordine” tra i riottosi siciliani, nel 1781.

Si devono al Caracciolo una serie di importanti riforme, ormai ineludibili in una Sicilia immobile da secoli. Alcune di queste avevano un orientamento liberale, come la liberalizzazione della tratta dei grani o l’abolizione delle “mete” (prezzi e pesi fissi del pane). Altra riforma fu quella di liberalizzare il lavoro salariato dei vassalli, anche fuori dal feudo del barone, senza il permesso di quest’ultimo. Queste riforme da un lato liberavano lo Stato dalle “bardature mercantilistiche”, ma dall’altro non tenevano conto del significato sociale della calmierazione dei prezzi, e resero inviso il nuovo governo ai ceti più umili, dai quali avrebbe forse dovuto cercare il consenso.

Caracciolo letteralmente “sopportava” il Parlamento, ma se avesse potuto lo avrebbe abolito. Quando lo convocò per la prima volta interruppe la tradizione di far leggere il discorso al protonotaro e lo lesse lui direttamente (il successore, il Caramanico, sarebbe tornato all’antica tradizione). E fu da subito sprezzante nei confronti delle istituzioni siciliane. Tra le altre proposte quella di cambiarne il nome: il Parlamento doveva diventare un più modesto “Congresso” e i “donativi” più coercitivi “contributi”. Il re, però, non accettò questi cambi costituzionali, ritenendoli pericolosi per la stabilità politica del Regno.

Caracciolo, ad onor del vero, ha intenzione di mettere un po’ d’ordine nel Regno di Sicilia, e introdurre anche sane innovazioni, ma lo fa commettendo innumerevoli errori tattici, ferendo ripetutamente l’orgoglio e la dignità dei Siciliani, come ad esempio nel vano tentativo di ridurre i festeggiamenti di S. Rosalia a Palermo. I tentativi di accentrare le decisioni a Napoli gli alienarono pure i ceti medi, già intrisi di un vago nazionalismo siciliano, che pure sarebbero dovuti essere i migliori suoi alleati nel ridurre i privilegi dell’aristocrazia. Fra le più importanti riforme la chiusura dell’Inquisizione Spagnola (1782), con la distruzione di tutte le sue carte, perdita questa incolmabile per la memoria storica. Vi è da dire che ormai da tempo questa si era trasformata più che altro in una struttura assistenziale pubblica, la cui finalità vera era di dare lavoro ad alcune persone; alla chiusura, nelle celle furono trovate solo alcune vecchine, fatte passare per streghe e che ora non sapevano neanche dove andare. Furono abolite tutte le linee doganali interne tra gli stati feudali. A parte i dazi comunali, quindi, veniva introdotto il libero commercio all’interno del Regno di Sicilia. All’esterno naturalmente continuava il regime doganale, anche tra Napoli e Sicilia. Furono aboliti gli abusi del mero e misto imperio nelle terre baronali, come l’incarceramento “per ragioni ben note al barone” (1784). Importantissimo colpo alla feudalità fu, infine, quello dato nel 1785, nel quale, richiamando in vigore Capitoli di re Federico III e Ferdinando I, diede interpretazione estensiva di applicarli alle città feudali, come forse in teoria era già all’origine, le quali di fatto si videro ora eleggere sindaco e giurati dai rispettivi consigli civici, cioè dalle assemblee dei “civili” dei rispettivi paesi. Era in pratica l’abolizione del feudalesimo per cui la Sicilia era ancora una vera somma di stati feudali. Restavano al barone ancora molti diritti: l’amministrazione dei beni feudali nel comune, le funzioni giudiziarie (sia pure temperate), il servizio militare, la rappresentanza parlamentare, nonché una serie di tributi locali, diritti, angarie, perangarie e simili, sempre che fossero stati concessi dal re. Ma i Comuni feudali, che in teoria erano sempre stati autonomi, adesso cominciavano ad esserlo anche in pratica. Ciò a sua volta apriva a una sorta di democrazia (di questo l’assolutista Caracciolo forse si avvide poco) anche nelle città demaniali, che continuavano ad acclamare i magistrati proposti dalla corte viceregia, ma finché a loro fosse piaciuto e ad eleggere alcuni magistrati municipali con i cosiddetti “squittini” (scrutini). Le autonomie civiche, in verità, erano state una delle più importanti conquiste del Vespro; conquiste mai del tutto revocate che Caracciolo rimise semplicemente in piedi dopo secoli di abusi.

Altro effetto involontario delle riforme di Caracciolo fu che l’avversato Parlamento cominciò ad avere una natura politica in senso moderno, con un vero dibattito al suo interno. Nei tempi gloriosi del Vespro, e anche prima, era stata la forza del Regno, e così anche dopo, sotto i re aragonesi e i primi re spagnoli. Poi, poco a poco, si era come atrofizzato, limitandosi a votare i donativi e a chiedere grazie, spesso su interessi assai particolari. Ma non si era mai spento del tutto. Ora il Braccio demaniale, incoraggiato dal Caracciolo, cominciava ad alzare la testa, in quanto rappresentante delle popolazioni delle maggiori città del Regno. Nel Parlamento del 1786 questo chiede e ottiene una ripartizione più equa dei tributi tra città demaniali e baronali. Caracciolo, con vero abuso, nomina da sé la Deputazione del Regno, limitando i baroni a un terzo. Dopo di lui il Parlamento avrebbe ripreso ad eleggere la propria Deputazione, ma la limitazione di potere ai baroni sarebbe rimasta. Lo stesso anno, forse anche per il troppo malcontento generato dalla sua azione, venne richiamato a Napoli.

I successori dovettero venire a più miti consigli con il Parlamento, anche perché i tempi si facevano duri per le monarchie, con l’approssimarsi della Rivoluzione francese.

Il Caramanico, con molto più tatto del predecessore, ne continuò comunque l’opera di riforma. Con una prammatica del 1788 (che riprendeva altre analoghe, ma meno efficaci, del 1766 e del 1776), diede un altro colpo formidabile al feudalesimo: erano aboliti di colpo tutti i diritti feudali di cui non si poteva dimostrare una esplicita concessione regia, in pratica istituiti dall’abuso dei baroni stessi: si trattava di molteplici gabelle, servitù, angarie, perangarie, usi esclusivi di mulini, frantoi e forni. Anche il vecchio capitolo “Volentes” approvato in Parlamento ai tempi di Federico III, che sanciva la libera trasmissibilità dei feudi, fu ridimensionato con una “interpretazione autentica” che aumentava i casi di riversamento al fisco dei beni feudali. Ciò equivaleva, in pratica, ad abolire quasi tutto il regime feudale dal Regno.

Nel frattempo lo Stato di Sicilia si accresceva piano piano nelle funzioni che andava esercitando. Sebbene fosse ancora anacronisticamente diviso nei Tre Valli ereditati dai Saraceni, e nell’organizzazione feudale e municipale, si andavano costituendo nuove branche della pubblica amministrazione, alcune delle quali sotto il controllo del Parlamento stesso, come ad esempio la già citata Deputazione delle Strade, che si poneva moderni problemi di miglioramento della viabilità. Altre branche, invece, erano presenti da secoli, come il “protomedicato” (sorta di ministero della salute), ed ora ingrandito nelle funzioni. Nel 1787 fu riformata la vecchia procedura civile e criminale, ereditata ancora da Alfonso il Magnanimo, con la quale le cause feudali potevano durare anche più di 100 anni.

Di interesse anche la storia della posta. Nel Medio Evo non esisteva alcun servizio regolare paragonabile a quelli moderni. Poi, poco per volta, il servizio postale regio per la divulgazione di ordini e norme dal centro alla periferia, da sempre esistito in qualche modo, tra 1400 e primi del 1600 comincia a diventare più stabile e organizzato. Per le urgenze finanziarie dello Stato, a un certo punto, nel 1624, questo servizio viene appaltato ai privati, passando di mano in mano. Ed è qui che, poco a poco, diventa quello che è un servizio pubblico postale regolare. Sotto il Caramanico lo Stato riscatta questo servizio, avocandolo al pubblico: un secolo e mezzo prima aveva privatizzato un abbozzo di servizio, prevalentemente per usi di diritto pubblico, ed ora si ritrovava quella che chiameremmo oggi una public utility, cioè un servizio di pubblico interesse, ma con utenti in massima parte privati.

Di un certo interesse appare un fatto che non riguarda direttamente la Sicilia. Nel 1788, infatti, il Regno di Napoli, interrompe la donazione della “Chinea” al papa, ricusando così quell’ultimo simbolo di sudditanza feudale che legava il regno continentale allo Stato della Chiesa. L’interesse sta nel fatto che mai analogo simbolo di sottomissione feudale lo stesso regime borbonico aveva riconosciuto per il Regno di Sicilia, del quale, nelle memorie giuridiche che accompagnano questo atto di sovranità, non si fa menzione; ciò a suffragio del fatto che le pretese papali di alta sovranità feudale sulla Sicilia non erano mai andate ad effetto. Questa ritrovata sovranità del Regno di Napoli si viene a formare proprio mentre in Spagna muore Carlo III, morendo con lui anche ogni forma di egemonia spagnola sui due regni. Il fratello Carlo IV, infatti, non poteva più certo esercitare alcuna influenza sul regno di Ferdinando; sovranità che però non era esattamente in linea con le aspirazioni dei Siciliani a svincolarsi dalla presa “napoletana”.

La lotta tra Corona e Aristocrazia in questi anni fu comunque particolarmente feroce, anche se ancora sotterranea. L’aristocrazia ebbe buon gioco a mostrarsi all’intera Nazione come tutrice delle libertà del Regno, contro la rapacità e tirannia del governo napoletano. La mancanza di una dinastia siciliana si faceva ancora una volta sentire come il più grande limite. Le necessarie riforme che il governo voleva introdurre erano percepite come “riforme straniere”, e facilmente neutralizzate da una classe dirigente che, più che ogni altra in Europa, si irrigidiva nella difesa di privilegi anacronistici. Da canto suo il Governo non faceva che commettere errori, come quello di tentare di introdurre, per mezzo di suoi avvocati, interpretazioni costituzionali restrittive e mortificanti. I baroni si stringevano al contrario su un’interpretazione che era stata vincente in sede giudiziaria ai tempi del viceregnato di Laviefuille, sotto Carlo III: quella dell’avvocato Di Napoli (1744) che sosteneva che i baroni siciliani erano stati “commilitoni” di Ruggero I, e quindi che la sovranità apparteneva congiuntamente a loro e al re. Per contro, le teorie del Simonetti, “napoletano”, erano talmente riduttive da concepire il Regno di Sicilia come una mera provincia, e tutti i diritti vigenti come graziose concessioni regie. Fu imposta al Senato palermitano la rimozione della statua del Di Napoli dal consiglio civico. Il clima era teso, e ancora una volta gran parte della società siciliana, legata all’aristocrazia da concretissimi interessi economici, non stava dalla parte del re. Re e viceré, finché potevano, facevano riforme per mezzo di prammatiche e dispacci, non consultando il Parlamento, mentre le richieste dello stesso raramente si traducevano in veri e propri Capitoli, riservandosi quasi sempre la Corona il diritto di esaminare le grazie richieste dal Parlamento e dilazionandole di anni. Le tensioni tra Sicilia e Borbone, inevitabilmente, crescevano, ma erano da entrambe le parti tenute a freno per evitare una rottura drammatica, che poi comunque sarebbe avvenuta.

Ad ogni modo la Sicilia si avviava ad una trasformazione economica profonda, non solo per effetto delle riforme legislative, ma per processi interni di trasformazione più strutturali. Negli anni ’60-’70 inizia – ad esempio – l’estrazione dello zolfo, il vero petrolio della rivoluzione industriale, ciò che avrebbe trasformato la piccola Sicilia in un teatro strategico dello scacchiere internazionale.

  • 7 – Ferdinando III ripara in una Sicilia che si ritrova del tutto indipendente dopo quasi quattro secoli

In questo clima politico non mancarono le suggestioni rivoluzionarie. L’eco della Rivoluzione Francese arrivò sulle prime in Sicilia molto attutito. Qualche ispezione militare, qualche modesto rafforzamento delle fortezze, ma il vero pericolo era la penetrazione delle idee che venivano dalla Francia. Queste, in Sicilia, assunsero il colore del separatismo repubblicano. Una congiura giacobina del 1795, guidata dall’avvocato Francesco Paolo Di Blasi, che si era distinto per studi accademici che avrebbero voluto fare del siciliano una lingua nazionale, mirava a spodestare i Borbone e dar vita ad una Repubblica Siciliana. Sventata la rivolta, per Francesco Paolo Di Blasi ci fu la mannaia, in quella stessa piazza che, circa un secolo dopo, sarebbe stata chiamata “Piazza Indipendenza”, chiamata così in onore della III guerra d’Indipendenza italiana del 1866, ma dove erano stati impiccati e decapitati, quasi cent’anni prima, i martiri dell’Indipendenza siciliana.

Gli eventi rivoluzionari fanno precipitare la situazione. Nel 1794 la Corona chiede un sussidio di 60.000 ducati fissi al mese, una cifra spropositata che equivaleva alla chiusura del Parlamento per sopravvenuta inutilità. Il Parlamento trovò la forza di dire di no alla Corona. Non era mai successo, ma era inevitabile perché la Sicilia non fosse calpestata definitivamente. La Sicilia offriva in cambio un donativo straordinario di un milione di ducati. Ma ormai tra Corona e Parlamento la frattura era diventata insanabile.  Le “Due Sicilie” entrano in guerra contro la Francia nella Guerra della I Coalizione, a fianco di Austria e Inghilterra. Le truppe, anche siciliane, mandate in Pianura Padana non fermano l’avanzata inarrestabile del giovane Bonaparte. Il Borbone esce quindi dal conflitto promettendo neutralità alla Francia e stipulando un fragile trattato di pace. Il Parlamento del 1798, l’ultimo di epoca viceregia, vede di nuovo la proposta dei 60.000 ducati mensili l’anno approvata dal solo Braccio demaniale, ormai letteralmente occupato dal Governo. Il rifiuto degli altri due Bracci bloccò la richiesta. Il re cerca di sforzare la Deputazione a violare il mandato del Parlamento, dando per buona la deliberazione del solo Braccio demaniale. La Deputazione, con gran coraggio (sette voti contro cinque) boccia come irricevibile la proposta della Corona, in quanto non poteva eccedere il mandato parlamentare. Anche la Giunta dei Presidenti e Consultori, investita del tema, si spacca: 3 voti su 5 contro la Corona, che alla fine dovette piegarsi. La realtà era che quanto la Sicilia voleva dare a Napoli era già troppo per le proprie risorse, ma troppo poco per i bisogni della guerra contro i Francesi, ormai imminente dopo il rovesciamento del potere temporale dei papi a Roma e la proclamazione della Repubblica Romana. Pochi mesi dopo, non sentendosi più sicuro a Napoli, re Ferdinando fugge in Sicilia, sotto la protezione delle armate britanniche. L’ultimo viceré, da poco nominato, di fronte alla presenza del re non può far altro che rassegnare il mandato, venendo nominato in cambio “Ministro per gli Affari Interni”, carica mai esistita prima in Sicilia. Con un “Ministro di Giustizia e Alta Polizia” e un “Ministro della Guerra”, la Sicilia ebbe così il suo primo Gabinetto moderno. È anche la fine di un’era che era iniziata nel lontano 1416, e che non sarebbe tornata mai più. Il re (o forse più ancora la moglie Maria Carolina d’Austria) assumeva direttamente il governo, in realtà per mezzo di fuoriusciti napoletani.

In questo frangente le armate napoleoniche occupano le Isole maltesi (1798), indifendibili dagli ormai imbelli Cavalieri, ma anche dal Re di Sicilia che ha a sua volta bisogno di aiuto. Lo chiede agli Inglesi, che nel 1800, con l’aiuto di forze navali e terrestri siciliane, occupano Malta, teoricamente per conto del Re di Sicilia, ma amministrandola loro in attesa della fine delle ostilità, e proteggono per mare la Sicilia. All’ammiraglio Nelson, il vincitore di Trafalgar, è accordata la cittadinanza siciliana e la Ducea di Bronte.

La Sicilia si trovava ora teoricamente indipendente, con un re proprio, dopo secoli di viceregno. Pochi mesi dopo i Francesi dilagano a Napoli, instaurando la breve e sfortunata Repubblica Partenopea (1799). Anche se poco dopo i Borbone restaurano il Regno, Ferdinando resta a Palermo sino al 1803, spremendo la Sicilia come non mai per la riconquista e il consolidamento del Regno continentale. Il Parlamento è lieto di servire il sovrano e fa ogni sacrificio che le viene chiesto. Ma pensa che sia giunto per la Sicilia il momento di poter chiedere ben altra considerazione e rispetto. Nel 1801, in questo quadro, si registra a Catania, per opera di tale Antonino Piraino, un’altra cospirazione repubblicana. Durante l’“esilio” a Palermo la Costituzione del Vespro aveva ripreso a funzionare nel suo tenore letterale, saltata com’era l’intermediazione viceregia. Il Regno chiedeva molte riforme, si credeva di essere alla vigilia di un vero riscatto nazionale. Nel frattempo lo sforzo bellico era prevalente. Nel Parlamento del 1802 Ferdinando III aveva promesso di non lasciare la Sicilia, ma subito dopo – cessata con la Pace di Amiens la Guerra della II Coalizione – venne meno alla promessa, tornando a Napoli, e cercando di trovare un qualche legame con Napoleone. La detta Pace prevedeva la restituzione delle Isole Maltesi ai Cavalieri di San Giovanni, ma gli inglesi, di fatto, non cessarono il proprio stato di occupazione.

Allontanatosi da Palermo, si poneva il problema di come governare il Regno. Ferdinando non vuole tornare più alla pratica settecentesca dei Viceré, al contempo “quasi” capo di stato e capo di governo. Volle esercitare questa volta personalmente, anche se da lontano, le funzioni di Capo di Stato, senza l’alter ego del viceré, un po’ come tanti secoli prima aveva fatto Alfonso il Magnanimo. Ma la Sicilia aveva il proprio Stato e il proprio governo, in tutto distinti da Napoli. Quindi creò un Governo dell’Isola, il Governo della Luogotenenza. Il Luogotenente durò in questa prima fase solo 3 anni (1803-06), e poté sembrare un espediente transitorio. Ma in realtà c’era una logica dietro. Da un lato i luogotenenti erano la continuazione del viceregno, e come i viceré guidavano il governo siciliano, ed erano soggetti al controllo parlamentare. Anzi, per certi versi, il Parlamento era ora assai rafforzato, e il suo controllo assai più stretto. Per altro verso però non era più “viceré proprietario”, non aveva più quindi la facoltà di svolgere funzioni sovrane finché non fosse intervenuto il sovrano in persona. Nel Settecento i Viceré avevano fatto anche piccoli trattati con il Bey di Tunisi, ad esempio. In questo caso il Re, da Napoli, voleva gestire anche un regno ormai di fatto indipendente. Il malumore e la delusione dei Siciliani che avevano sopportato il costo dell’esilio e della riconquista di Napoli erano palpabili.

Il Regno di Napoli, e la Sicilia al traino, sono coinvolti nuovamente nella Guerra della III Coalizione, nel 1805, contro quello che ormai era diventato l’impero napoleonico. Nel 1806, di nuovo, la Corte è in fuga a Palermo e questa volta la fuga sembra definitiva. Per inciso ricordiamo che pochi giorni prima di questa fuga l’Accademia Nazionale di Palermo aveva finalmente ottenuto il tanto agognato titolo di Università degli studi. Il Regno di Napoli è ora interamente occupato dalla Francia, e affidato al fratello maggiore di Napoleone, Giuseppe. Due anni dopo (1808) Giuseppe Bonaparte diventa re di Spagna; Napoli è data invece al cognato di Napoleone: Gioacchino Murat.

Murat si proclama “Re delle Due Sicilie”, naturalmente, rivendicando anche la Sicilia, che considera nient’altro che una pertinenza di Napoli, ma resta solo re di Napoli. Ferdinando, protetto dalla flotta britannica, si era invece rifugiato in Sicilia dove è solo un re costituzionale. Ma impone il proprio ministero e la propria corte ai Siciliani, tutti napoletani fuoriusciti. I Siciliani si trovano nella stranissima condizione di essere ritornati indipendenti anche in politica estera, dopo quattro secoli di viceregno, ma nello stesso tempo ad avere un governo tutto di napoletani, alieni e ostili ai Siciliani stessi. Unica tutela il Parlamento, e in parte la Deputazione del Regno, ai quali vengono chiesti sacrifici crescenti, ai limiti della capacità di sopportazione. In politica estera la Sicilia deve accettare risorse e difesa dal Regno Unito, che mette il Regno sotto la propria protezione politica, potendo anche intromettersi parzialmente negli affari interni: gli Inglesi davano sussidi al governo siciliano, ma questo in cambio doveva tenere aperti e franchi tutti i porti siciliani al commercio inglese, e ospitare un corpo di 10.000 soldati britannici. La Sicilia avrebbe partecipato attivamente, da alleata della Gran Bretagna, a tutte le restanti guerre di coalizione contro Napoleone (dalla “IV” alla “VII”), condividendone le sconfitte e le vittorie. Plenipotenziario del Regno Unito e Capitano generale del Regno di Sicilia è Lord Bentink, il quale simpatizza per il partito parlamentare e per il filo-anglicismo ormai diffuso un po’ in tutta la classe dirigente isolana. Il Parlamento del 1806 approva il riordino dei pesi e misure in uso nel Regno che, lasciati a sé stessi dai tempi di Federico Imperatore, erano andati incontro ad una grande incertezza, con piccole differenze soprattutto tra Palermo e Messina, e impone il passaggio dal latino all’italiano negli atti notarili. La Suprema Deputazione dei Pesi e delle Misure, allo scopo costituita, si dotò dell’apporto di valenti scienziati, grazie ai quali fu licenziato, nel 1809, il Sistema Metrico Siculo, che sarebbe giunto all’Unità d’Italia, e anche oltre nell’uso comune. Tra questi scienziati il Piazzi, cui si doveva la scoperta (1801) del primo pianetino dall’Osservatorio astronomico di Palermo, dedicato in onore alla protettrice pagana della Sicilia a Cerere e tuttora così chiamato (da qualche tempo “promosso” da “asteroide” a “pianeta nano” insieme a Plutone e ad altri elementi del Sistema Solare).

  • 8 – La grande stagione costituzionale del 1812

Il Parlamento del 1810 è ancora un Parlamento di Antico Regime, eletto con le antiche regole del Vespro. Ma lo spirito è già nuovo. Vengono votati altri sacrifici finanziari, enormi, nella guerra per la vita contro Napoleone. La Sicilia in qualche modo beneficiò del Blocco Continentale. I prezzi delle derrate agricole salirono, facendo la fortuna dell’agricoltura siciliana. Nondimeno la guerra imponeva grandi sacrifici. Tra le riforme del 1810 l’introduzione della lingua italiana come lingua ufficiale, con la previsione di una codificazione delle leggi (sul modello francese quindi, questa volta) che sostituisse definitivamente il latino come lingua giuridica. Già una decina d’anni prima le due università del regno avevano abbandonato il latino come lingua didattica a favore dell’italiano. L’élite siciliana preferì l’italiano al siciliano come lingua nazionale, nonostante ci fosse e ci fosse stato un risveglio linguistico nazionale siciliano proprio in quegli anni. Non era una scelta politica “per l’Italia”, che ai tempi neanche esisteva come idea, ma una scelta culturale, di appartenenza ad una vasta area linguistica, nel timore – come scrisse l’Aceto – che la scelta del Siciliano avrebbe “isolato” la Sicilia. Con il senno di poi questa scelta si sarebbe rivelata poco coraggiosa e l’anticamera dell’annessione all’Italia, ma ai tempi nessuno poteva prevederlo e tutta la letteratura coeva parla sistematicamente e soltanto di “Nazione Siciliana”, seppure concepita come una nazione di lingua italiana. Nel Parlamento del 1810 la Corona ormai trovava un’opposizione ferma. Si impose di distinguere i donativi per “capitoli” di entrata, in modo che non ci fosse confusione nell’amministrazione finanziaria ed eccessi nella riscossione. Il Governo, che aveva chiesto maggiori donativi, prese questo come un affronto intollerabile. Ma la Sicilia stava solo resistendo al saccheggio di tutte le proprie risorse da destinare ad una conquista, quella del Regno di Napoli, che se fosse riuscita sarebbe stata fatale per la Sicilia stessa, come poi effettivamente fu. Per decidere come distribuire il donativo il Parlamento del 1810 fu riconvocato a pochi mesi di distanza. Con pressioni di ogni tipo il Parlamento fu piegato alle esigenze della Corona.

La piega che presero gli eventi bellici fece propendere il Governo per chiedere ulteriori esazioni fiscali senza passare per il Parlamento, già nel 1811. Naturalmente lo strappo non passò inosservato e ci fu una rimostranza da parte di 43 baroni parlamentari, perché mai da secoli si era imposta una tassa senza ricorrere al Parlamento. La Deputazione del Regno, ormai controllata dal governo in maniera poliziesca, interpellata, diede servilmente ragione alla Corona. La risposta del Re fu la deportazione dei capi del partito parlamentare nelle piccole isole. In pratica era la revoca della Costituzione del Vespro. Sotto la veste dei Borbone, gli Angioini sembravano tornati in Sicilia.

La Gran Bretagna, in quel momento liberale, anche perché avvertì un clima di disordini, nonché la minaccia di aprire i porti siciliani alle armate francesi, non poteva stare a guardare inerme il colpo di stato di re Ferdinando e decise di intervenire. Lord Bentink impose a re Ferdinando di nominare vicario il figlio Francesco e a rinserrarsi, quasi prigioniero, al Bosco della Ficuzza, mentre i capi del partito parlamentare venivano liberati e venivano emessi provvedimenti liberali da un governo finalmente siciliano. Aprirono i giornali, la Sicilia si apriva alla libertà di stampa e di pensiero. Il cuore dell’ordinamento costituzionale di cui godeva da secoli stava maturando finalmente verso una forma di stato libera e moderna.

È convocato un Parlamento straordinario, l’ultimo eletto con le regole del Vespro a tre Bracci, ma questa volta con funzioni costituenti, per adattare ai tempi la Costituzione Siciliana. I Comuni demaniali, fino ad allora docili strumenti del Governo, si ribellano, e decidono di inviare in Parlamento i loro deputati. Il pretore (sindaco) di Palermo è sfiduciato dal Consiglio Civico, che si riappropria dei suoi diritti e ne elegge uno nuovo. Il clima era rivoluzionario, ma di una rivoluzione pacifica, che si svolgeva tutta nei binari della legalità, semmai violata dagli abusi del Borbone.

Il Parlamento del 1812 è quindi un’assemblea costituente. I tre Bracci, aperti solennemente dal Vicario Francesco, siedono in pompa magna come nel passato, ma si attivano subito in una febbrile attività legislativa che non ha pari nel tempo. Dietro una bozza buttata giù dall’Abate Balsamo, la Sicilia si dà la prima costituzione moderna.

Si è detto che fu ricalcata su quella inglese, ma ciò è vero solo fino a un certo punto. In Inghilterra la riforma elettorale che estese a tutti i comuni il diritto di mandare rappresentanti alla Camera dei Comuni è solo del 1832. La Sicilia anticipa questo già vent’anni prima. Tutti i cittadini dotati di una piccola rendita o che sappiano leggere e scrivere eleggono i loro rappresentanti alla Camera dei Comuni, per Comune e per Distretto. La Sicilia è divisa in 23 distretti in cui sono consorziati tutti i Comuni dell’Isola (tranne le piccole isole che hanno un’amministrazione separata). I diritti feudali sono aboliti, e le terre feudali trasformate in proprietà privata (si usa ancora il termine medievale di beni allodiali). Il grande stato feudale di Modica, tra gli altri, cessa di esistere, e il Distretto omonimo è solo uno tra gli altri, con confini praticamente uguali alla successiva “Provincia di Ragusa”. Tutti i comuni hanno il loro Consiglio civico elettivo e il loro “magistrato” esecutivo elettivo. Sono garantite tutte le libertà fondamentali, tra cui fondamentale la libertà di stampa. Non è però introdotta la libertà di culto. Tra le basi della Costituzioni, al primo punto, è stabilito che la sola religione ammessa era la “cattolica apostolica romana”, intendendosi quindi che le comunità di altre religioni presenti in Sicilia potessero solo essere tollerate tra residenti “non regnicoli” (ebrei e protestanti, essenzialmente). La magistratura è resa del tutto indipendente dal potere esecutivo e dal potere legislativo. Il potere esecutivo e il comando delle truppe è riservato al re, ma dietro fiducia parlamentare. Il re conserva diritto di veto sulla legislazione parlamentare. I Bracci ecclesiastico e militare, riuniti, sono trasformati in “Camera dei Pari”, questa sì sul modello britannico. La Camera dei Comuni ha un primato su quella dei Pari in materia tributaria e finanziaria. L’eleggibilità passiva è ristretta secondo il censo, ma non è altissima. Anche le due università degli studi (Palermo e Catania) mandano rappresentanti alla Camera dei Comuni. Il re non può costituire nuove parìe se non a favore di regnicoli e in possesso di requisiti di reddito molto elevati. Il re non può allontanarsi dal Regno senza il permesso del Parlamento e non può assumere altra corona se non rinunciando a quella siciliana.

In breve, nella Costituzione del 1812, non abbiamo solo la prima costituzione liberale moderna in un paese di lingua italiana, con la separazione dei poteri e tutte le fondamentali libertà e diritti riconosciuti (abrogando fra l’altro implicitamente anche la schiavitù, di cui in verità erano rimaste pochissime tracce, ed esplicitamente ogni servitù o vassallaggio feudale); abbiamo anche l’autonomia di tutti i comuni, il decentramento, per mezzo dei Distretti, l’abolizione del feudalesimo introdotto dai Normanni (con alcuni residui, che sarebbero scomparsi nei decenni successivi), l’introduzione dell’obbligo di istruzione elementare esteso a tutti i cittadini (non fu scritto da nessuna parte che da questo obbligo fossero escluse le cittadine di sesso femminile, ancorché escluse ancora dai diritti politici), affinché potessero al più presto diventare tutti elettori della Camera dei Comuni, fu proclamata soprattutto la perpetua indipendenza del Regno.

Mai, dai tempi di re Ruggero II, la Sicilia aveva ottenuto un traguardo più ampio. Nel 1813 furono tenute nuove elezioni secondo la nuova Costituzione. Purtroppo la Sicilia si ritrovò ad avere di colpo un ordinamento liberale appena uscita dal feudalesimo, e forse la Gran Bretagna avrebbe dovuto guidare un po’ più da presso quel processo che aveva contribuito a creare. E invece si occupò solo dei propri interessi e lasciò la giovane democrazia al proprio destino. E questo fu un dilaniarsi tra i partiti di nuova istituzione. La Camera dei Comuni fu egemonizzata da una maggioranza di centro (i cosiddetti cronici dal nome di un giornale palermitano), tra una destra reazionaria filoborbonica e una forte sinistra dei democratici di Rossi (i cosiddetti anticronici), quasi repubblicana, di composizione borghese e espressione dei ceti emergenti catanesi e messinesi, che giudicava insufficienti le riforme costituzionali. La maggioranza era poi composta al suo interno da un prevalente partito di centro-sinistra (rappresentato dal leader più rappresentativo di quest’epoca, il Principe di Castelnuovo) e da un recalcitrante centro-destra (che accettava la riforma ma voleva ritornare di più alla Costituzione precedente, o salvarne il salvabile, come il maggiorascato nella successione delle proprietà, il fedecommesso, o la deputazione del Regno). Castelnuovo, per le riforme più coraggiose dovette appoggiarsi alla sinistra, ma in genere fece blocco sociale con il centro-destra del Principe di Belmonte, altro protagonista di questi giorni molto convulsi. Si dice sempre, ingiustamente, che il Parlamento e la Rivoluzione del 1812 sarebbero state esclusivamente “baronali”. Niente di più falso. Il Castelnuovo era sì un aristocratico, come lo era la classe dirigente di quasi tutta l’Europa di allora, ma aveva una stentata maggioranza in Camera dei Comuni, e non l’aveva proprio nella Camera dei Pari, un po’ perché molti prelati di nomina regia erano anticostituzionali, e comunque ostili ad ogni cambiamento, un po’ perché molti pari temporali guardavano con preoccupazione al moto di riforme che travolgeva tutti i loro privilegi. E tutti i membri del partito borbonico furono rigorosamente nobili fedeli alla corona. La fazione borbonica, del resto, non stava a guardare, favorendo dimostrazioni di plebaglia prezzolata per delegittimare con varie agitazioni le nuove istituzioni parlamentari.

  • 9 – La catastrofe

Il Governo liberale governò in qualche modo tra il 1812 e il 1813. Nel 1813 in Inghilterra salirono al potere i conservatori, meno inclini dei liberali a supportare l’esperimento costituzionale in Sicilia. A questo punto Ferdinando, una volta richiamato il Bentink in Inghilterra, ha campo libero. Esce dalla Ficuzza (1814) e riprende i propri poteri. Scioglie il Parlamento e ne guida una rielezione che gli dà una maggioranza favorevole, certamente con mezzi non costituzionali. In questo modo si dota di un ministero siciliano solo di nome, ma già preordinato a schiacciare ogni libertà in Sicilia.

E tuttavia l’opposizione poté sopravvivere almeno fino ai primi del 1815, mentre, ad uno ad uno i progressi della Rivoluzione del 1812 venivano ridimensionati dal nuovo ministero reazionario.
La causa non sembrava ancora persa. Napoleone era stato sconfitto a Lipsia (1814) e confinato all’Elba. Murat cerca di riciclarsi con i vincitori. La situazione è alquanto confusa. Sembra che possa restare a Napoli mentre Ferdinando sembrava destinato a restare re costituzionale in Sicilia (magari con un regno un po’ più autoritario) sotto la protezione britannica. Ma i “Cento Giorni” di Napoleone portano Murat a schierarsi con il cognato. Invade il Nord, a Rimini fa un “proclama agli italiani” in chiave antiaustriaca, a seguito del quale troverà la sconfitta e infine la morte. Le potenze, già sedute a Vienna nel celebre Congresso ritengono sia venuto il momento di restituire il Regno di Napoli ai Borbone.

Già con il Trattato di Parigi, dopo la prima sconfitta di Napoleone, Ferdinando aveva dovuto assistere inerme al dono all’Inghilterra delle Isole Maltesi (1814) per far togliere loro il veto su un suo ritorno a Napoli. L’Inghilterra fu paga di questo scambio (le Isole erano occupate dagli Inglesi dal 1800, ma formalmente appartenevano ancora al Regno di Sicilia e, sconfitto Napoleone, le avrebbero dovute rilasciare). La Sicilia, come primo premio per aver sconfitto Napoleone, veniva intanto mutilata territorialmente. A Vienna Ferdinando è reintegrato nel regno di Napoli, ma il Medici insiste che sia scritto non “Re delle Due Sicilie” come era stato nel Settecento, ma “Re del Regno delle Due Sicilie”, con apparente pleonasmo. Le potenze non comprendono bene questa insistenza, peraltro incoerente con la successiva “reintegrazione di Ferdinando IV nel Regno di Napoli” prevista nello stesso trattato; ma nessuno fa caso al dettaglio. E invece questo dettaglio sarebbe stato usato da Napoli per distruggere il Regno di Sicilia e annetterlo a quello di Napoli sotto la finzione della fusione tra le due corone.

Nel 1814, intanto, il Parlamento è sciolto e, in elezioni del tutto truccate, ne viene rieletto uno composto quasi esclusivamente da persone fedeli al re incaricate di paralizzarne il funzionamento. L’anno successivo Ferdinando torna a Napoli, violando la Costituzione che glielo impediva, e lascia nuovamente il figlio Francesco come luogotenente. Seguono, uno dopo l’altro, provvedimenti liberticidi. I Comuni sono sciolti e commissariati, così come i Distretti. I giornali sono chiusi. Gli oppositori incarcerati. Una dopo l’altra le libertà e i simboli del Regno sono distrutti, dietro solo qualche modestissimo rimbrotto da parte degli inglesi. I pochi oppositori al ministero reazionario che erano riusciti a farsi eleggere nel Parlamento del 1814, insultati pubblicamente, e impossibilitati a intervenire in Parlamento, coperti dalle urla e dalle ingiurie degli “squadristi” (ante litteram) del partito borbonico. Alla fine il Parlamento è definitivamente sciolto. E tuttavia, persino con questo Parlamento collaborazionista, si erano approvate le manovre finanziarie fino allo scadere dell’anno indizionale 1815-16. Dal settembre 1816 ogni manovra finanziaria del Governo non avrebbe avuto più alcuna copertura costituzionale. Il Governo prometteva di riconvocare un Parlamento per questa ragione, ma si guardò bene dal farlo.

Chiese ai Comuni siciliani di firmare una petizione per abolire la Costituzione del 1812. I Consigli civici, tranne Messina che covava vecchi odi antipalermitani, si rifiutarono di aderire. Un comune solo su centinaia sarebbe stato un fallimento troppo clamoroso. L’idea fu così accantonata. Nel frattempo furono fuse le marine e gli eserciti, abbattuti dappertutto i vessilli secolari del Regno, con le aquile fridericiane, sostituite dappertutto con quegli odiati gigli borbonici che ricordavano sin troppo quelli angioini di secoli prima. Gli appelli degli intellettuali e degli aristocratici siciliani all’Inghilterra caddero praticamente nel vuoto.

Alla fine, inevitabile, arrivò la catastrofe. Con decreto dell’8 dicembre 1816 (e poi con una legge dell’11 successivo) re Ferdinando assunse la corona di “Re delle Due Sicilie” con il titolo di Ferdinando I. La Sicilia, come premio per aver vinto le guerre napoleoniche, era annessa a un paese sconfitto, il Regno di Napoli, mantenendo solo per il momento tutta la propria amministrazione separata sotto un governo di Luogotenenza.

Per “finta”, nella legge dell’11 dicembre successivo, si scrisse che ogni ulteriore tassazione sulla Sicilia sarebbe stata preceduta dall’approvazione della stessa da parte del Parlamento siciliano (quale? eletto con quale Costituzione?). In una corrispondenza privata il Ruffo confessò che il passaggio sul Parlamento di Sicilia in questa legge era stato messo solo per dare una parvenza di legittimità costituzionale di fronte all’opinione pubblica internazionale, e in particolare di fronte alla debolissima, e un po’ ipocrita, difesa inglese delle ragioni della Sicilia.

La cruda realtà era che, dopo 8 secoli circa (forse 10 se contiamo anche l’emirato), la Sicilia non aveva più il proprio Stato, pieno soggetto di diritto pubblico internazionale, ed era stato sciolto il Parlamento più antico del mondo.

Cronologia politica:

1700-1713 Filippo IV (V di Spagna)

Viceré:

1700-1701 Pietro Colon, duca di Veraguas (in continuità)

1701-1702 Giovanni Emanuele Fernandez Paceco, duca di Ascalona

1702-1705 Card. Francesco del Giudice, arciv. di Morreale, viceré ad interim

1705-1707 Isidoro de la Cueva Benavides, m.se di Bedmar

1707-1713 Carlo Antonio Spinola, m.se di Los Balbases

1713-1718 Vittorio Amedeo Savoia

1713-1714 dominio diretto di Vittorio Amedeo

1714-1718 Viceré: c.te Annibale Maffei

1718-1720 Filippo IV (V di Spagna, di nuovo)

1718-1720 Viceré: Giovan Francesco de Bette, m.se di Lede, nominato ufficialmente nel 1719

1720-1734 Carlo III Asburgo-Austria (VI come S.R..I)

Viceré:

1720-1722 Nicola Pignatelli, duca di Monteleone, già viceré dal 1719 sui territori conquistati

1722-1728 Gioacchino Fernandez Portocarrero, m.se di Almenara

1728-1734 Cristofaro Fernandez de Cordova, conte di Sastago

1734-1759 Carlo III

Viceré:

1734 Giuseppe Cartillo Albornoz, c.te di Montemar

1734-1735 Pietro de Castro Figueroa, m.se di grazia reale, presidente

1735 dominio diretto di Carlo III

1735-1737 Pietro de Castro Figueroa, m.se di grazia reale, presidente, di nuovo

1737-1747 Bartolomeo Corsini, p.pe di Sismano

1747-1754 Eustachio duca di Laviefuille

1754-1755 Giuseppe Grimau Corbera, presidente

1755 Marcello Papiniano Cusani, arciv. di Palermo, presidente

1755-1759 Giovanni Fogliani di Aragona, m.se di Pellegrino

1759-1816 Ferdinando III (sotto il Consiglio di Reggenza fino al 1767) Viceré:

1759-1773 Giovanni Fogliani di Aragona, m.se di Pellegrino, in continuità, sostituito temporaneamente da: 1768 Egidio Pietrasanta, p.pe di S. Pietro, presidente 1773-1774 Mons. Serafino Filangeri, arciv. di Palermo, governo provvisorio a Palermo e viceré Fogliani a Messina

1774 Serafino Filangeri, arciv. di Palermo, presidente

1774-1781 Marcantonio Colonna, p.pe di Alliano, sostituito temporaneamente da:1778 Antonio Cortada Bru

1781-1786 Domenico Caracciolo, m.se di Villamaina, sostituito temporaneamente da: 1784 Card. Francesco Ferdinando Sanseverino, Arciv. di Palermo, presidente

1786 Gioacchino de Fonsdeviela, presidente

1786-1794 Francesco d’Aquino, p.pe di Caramanico

1794-1798 Filippo Lopez Y Rojo, presidente

1798 Tommaso Firrao, principe di Luzzi

1798-1802 Governo diretto del re

1802-1803 Domenico Pignatelli, presidente

1803-1806 Alessandro Filangeri, p.pe di Cutò, luogotenente

1806-1812 Governo diretto del re

1812-1813 Vicariato del p.pe Francesco

1813-1815 Governo diretto del re

1815-1816 P.pe Francesco Borbone, luogotenente 1816 Nicolò Filangieri, p.pe di Cutò

 

 

 

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