Sicilia e Spagna: due secoli di un rapporto altalenante

Nel 1500 e nel 1600 la Sicilia era in unione personale con la Spagna. Formalmente un regno indipendente, nella sostanza sotto l’egemonia del “grande fratello” iberico. La politica e le istituzioni di questo periodo sono quelle di un paese a sé, tutt’altro che emarginato o “colonizzato”. Certo, nelle fasi finali, l’egemonia spagnola tentò di trasformarsi in qualcosa di più stringente, ma il Regno di Sicilia, stretto intorno al suo Parlamento, seppe sempre difendere le proprie prerogative. E poi erano tempi duri: c’era il “Turco” alle porte…

 

Capitolo 5: La Dinastia Asburgo

 

  • 1 – La Sicilia inserita nei domini dove “non tramonta mai il Sole” di Carlo V (I di Sicilia e Spagna)

La morte di Ferdinando II segnò l’inserimento della Sicilia, con i suoi ordinamenti interni praticamente immutati, in una formazione politica universale dai confini sterminati. Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, infatti, avevano avuto come erede soltanto la figlia Giovanna, detta “La Pazza”, sposata con Filippo d’Asburgo (che, essendo arrivato a regnare per breve tempo sulla sola Castiglia, passerà alla storia come Filippo I di Spagna), detto “Il Bello”. Filippo apparteneva ad una dinastia tedesca, gli Asburgo, che poco a poco aveva acquistato una serie di domini feudali dinastici complessivamente conosciuti come Austria (in realtà l’arciducato d’Austria era solo il nucleo centrale di questi possedimenti) e la corona di Sacro Romano Imperatore, nel tempo molto indebolita e ridotta a una sorta di confederazione tra gli stati tedeschi, e quindi a una “presidenza elettiva” tra questi. Ma, nondimeno, ancora il potere centrale dell’Impero non era del tutto svanito, e Filippo il Bello per parte di padre ereditava la corona imperiale con l’Austria e i suoi possedimenti dinastici, tra cui Boemia e Ungheria, per parte di madre l’eredità “borgognona”, cioè un gruppo di altri ricchissimi stati dell’Ovest dell’Impero, comprendenti gli odierni Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo e la Franca Contea un po’ più a sud. Filippo il Bello però morì prima del suocero, e lasciò tutti i suoi possedimenti, oltre alla Castiglia, con le colonie americane, al figlio Carlo, il quale, alla morte di nonno Ferdinando, ereditò pure le corone catalane, la Sicilia, la Sardegna e il Regno di Napoli, cui si sarebbe aggiunto nel tempo il Ducato di Milano, acquisito nel 1535; più tardi, già dopo il lungo regno di Carlo, nel 1557, a queste corone si sarebbe unito  infine il piccolo stato toscano detto “dei Presìdi”, nato dallo smembramento, tra Spagnoli e i Medici di Firenze, dell’antica Repubblica di Siena.

Carlo V (come Sacro Romano Imperatore) si trovava quindi non solo ad ereditare la Corona ormai molto indebolita che era stata dei Cesari e poi di Carlo Magno, ma di fatto ad essere signore di un impero universale che arrivava al Cile e che includeva mezza Europa. In suo nome la spedizione di Magellano fece la prima circumnavigazione del mondo. Fu un imperatore itinerante, il quarto imperatore d’Occidente a regnare “anche” sul Regno di Sicilia (dopo i tre Hohenstaufen Enrico VI, Federico II e Corrado IV), molto attento a tenere conto delle specificità infinite dei suoi molteplici domini.

La storia dell’Impero di Carlo, “su cui non tramontava mai il sole”, non è riprendibile in questa sede. Basti dire che, sotto il suo dominio, fu costruito il grande impero coloniale nelle Americhe, sulle rovine degli imperi Azteco e Inca, e che, in Europa, fu preso da continue guerre su tre fronti: il Mediterraneo e l’Ungheria, dove doveva arrestare l’avanzata ottomana; la Germania, dove dovette barcamenarsi con la Riforma protestante di Lutero e la rivolta dei principi che aderirono alla stessa; la Francia di Francesco I, che costituì sempre il suo principale nemico. In questo quadro la piccola Sicilia, a parte mai dome pulsioni indipendentiste nelle sue élite, finisce per inquadrarsi con lealtà alla nuova dinastia nel ruolo di “antemurale” della Cristianità contro il “turco”, in una vera lotta per la sopravvivenza, e infine nel ruolo di provincia del grande “impero cattolico”, contro le nuove “eresie” protestanti che pure non mancarono di penetrare in Sicilia.

 

  • 2 – Tra pulsioni indipendentiste e minacce dei Turchi

Per quanto possa sembrare incredibile re Carlo I (come re di Sicilia) trovò il tempo di occuparsi anche del piccolo stato insulare.

Gli inizi del suo regno furono segnati da una generalizzata rivolta, chiamata un po’ esageratamente “Nuovo Vespro”, in cui il Viceré Moncada fu cacciato in malo modo da Palermo e dovette rifugiarsi a Messina, mentre la Sicilia si dotava di un governo provvisorio. L’occasione era dovuta al fatto che ancora l’ordinamento costituzionale della Sicilia non stabiliva chiaramente la prosecuzione in continuità del mandato viceregio alla morte del re, e al fatto che il Moncada simulò un vero e proprio falso ideologico con una falsa cedola di investitura. Ma nella sostanza c’era un conflitto reale tra la società siciliana nel suo complesso, non solo nelle componenti aristocratiche, e il malvisto viceré. Tant’è che dopo essere fuggito dallo Steri (ancora Palazzo Viceregio), tutte le città della Sicilia seguirono il governo rivoluzionario di Palermo, che affidò a due nobili la “Presidenza del Regno”. Solo Messina, in odio a Palermo, lo accolse con tutti gli onori, ma la sua autorità non arrivava neanche a Milazzo o Taormina. Durante questa fuga avvenne una rivolta a Messina, che costrinse il Comune ad aprire il Senato municipale, prima del tutto ristretto alla classe nobiliare (in gran parte il ceto mercantile nobilitato di quella “repubblica marinara”), a due “cittadini”, cioè esponenti della borghesia benestante. La riforma fu permanente.

Temendo lo spirito ribelle dei Siciliani, il giovane Carlo venne loro incontro, convocò a Bruxelles tanto il Moncada quanto i “Presidenti” (i marchesi di Licodia e di Geraci), e li depose entrambi, annullando tutti gli atti compiuti da questi ultimi come illegittimi, ma senza punirli, e annullando tutte le esenzioni da gabelle e donativi che, nei torbidi, tanto loro quanto il viceré avevano concesso danneggiando l’erario regio. A Carlo riuscì abbastanza facilmente ristabilire l’ordine con un nuovo governatore, non avendo al momento la piccola Sicilia alcuna reale alternativa di dotarsi di re proprio, e accontentandosi che almeno finisse l’arbitrio e l’estremo malgoverno del cessato viceré. Da notare che, per qualche tempo, non ristabilì la carica piena di “Viceré” proprietario ma si limitò a nominare Ettore Pignatelli, conte di Monteleone, come Luogotenente (un po’ come i primi viceré alfonsini), quindi con minori poteri, ma poi tornò all’antico, dopo che questi sedò la rivolta dello Squarcialupo di cui diremo più sotto. Curiosamente sarebbe stato proprio il Moncada, dopo la cacciata, a rendere tributaria della Sicilia, almeno per qualche tempo, l’Isola di Gerba, con una spedizione fortunata del 1521.

Il regno di Carlo fu segnato all’inizio da una serie di rivolte e congiure dal cuore separatista, sebbene celate sotto il pretesto di restare fedeli alla corona ma pretendendo la rimozione dei viceré o di leggi inique. Il Cinquecento fu nel complesso un secolo di risveglio del nazionalismo siciliano, anche se piuttosto confuso nell’organizzazione politica. Dopo il “Nuovo Vespro” contro il Moncada fu la volta della congiura di Giovan Luca Squarcialupo (1517), più che altro una vendetta nei confronti del “partito” del cessato viceré, con venature libertarie e democratiche, nata dal sospetto che i due “ex” presidenti, trattenuti dal re a Napoli, fossero stati incarcerati o addirittura uccisi. La rivolta fu di per sé assai contraddittoria. Oggetto della stessa, non potendo toccare il re, e neanche il “Luogotenente”, che si limitò ad abbandonare lo Steri e ad essere accompagnato nel più dimesso (allora) vecchio Palazzo Reale, e poi a Messina, fu il massacro quasi integrale dei componenti del Sacro Regio Consiglio, inutile sacrificio di persone dotte ed esperte che tenevano le redini dello Stato, e foriero in ultimo di disordini che spaventarono la popolazione. La rivolta comunque dilagò in altri centri dell’Isola e questo diede allo Squarcialupo l’illusione di potere realizzare una non ben chiara riforma costituzionale. Fu attirato in un’imboscata e ucciso, ma questo non bastava di per sé a sedare il malcontento. Re Carlo fece tornare in Sicilia i due marchesi da Napoli in segno di pacificazione, e riattribuì al Pignatelli il vecchio titolo di “Viceré proprietario”, con delega quindi totale da capo di stato per l’ordinaria e straordinaria amministrazione. Con l’occasione, il Parlamento del 1518 stabilì che alla morte del re il viceré continuasse nelle sue funzioni, perché non si ripetessero i disordini occorsi alla morte di re Ferdinando.

Ciò non bastò a tranquillizzare la Sicilia che assistette di lì a poco ad una vera e propria congiura, apertamente antispagnola, da parte dei Fratelli Imperatore, che per liberare la Sicilia dalla corona di Spagna erano pronti a darla a Francesco I di Francia. La Francia non sembrava molto interessata, ma gli stessi comunque continuarono l’impresa (1523), che comunque fu scoperta, sventata e severamente punita. La Sicilia accettava il re straniero ma, quasi in modo schizofrenico, al contempo non aveva rinunciato ad averne uno proprio o comunque ad avere ordinamenti più liberi. Sarebbe toccato al viceré Pignatelli, nei suoi lunghi diciotto anni di governo, svincolarsi tra queste agitazioni, alle quali si sommarono i secondi “casi di Sciacca” (1529), ma questi – ancora una volta – semplici faide baronali tra i Perollo e i De Luna. I secondi casi però segnano una svolta. Fino ad allora, infatti, i Perollo si erano comportati da veri e propri signori della città demaniale di Sciacca, un po’ come sarebbe accaduto in pieno Trecento. A parte la punizione di entrambe le fazioni, l’intervento del governo valse a ristabilire la legge e l’ordinamento regio nella contrada del Regno più resistente al nuovo ordine dello stato moderno.

Durante il regno di Carlo la Sicilia divenne l’avamposto mediterraneo nella guerra contro gli Ottomani, la cui avanzata nel Nordafrica e nei Balcani sembrava inarrestabile. La costa della Sicilia, nel frattempo, sarebbe stata guarnita di torrette di avvistamento dei pirati barbareschi, soprattutto sotto il viceregnato del Vega (dopo il 1547, ma già il predecessore Gonzaga aveva rifatto molte fortificazioni urbane, almeno dal 1530) ed è notevole che i Parlamenti non lesinarono risorse per questa esigenza vitale del Regno, nonostante le ridotte disponibilità economiche del Paese. Nel 1530 Malta e l’avamposto di Tripoli, difficile da mantenere per le esangui casse dello Stato siciliano, furono dati in feudo all’Ordine Ospitaliero Gerosolimitano di S. Giovanni (quelli che poi sarebbero rimasti noti come i “Cavalieri di Malta”). Questi erano approdati nel 1523 a Messina, dopo essere stati scacciati da Rodi dagli Ottomani. La concessione di Malta ai Cavalieri formalmente non cambiava la natura di feudo a quella che per secoli era stata una delle tante contee (ora marchesato) del Regno di Sicilia. Di fatto, però, i Cavalieri, avendo personalità di diritto internazionale, iniziarono a comportarsi quasi come un paese indipendente, limitandosi a riconoscere le leggi e gli stretti obblighi feudali nei confronti del Regno di Sicilia. Furono esentati dal versare tributi al Regno, sdebitandosi – per così dire – con la difesa militare dei mari siciliani. Ma questo fece uscire Malta dal Parlamento di Sicilia e allentò oggettivamente i legami con la Sicilia stessa. Anche se ne mantennero l’unità monetaria, i Cavalieri coniavano tarì e grani (la stessa moneta in circolazione in Sicilia) in maniera autonoma, unico stato feudale in Sicilia ad avere questo privilegio. Con il senno di poi, questo avrebbe determinato la progressiva perdita di Malta per la Sicilia, ma allora tutto ciò non era affatto chiaro. Già nella seconda metà del Seicento ci sarebbero stati scontri diplomatici tra la Sicilia e Malta, quasi come se fossero due stati separati. Il Viceré, ad ogni modo, riceveva ogni anno un falcone dall’Ordine di Malta, in segno di vassallaggio, e inviava un “Uomo del Re”, a metà tra l’ambasciatore e il commissario regio nell’Isola. C’è anche da dire che l’affidamento di Tripoli ai Cavalieri di Malta non impedì che nel 1551 gli Ottomani non li cacciassero da questa città. Nel 1532 si dovette tenere un Parlamento straordinario per il timore che Solimano il Magnifico stesse per invadere la Sicilia, la cui flotta contava allora soltanto quattro galee. E altri ne seguirono, con alcuni donativi straordinari, per l’altrettanto straordinaria difesa del Regno.

Carlo espugnò la Tunisia (1535), da cui scacciò il corsaro ottomano Barbarossa, anche con l’aiuto della flotta siciliana, e la trasformò per un certo tempo (fino al 1575) in un protettorato tributario della Spagna, mentre Tripoli restò una fortezza avanzata affidata alla difesa del Regno di Sicilia (“subappaltata” – come visto – ai Cavalieri di Malta).

Di ritorno dalla Tunisia Carlo tenne personalmente Parlamento in Sicilia, facendosi incoronare a Palermo, lusingando così l’antica aspirazione dei Siciliani di avere tra loro un re. C’è da notare che in quel Parlamento, per la prima volta nella storia, il discorso del re (tenuto per bocca del protonotaro) fu tenuto in “Lingua toscana”, resa necessaria per la semplificazione richiesta dalla cancelleria imperiale. Da allora la Sicilia “amministrativa” volse rapidamente verso l’italiano, e la letteratura stessa si fece trilingue, con un lento regresso del siciliano e del latino da un lato, e un lento progresso della lingua italiana, che sarebbe durato tre secoli. L’italiano scritto in Sicilia, tuttavia, fino alla fine del XVI secolo sarebbe stato assai incerto ed approssimativo.

Sotto il re-imperatore Carlo la Camera reginale cessò di appartenere per davvero alle regine, e tornò all’erario, che però ne mantenne un’amministrazione separata, che – come tutte le altre istituzioni del Regno – sarebbe durata fino al 1819, quando fu sciolta dalla nuova legislazione delle Due Sicilie. Altra innovazione, dovuta al viceré Gonzaga in uno dei suoi brevi ritorni dalle tante assenze dal Regno, fu la costituzione delle Compagnie d’Arme a cavallo per difendere le campagne dal brigantaggio, che sotto la debole presidenza del Cardona aveva preso ad infestarle. Questa polizia rurale sarebbe stata destinata a sopravvivere secoli, ben oltre l’Unità d’Italia.

Carlo rispettò la Costituzione siciliana del Vespro e giurò fedeltà alle Costituzioni e Capitoli del Regno, come tutti i suoi predecessori. Durante il suo regno, con regolarità, ogni 3 anni si teneva il General Parlamento, e veniva o accordata la proroga triennale al viceré o ne veniva nominato uno nuovo. Venivano donati gli ordinari 300.000 fiorini allo Stato (formalmente al re) e 5.000 fiorini al Viceré. Ricordiamo che un fiorino era un quinto di onza siciliana (l’unità di conto del Regno), e quindi il donativo che si stabilizzò su quella cifra, e che intorno agli anni ’30 divenne ordinario, era pari alla cifra, invero modesta, di 60.000 onze (più le 1.000 per il viceré). L’inflazione dovuta all’afflusso di argento dalle Americhe rendeva nel tempo sempre più irrisoria questa somma. Le finanze del Regno, sotto Carlo imperatore, furono sempre al limite delle forze della società siciliana, anche per il continuo e sovrumano sforzo difensivo che lo Stato doveva sostenere. In più di un’occasione, non bastando i donativi, i parlamenti operarono su rafforzamenti transitori delle gabelle di esportazione, o di loro vendita transitoria ad appaltatori in cambio di denaro fresco. La funzione del Parlamento non fu peraltro simbolica. Le richieste, ordinarie o straordinarie, erano davvero negoziate tra il Viceré e le tre Camere, e qualche volta, sia pure tra molte scuse ufficiali, queste ricusarono il contributo se insostenibile. Per contro il re accordava quasi tutte le “grazie” concesse, sotto forma di leggi capitolari; in realtà era una negoziazione positiva, giacché la difesa del Regno era un interesse comune e reale tra Corona e Regno e, dopo i torbidi iniziali di cui si è detto, Carlo non ebbe nulla a temere dalla Sicilia.

Il regno di Carlo I fu segnato da tre lunghi viceregni: del Pignatelli, di cui abbiamo segnalato i torbidi politici; del Gonzaga, abile, attento, ma spesso assente dal Regno per motivi diplomatici, cui si deve l’avere riportato la sede viceregia nell’antico Palazzo Reale, lasciando lo Steri al Santo Uffizio; e del De Vega, attento a ripristinare l’autorità regia, e quindi inevitabilmente considerato “tirannico”, sebbene si sia mosso in realtà sempre nei binari della costituzionalità, giacché i donativi straordinari furono chiesti sempre previa approvazione del Parlamento. Dei tre l’ultimo fu forse il migliore: a lui si debbono cure sugli ospedali del Regno, il miglioramento delle strade e ponti interni, la fondazione della “Tavola di Palermo” (1551), primo grande banco pubblico siciliano e quarto al mondo, dopo il Monte S. Giorgio di Genova, la “Taula de Canvi” di Barcellona, e il Banco della Prefetia di Trapani, cure sull’amministrazione della giustizia, l’apertura dei Collegi dei Gesuiti nelle principali città, veri “licei” del tempo (ma quello “maggiore” di Palermo rilasciava lauree in teologia e filosofia, quindi assimilabile a un’istituzione universitaria), la fondazione dell’Università degli studi di Messina. Abusò però della tortura e della pena capitale, rendendosi odioso. Per quanto riguarda l’apertura di un banco comunale con funzioni di tesoreria di stato, si ricorda che ciò rivela quanto la Sicilia fosse all’avanguardia nel settore finanziario: nello stesso periodo aprono infatti anche istituti di credito al consumo, quali il Monte di Pietà di Palermo nel 1539, e tre anni dopo analogo istituto a Trapani.

Nel 1551, vista l’insufficienza delle milizie baronali, con una prammatica, creò la “Milizia territoriale”, che si andava a sommare agli altri sistemi difensivi del Regno: la piccola guardia spagnola al seguito del Viceré, le truppe regolari spagnole nelle principali città, le milizie baronali, il sistema di castelli e fortezze. Questa milizia era una sorta di “Guardia nazionale” ante litteram, fatta da borgesi di tutte le città e terre, demaniali e baronali (tranne otto grandi città portuali che provvedevano da sole alla propria difesa, spesso per mezzo delle corporazioni di arti e mestieri cui erano affidate le artiglierie nei bastioni). Chi aveva più di 300 onze di patrimonio poteva arruolarsi in compagnie di cavalieri e non di fanti. La milizia era divisa in una decina di “Sergenzie maggiori”, affidate in genere a comandanti spagnoli, e una cinquantina di compagnie, affidate a capitani siciliani, tra fanteria, cavalleria e corpi speciali. Questo corpo borghese di soldati-lavoratori era malvisto dai baroni, che spesso e inutilmente ne chiesero l’abolizione in Parlamento, perché si contrapponeva alle loro milizie, condotte da aristocratici con al seguito i loro villani, come era stato sin dal Medio Evo, diminuendone il peso politico. Ma vi è anche da dire che molti nobili, ormai disavvezzi al servizio militare, preferivano pagare il cd. “addoamento”, cioè l’equivalente in denaro delle truppe da loro dovute al re, istituzione che risaliva ai Normanni, ma che ora era sempre più in uso. Dal 1528 al 1636 il Regno avrebbe avuto anche un corpo scelto: la “Cavalleria leggera” di 200/300 componenti, per rapidi spostamenti da una parte all’altra dell’Isola, anch’essa osteggiata dal Parlamento, non ultimo per il suo costo, e infine abolita. Nel complesso, quindi, la Sicilia asburgica si era dotata di un sistema militare piuttosto forte, anche se esclusivamente di tipo difensivo (al sistema di truppe, torrette e fortezze, va infatti aggiunta la flotta delle “Galere del Regno”), ma che si rivelò ottimo deterrente per qualsiasi invasione, che fosse ottomana, o di potenze europee nemiche. La Sicilia, come Malta in piccolo, era diventata fortezza inespugnabile.

 

  • 3 – Filippo I (II di Spagna) e le sue riforme

Come noto, nel 1556 Carlo abdicò, separando i domini austriaci (con l’Ungheria) e il Sacro Romano Impero, affidati al fratello Ferdinando, da cui sarebbero discesi gli Asburgo d’Austria, dalla Spagna, con tutte le sue dipendenze borgognone, italiane e coloniali, attribuite al figlio Filippo II. Filippo II di Spagna fu il campione della Controriforma cattolica durante le Guerre di religione del XVI secolo europeo. Dal 1581 fu anche re del Portogallo, ereditando così anche l’altro grande impero coloniale e diventando le “Spagne” (un tentativo, poi non durato a lungo, di creare un’unica formazione politica per l’intera Penisola) la principale potenza mondiale. Pure dovette subire la perdita dei Paesi Bassi settentrionali (l’Olanda), che presto sarebbero diventati una potenza navale e commerciale, in competizione soprattutto con l’impero coloniale portoghese, mal difeso dagli Spagnoli. Nel complesso le sue guerre non furono vittoriose: non contro l’Inghilterra elisabettiana, che affondò la sua “Invencible Armada”, non nelle guerre civili di Francia, dove sui suoi “Guisa” prevalsero i “Borbone”, pur dovendo questi accettare il cattolicesimo, non sul Mediterraneo, dove non riuscì a sconfiggere in maniera definitiva gli Ottomani. Lo Stato di Sicilia era inserito in questo periodo nel grande impero spagnolo e nella sua politica universale, di cui possiamo trascurare ancora una volta i singoli eventi perché rilevanti solo in modo indiretto per la Sicilia.

Ancora una volta, scorrendo gli atti parlamentari si trova che talvolta, in mancanza di fondi, si autorizzavano nuove imposte indirette in sostituzione dei donativi. In ogni caso la Sicilia del secondo Cinquecento fu letteralmente spremuta di donativi per partecipare a guerre che non sempre la riguardavano (come quelle nelle Fiandre) e in condizioni economiche rese sempre più critiche dalla chiusura del Mediterraneo ai grandi traffici commerciali. Filippo nella sostanza recise il legame che doveva essere “perpetuo” della Sicilia con l’Aragona, traslandolo però alla Castiglia, e inserì il Regno all’interno del “Supremo Consiglio d’Italia”, insieme a Napoli, Milano e i Presidi toscani (la Sardegna era invece restata nel Supremo Consiglio d’Aragona, con l’Aragona, la Catalogna, Valenza e Maiorca). Questo non significò certo che la Sicilia fosse diventata geopoliticamente “Italia”, ma che apparteneva ad una delle grandi aree della monarchia composita plurinazionale (c’erano altri supremi consigli: portoghese, delle indie, aragonese, delle Fiandre, …), per l’appunto a quella “italica”.

Del primo viceré di Filippo, il della Cerda, Duca di Medinaceli, si ricorda essenzialmente una spedizione disastrosa in Nordafrica nel 1560, contro Tripoli allora tenuta dal corsaro Dragutte, e il fatto che – forse per esigenze militari – risiedette più a Messina che a Palermo. Deviando dall’assalto su Tripoli girò su Gerba che occupò per qualche tempo, tentando di costruirvi un castello, sconsigliato tanto dal Gran Maestro dell’Ordine di Malta quanto dall’ammiraglio genovese Doria. In sua assenza il Presidente del Regno, timoroso di un assalto ottomano mentre gran parte di flotta e milizia si trovavano inutilmente a Gerba, ricorse ad una grande mobilitazione “medievale” delle milizie baronali, non essendo più sufficienti le difese stabili del Regno. L’avvicinarsi della flotta ottomana determinò il panico e la fuga dall’isola nordafricana, affidata ad un presidio di 5.000 uomini condannati allo sterminio, mentre a stento poche navi riuscirono a mettersi in salvo, prima a Malta e poi in Sicilia. Ci vollero due parlamenti, e nel mezzo un saccheggio ottomano ad Augusta, per ricostruire una flotta di 16 galere del Regno: non più una grande potenza navale mediterranea come ai tempi di re Ruggero, ma certo la più grande di cui la Sicilia avesse disposto da almeno due secoli. Le ristrettezze economiche costrinsero il Senato palermitano a tentare di ridurre il peso del pane, fermo il prezzo, ma questo determinò una rivolta della plebe, sebbene presto sedata. Sotto il suo viceregno, cessata almeno momentaneamente l’ondata delle invasioni, si alleggerì quindi il carico tributario e il Parlamento diede delega al Governo per riformare i tribunali, la cui struttura era ancora quella obsoleta normanno-sveva, con le poche riforme di dinastia Aragona. Ne fu incaricato un esperto spagnolo consigliere del re, ma le relative “prammatiche” (oggi diremmo i “decreti delegati”) sarebbero arrivate anni dopo. Forse non essendo buon militare, fu sostituito dal De Toledo nel 1565.

Appena insediato il nuovo viceré, il nuovo assalto ottomano giunse con il grande assedio di Malta dello stesso 1565, forse il culmine della minaccia turca sulla Sicilia. Assedio che, dopo quattro mesi, vide vittoriose le armi cristiane pur in numero inferiore per il valore militare del Gran Maestro de la Vallette. Nell’assedio morì lo stesso corsaro ottomano Dragutte. Resta inspiegabile tutt’oggi perché il viceré de Toledo tardò moltissimo a inviare la flotta siciliana a difendere quello che in fondo era un suo feudo; di fatto arrivò quando ormai i Turchi erano disperati, i capi già fuggiti, accelerandone soltanto la rotta. Gli Ottomani da allora si sarebbero limitati alla guerra da corsa e ai saccheggi, ma non avrebbero più osato pensare a una conquista della Sicilia. Per fortificare meglio la costa dell’Isola fu costruita la nuova capitale “La Valletta”, in onore dell’eroico difensore, al posto della vecchia città nel cuore di Malta.

Filippo II (I in Sicilia) interessò infine la Sicilia, sempre attraverso le richieste del Parlamento, di una serie di riforme che ne modernizzarono lo Stato in modo significativo, aumentando in genere l’efficienza dell’amministrazione. Tre antiche cariche erano rimaste vuote di contenuto, decadute, e non furono rinnovate: il Grande Ammiraglio, visto che tutta la flotta dipendeva da tempo dal viceré nella qualità di Capitano Generale; il Gran Conestabile, spesso associata alla prima, per la medesima ragione sulle truppe di terra; il Gran Siniscalco, o ministro della real casa, inutile per non essere presente il re nel Regno da secoli. Filippo sapeva che la Sicilia non poteva essere trattata come un possedimento e concesse anche l’amministrazione delle imposte indirette alla potente aristocrazia siciliana, vera arbitra dell’Isola, attraverso il “Tribunale del Real Patrimonio” (1569), che aboliva la vecchia “Curia dei Maestri Razionali”, semplice organo di revisione, e che ora assommava in sé anche l’amministrazione finanziaria attiva, sottraendola del tutto al Viceré (che già non controllava le imposte dirette, attribuite invece alla Deputazione del Regno). Il Presidente del Tribunale del Real Patrimonio sostituì quindi definitivamente la vecchia carica di Gran Camerario, che fu soppressa, o nominalmente attribuita al Presidente del Tribunale del Real Patrimonio. Così come fu soppressa la carica di Gran Cancelliere, sopravvivendo la cancelleria come ufficio amministrativo, ma privo di rilevanza politica, e assunta nominalmente ora dal Presidente del “Tribunale del Concistoro e della Sacra Regia Coscienza”, massima autorità giuridico-amministrativa del Regno. E similmente fu riformata la Gran Corte Civile e Criminale, il cui Presidente sostituì il Gran Giustiziere, di cui però ereditò la funzione di capo provvisorio dello Stato (come “Presidente”) quando il viceré fosse venuto a mancare, e né lui né il re avessero esplicitamente nominato un Presidente del Regno per l’interim (di solito un alto prelato, quasi sempre l’arcivescovo di Palermo). Queste grandi riforme avvennero tutte nel breve viceregno del De Aquino, e cancellarono ciò che restava delle antiche magistrature dell’epoca normanno-sveva all’infuori soltanto del “Protonotaro e logoteta”, che sarebbe rimasto fino alla fine del Regno. Da notare che ora queste massime autorità giudiziarie erano ricoperte da veri giurisperiti, e non più da aristocratici del tutto digiuni di diritto, come era stato per il passato.

Con lui, purtroppo, la Sicilia dovette subire nuove pressioni da parte del papato che non aveva mai digerito l’autonomia ecclesiastica della Sicilia. Pio V tentò di mandare in Sicilia un nunzio apostolico per regolare gli affari ecclesiastici. Re Filippo, pur non potendo attaccare frontalmente il papato di cui era alleato, fece finta di togliere qualche abuso, ma non cedette sui privilegi della corona in materia e non fece pubblicare in Sicilia la bolla pontificia In coena domini. Ne seguì una situazione di grande confusione: il clero secolare (le diocesi) obbediva alla Corona da cui dipendeva, mentre quello regolare (gli ordini monastici) prendeva ordini dai propri superiori a Roma. La questione sarebbe andata avanti per anni, con la sostanziale elusione delle pretese papali. Nel frattempo la successiva caduta del Governo “fantoccio” di Tunisi, filospagnolo, rese la fortezza della Goletta esposta all’avanzata ottomana; benché teoricamente spagnola, toccò alla Sicilia dover dare rinforzi a questo avamposto cristiano al di là dello Stretto di Sicilia.

Dobbiamo infine al De Aquino una certa stabilizzazione nell’amministrazione finanziaria, con l’istituzione dei tre Percettori, uno per ogni Vallo, incaricati di raccogliere i donativi negli ambiti territoriali di competenza e di trasmetterli al Regio erario.

Poco dopo la morte di questo viceré, invece, abbiamo la stabile organizzazione del Tribunale della Regia Monarchia e dell’Apostolica Legazia (1571) per sovrintendere alle responsabilità del re in quanto capo della Chiesa siciliana, ma anche per tentare di ribattere alle pretese papali. Questo istituto sarebbe vissuto ben trecento anni, fino alla soppressione del privilegio di Chiesa autocefala per la Sicilia con la legge italiana delle guarentigie (1871).

La Sicilia agricola conosce in questo secolo e nel successivo una continua espansione. I re spagnoli ottengono fondi dall’aristocrazia siciliana attraverso due canali: la concessione di titoli più alti e le licentiae populandi (cioè le concessioni di costituire nuovi comuni feudali di popolazione). Ormai quasi tutti i feudatari, almeno nei primi livelli di giudizio, detenevano il “mero e misto imperio” (cioè il diritto di esercitare la giustizia civile e criminale), ed erano i supremi arbitri delle loro “università” (cioè dei Comuni insistenti nel loro feudo). I “militi”, antico primo livello della feudalità al tempo dei Normanni, subfeudatari di terre senza autonomia comunale, nel corso del ‘400 erano scomparsi, sostituiti da una pletora di “baroni”, spesso estratti da una piccola borghesia cittadina nobilitata. Molte baronie erano diventate contee (rarissime le viscontee), mentre le contee si andavano trasformando in feudi maggiori (marchesati, ducati, e infine principati). I feudi, però, ormai avevano assunto, come si è già detto per la precedente fase “aragonese”, tutti o quasi la piccola struttura di “Città e terre baronali”, cioè le dimensioni di un Comune. Unica eccezione, vero stato nello stato (oltre al già citato marchesato di Malta, trasformato in Signorìa dei Cavalieri), permaneva la Contea di Modica, composta da circa 7 comuni dell’attuale Provincia di Ragusa, pur sempre soggetta comunque all’autorità centrale. Nel frattempo la popolazione propriamente rurale progressivamente diminuiva, con la concentrazione in borghi agricoli, lontani talvolta dalle terre da coltivare. Ma questi processi si sarebbero irrobustiti nel secolo successivo e ai tempi di Filippo I erano soltanto gli inizi.

Il ‘500, peraltro, aveva fatto conoscere alla Sicilia trasformazioni economiche e culturali di rilievo. Alla “Tavola” di Palermo si aggiunge ora un altro grande banco comunale: la Tavola di Messina (1581). E la prima la troviamo a svolgere funzioni di Tesoreria di Stato per conto del Governo viceregio; entrambe iniziano ad emettere una primitiva moneta cartacea, le cd. “polizze”. Anche la moneta metallica trova la sua definitiva sistemazione: ora anche i grani sono regolarmente coniati e non sono più pura unità di conto. In pratica si stabilizza il rapporto 6 denari o piccioli per un grano, 20 grani per un tarì, 30 tarì per un’onza. Solo l’onza, tuttavia, resta unità di computo teorica, ancora non effettivamente coniata. Sotto Filippo decolla il sistema di istruzione dei Gesuiti, con la loro rete di collegi ormai presente praticamente in tutte le città siciliane di un qualche rilievo.

Con questo re, infine, la Sicilia conobbe l’introduzione della Controriforma e lo stroncamento sul nascere di ogni minima sensibilità nei confronti delle idee protestanti. Con la conclusione del Concilio di Trento (1563), la Sicilia perse il suo rito gallicano di Sicilia, introdotto in epoca normanna, e progressivamente sostituito al precedente rito bizantino (che ancora sopravviveva nella diocesi basiliana dell’Archimandrita di Messina, oltre che nelle comunità siculo-albanesi). Al suo posto venne introdotto rigorosamente il rito romano.

Momento epico sotto questo re quello in cui la flotta ottomana fu definitivamente sconfitta e fermata a Lepanto (1571), dove la flotta siciliana partecipò vittoriosa e da protagonista con le proprie bandiere di Stato, ancora formalmente indipendente.

Una parentesi curiosa, durante la monarchia di Filippo, fu invece la lunga “presidenza” del principe di Castelvetrano: per ben 6 anni la Sicilia, senza viceré spagnolo, fu lasciata alle cure di questo siciliano, quindi in pieno autogoverno. A lui, che passò alla storia come il “Magnus Siculus”, si deve la prima raccolta a stampa di tutta la normativa in vigore nel Regno: le Siculae Sanctiones del 1574. Con lui, per la prima volta, è un “Presidente del Regno” nazionale che convoca e presiede i Parlamenti. Mai più la Sicilia viceregia avrebbe goduto di tanta autonomia, alle soglie della piena indipendenza, come nel sessennio tra il 1571 e il 1577 sotto l’Aragona-Tagliavia. Questi riorganizzò la difesa del Regno, distribuendo la fanteria in tre Armate (quante i Valli), ciascuna sotto un “Vicario generale” (sottinteso vicario dello stesso Presidente, nella sua qualità di Capitano Generale del Regno), più un corpo di Cavalieri a cavallo, mobile, di 400 uomini, affidato al figlio dello stesso Presidente.

Nonostante le cure di questo Presidente, in un ordinamento quasi-repubblicano, cadde La Goletta in Tunisia. Per evitare che gli Ottomani si impossessassero del porto di Marsala, lo fece interrare del tutto. Quest’opera difensiva, allora ritenuta vitale, avrebbe però compromesso per sempre le attività marittime dell’importante città siciliana. La sua abilità politica e militare lo fece attrarre alla Corte spagnola, per incarichi sempre più importanti, e quindi fece riprendere l’invio di regolari Viceré.

Dopo di lui infatti fu la volta del Colonna, già comandante della flotta pontificia a Lepanto, sotto il quale, a parte una recrudescenza della feroce disputa proprio contro il papato che tentò ancora una volta inutilmente di revocare l’Apostolica Legazìa, non ci furono eventi politici interni o esteri di gran rilievo. Si dedicò a opere interne, soprattutto di abbellimenti urbanistici nella capitale, ma fu richiamato in Spagna dopo svariate accuse mossegli dall’aristocrazia.

Sotto il successore De Guzman, a parte la sfortunata partecipazione della flotta siciliana alla “Invencible Armada”, da cui uscì praticamente annientata, e impreviste carestie, durante le quali commise l’errore di non bloccare le esportazioni di grano, successe un fatto politico di gran momento: per la prima volta della storia, nel 1591, il “Braccio militare” votò apertamente contro il donativo ordinario. Fu una specie di “sfiducia” al viceré. La camera dei nobili chiedeva che le prammatiche viceregie non fossero mai più fatte contro le costituzioni e capitoli del regno come condizione per concedere il donativo ordinario. Il viceré, consultatosi con il sacro regio consiglio, deliberò che il voto di due bracci su tre valeva l’approvazione del Parlamento. E questa divenne da allora regola generale. In quell’occasione però non furono fatti doni al viceré, al suo cameriere maggiore, agli ufficiali regi. Il Guzman, sostanzialmente sfiduciato dal Parlamento, fu richiamato in Spagna e sostituito.

Il successore, conte di Olivares, dietro ingente donazione della città di Messina, concesse a questa la privativa dell’esportazione delle sete dal Regno, pur tra le proteste del Parlamento, e favorì il decollo dell’Università di Messina, già autorizzata sotto Carlo I ma non ancora funzionante. Di fatto questa, fortemente opposta dalla città di Catania che si sentiva sino ad allora detentrice del monopolio universitario, si sarebbe realizzata solo qualche anno dopo, durante un’altra “Presidenza” regnicola, questa volta del Ventimiglia, marchese di Geraci. L’episodio testimonia della grande vitalità economica, politica e culturale della seconda città dell’Isola, che mai smetteva di rivaleggiare con Palermo, e ciò nonostante le continue guerre con gli Ottomani e il lento declino delle rotte mediterranee al confronto con quelle oceaniche.

 

  • 4 – Il “galleggiamento” della Sicilia sotto Filippo II (III di Spagna)

Filippo muore nel 1598, e la dinastia asburgica prosegue, senza eventi storici di particolare rilievo, per tutto il XVII secolo, con Fillippo II (III di Spagna), Filippo III (IV di Spagna), Carlo II. Anche la partecipazione alla Guerra dei Trent’anni (1618-48) non ebbe praticamente alcun effetto sulla Sicilia. Il XVII secolo è un secolo di lenta decadenza per la potenza spagnola, che perse il Portogallo con il suo impero, e poco mancò che non perdesse anche la Catalogna. Anche il Regno di Sicilia, restato aggiogato a questo grande impero, risente di questo declino. I dibattiti parlamentari, e i capitoli richiesti ai sovrani, scendono progressivamente di livello, il malcontento cresce, il funzionamento dello Stato di Sicilia mostra, soprattutto nelle decadi finali, segni di precoce invecchiamento e disfunzioni a tutti i livelli.

All’inizio della monarchia del nostro Filippo II, un viceré si diede alla pirateria, o meglio alla guerra da corsa: il de Cardines duca di Macqueda.  Il Macqueda sembra sia stato un viceré efficiente ed energico che, caso più unico che raro, ebbe la percezione della necessità di incrementare il commercio per risollevare le sorti del Regno. Per questo, a proprie spese, armò una flotta di corsari che ripulì i mari siciliani da questa piaga, consentì il risollevarsi dell’economia siciliana, e – incidentalmente – consentì al viceré stesso di arricchirsi personalmente. A lui si deve il famoso taglio in quattro quartieri della città storica di Palermo, con quella via che ancora oggi porta il suo nome, allora “sicilianizzato” in “Macqueda”, e oggi ripristinato, forse antistoricamente, nell’originale spagnolo di “Maqueda”, dopo che il Toledo aveva rettificato il vecchio Cassaro fino alla “Porta di mare” e il Colonna l’aveva prolungato fino al mare, a quella Porta Felice da lui stesso edificata e dedicata alla moglie.

Altro provvedimento del nostro è l’istituzione della “Deputazione degli stati”, una sorta di amministrazione controllata dei beni feudali dell’aristocrazia indebitata, che lasciava al nobile un minimo per vivere decorosamente (senza potersi ulteriormente indebitare) mentre, con l’oculata amministrazione dei patrimoni feudali, tentava di soddisfare al meglio le esigenze dei creditori.

Una storia, non pienamente confermata nei dettagli, vuole che il Macqueda sia morto nel 1601 a causa dell’apertura di una cassa trovata su una nave ottomana catturata dalle sue guerre da corsa che si pensava dovesse contenere tesori e che invece conteneva il cadavere di un “turco” in avanzato stato di decomposizione. Il viceré, avvicinatosi troppo ai tessuti pregiati che avvolgevano il cadavere, ne avrebbe tratto un’infezione mortale.

Sotto il successore, Lorenzo Suarez de Figueroa, duca di Feria, che certo non aveva alcuna intenzione di armare una flotta privata contro i pirati, il commercio cominciò di nuovo fatalmente a soffrire dell’insicurezza dei mari. Non fu cattivo amministratore, cercò di portare equità nella distribuzione del carico tributario in proporzione all’effettiva ricchezza dei contribuenti, ma i suoi tentativi furono ostacolati dalla rapacità dei ceti privilegiati.

Nel 1603, con una prammatica, portò ufficialmente l’inizio dell’anno civile all’1 gennaio togliendo ogni incertezza (c’era prima chi contava da Natale, chi dal 25 marzo, …) nella datazione degli atti notarili e pubblici. Naturalmente l’anno amministrativo e finanziario restava quello indizionale bizantino, con inizio all’1 settembre e termine al 31 agosto, come era sempre stato, dai tempi dell’imperatore Diocleziano nell’Antichità. Con lui si arrivò ad una lunga contesa con la Santa Inquisizione: un dipendente di questa, accusato di un reato comune, invocò l’immunità e si arrivò ad uno scontro armato con i “familiari” di questo tribunale imposto da Madrid ed estraneo al nostro ordinamento. La vicenda – a dire il vero –  finì con un compromesso poco onorevole per lo Stato di Sicilia; ancora una volta il re “straniero” si manifestò come un vero problema per la nostra monarchia. Il Feria dovette poi abbandonare la Sicilia per rappresentare la Corona di Spagna nella dieta del Sacro Romano Impero, in Germania (dove la Spagna era rappresentata per essere titolare di alcuni feudi nell’attuale Belgio, Lussemburgo e Franca Contea), dove casualmente morì.

Il successore, il Marchese di Vigliena (incidentalmente famoso per aver completato l’incrocio delle due principali vie palermitane nei cd. Quattro Canti di Città), si trovò a dover razionare il grano a tutti gli abitanti per una grande crisi. Riportiamo la cosa per la modernità amministrativa della soluzione adottata: un “polizza” per famiglia, di fatto una tessera annonaria per ricevere 6 grani a testa di pane giornalieri.

Segno della crisi di questi tempi è la cd. tosatura delle monete, con cui venivano limate o raschiate le monete d’argento. La risposta data dal governo, di ordinare il cambio della moneta tosata con quella buona alle due Tavole, anziché correggere il danno lo alimentò, e i due banchi pubblici dovettero interrompere l’esecuzione dell’ordine per evitare di andare in dissesto in breve tempo. La cattiva qualità delle monete nel frattempo rallentava il commercio, perché i venditori volevano essere pagati a peso, e i compratori volevano far valere il titolo nominale delle monete. Con grande sforzo nel raccogliere l’argento necessario, il Vigliena riuscì a introdurre una monetazione nuova, con un contorno “cordonato” delle monete, per evitare future tosature.

Tarlo del Regno era invece il municipalismo, e soprattutto la rivalità tra Palermo e Messina. Per far contenta la seconda città dell’Isola i viceré dovevano spostarsi per parte del loro mandato, e, nel farlo, caricare via terra una processione infinita di carri e muli per spostare gli archivi da Palermo a Messina e viceversa. I trasporti avvenivano via terra, per ragioni di sicurezza. Una volta, per sbrigarsi, si scelse il trasporto via mare. E disgraziatamente nell’occasione affondò l’ammiraglia di Sicilia, il galeone “Arca di Noè”, con danno enorme per l’amministrazione del Regno (1608).

Anche gli ordini costituzionali cominciavano a non essere pienamente rispettati, ma il braccio demaniale, il più democratico, dava ancora segni di vitalità. Ad esempio l’opposizione in Parlamento del Pretore di Palermo contro un’imposta spropositata sugli atti notarili, voluta dal governo per finanziare un aumento straordinario della flotta del Regno, gli valse la deposizione e il carcere da parte del viceré Paceco di Vigliena. Ma alla fine questi fu costretto a revocare l’imposta e a liberare il deputato per la ferma opposizione di tutto il Parlamento. Già inviso ai Messinesi per aver privilegiato Palermo, ed aver persino tentato di aprire a Palermo una seconda zecca, ora venne odiato pure dai Palermitani, e abbandonò l’amministrazione agli abusi dei sottoposti, dedicandosi unicamente ad atti di devozione ed implorando Madrid di essere sollevato dall’incarico, ciò che ottenne facilmente.

Nell’intervallo tra un viceré e l’altro assume la presidenza il Cardinale di Palermo, Giannettino Doria. Facciamo menzione di questa breve presidenza perché sotto di essa vennero a maturazione due eventi importanti. Nel 1610, dopo reiterate petizioni, la Sicilia riuscì pacificamente a ottenere indietro le Isole Eolie che erano state concesse a Napoli nel 1372 alla fine della Guerra del Vespro e mai più restituite fino ad allora. Altro fatto degno di nota fu il tentativo del Doria di nominare a Messina uno Stratigoto (supremo magistrato cittadino della nostra “quasi-repubblica” marinara) interinale al posto del supremo magistrato cittadino (il “Giudice Ebdomadario”) che normalmente teneva questa carica in caso di sede vacante. I Messinesi, che avevano ottenuto che lo Stratigoto venisse nominato direttamente da Madrid e fosse la seconda carica del Regno dopo quella del Viceré, riuscirono ad affermare la loro semi-indipendenza da Palermo. Il fatto è degno di nota, perché dimostra che le città demaniali (piccole repubbliche) e gli stati feudali (piccoli principati) avevano ciascuna le proprie magistrature e i propri ordinamenti distinti: celebre appunto lo Stratigoto di Messina, come il Pretore di Palermo, o il Patrizio di Catania, o il Prefetto di Trapani, per limitarci alle principali città. Non possiamo seguire in questa storia politica questa interessante storia istituzionale locale, che non è ancora amministrativa e omogenea, ma limitarci a rilevare come, da sempre, la Sicilia non aveva mai perduto la sua natura “federale” e policentrica.

Il nuovo viceré Giron, duca d’Ossuna, utilizzò attivamente la flotta nella guerra da corsa, e in quegli anni Madrid non si interessò molto nemmeno alla politica estera del Regno, affidata in tutto alle cure del viceré. Con lui la Flotta Siciliana arrivò ad avere 28 navi e tentò anche un colpo sulla città di Biserta, in Tunisia, senza però riuscire a catturarla. Egli represse i disordini interni e conseguì una notevole vittoria navale a Capo Corvo nel 1613 contro gli Ottomani, grazie alla flotta siciliana guidata dal prode Ottavio d’Aragona. L’Ossuna mise ordine nel caos lasciato dal Vigliena e costrinse i senatori di Palermo a consegnare il cassiere della Tavola, fuggito col patrimonio, che ne aveva causato addirittura il fallimento. Il risanamento finanziario del Regno fu disposto nel Parlamento del 1612, e richiese alcune misure di finanza straordinaria, con l’introduzione di nuove gabelle, con una manovra eccezionale pluriennale per la cifra allora stratosferica di due milioni e settecentomila scudi (ogni scudo era 0,4 onze siciliane, la teorica massima moneta di conto siciliana).

La manovra finanziaria colpì moltissimo Messina, esportatrice di seta, che alla fine ottenne da Madrid la sconfessione dei deliberati del Parlamento e del viceré. Filippo II (III di Spagna) concesse nel 1616 a Messina anche il privilegio formale di avere la residenza del viceré per 18 mesi su 36 di mandato. Questo privilegio, dato per carezzare il municipalismo della seconda città dell’Isola, caratterizzata da una forte vocazione mercantile e anche industriale (della seta), creava però disfunzioni all’amministrazione del Regno, talché fu raramente osservato con scrupolo dai viceré, che preferivano risiedere più spesso a Palermo. La mancata attuazione di questo dispositivo, però, esasperava gli animi dei Messinesi e creava un profondo solco tra le due città e risentimenti crescenti nel tempo.

L’ultimo viceré di Filippo II, il Conte di Castro, governò per diversi anni senza particolari eventi politico-istituzionali degni di nota.

 

  • 5 – Il lento declino continua sotto Filippo III (IV di Spagna)

Il viceré Emanuele Filiberto di Savoia, ormai regnante Filippo III (IV di Spagna), mori di peste nel 1624, fatto che vogliamo ricordare perché quella di quest’anno è l’ultima epidemia di peste della storia siciliana. Mentre altrove in Europa se ne avrebbero avute altre ondate, qui qualche focolaio successivo sarebbe stato facilmente isolato e sconfitto. Segno questo, forse, che le condizioni igienico-sanitarie e le metodologie di isolamento delle malattie stavano cominciando a fare qualche progresso.

Dopo il brevissimo e insignificante viceregnato del Tavora, sotto il successore di questi, l’Albuquerque, l’ostilità di Messina contro Palermo giunse al culmine, arrivando ad offrire a Madrid il congruo donativo di un milione di scudi per dividere la Sicilia definitivamente in due viceregni. Palermo mandò a corte una lunga memoria in difesa dell’unità del Regno. Il re, da un lato comprendeva che la proposta era eversiva, dall’altro aveva sempre bisogno di denaro e restò in bilico, rinviando la questione. Tutto ciò fu occasione, in ultimo, per la corte di spillare altri soldi alla Sicilia (500.000 scudi). Sotto il Duca di Albuquerque, in compenso, tacquero le armi. Si ebbe una richiesta di aiuto di fanti siciliani per un’operazione nel Ducato di Milano, una delle tante vicende della Guerra dei Trent’Anni, ma questi non arrivarono neanche in tempo sul luogo dei combattimenti che questi erano già finiti.

La questione della scissione del Regno fu rimessa dal Re al Parlamento straordinario del 1630, già governando il successore, Afan de Ribera, duca di Alcalà, sia pure nella carica meno prestigiosa di “Luogotenente”, nel quale la Corona chiese una seconda volta altri 250.000 scudi, questi addirittura in “moneta castigliana”, ciò che il Parlamento però ebbe il coraggio di rifiutare come contrario alle consuetudini (cioè alla Costituzione) del Regno. Il Regno mantenne così la sua unità e Messina fu ricondotta all’ordine dall’Alcalà anche dallo stato di semi-indipendenza in cui era governata dall’aristocrazia locale. L’ultimo atto del luogotenente fu quello di ordinare la stampa nuovamente del corpus delle leggi siciliane, non più pubblicate unitariamente dall’ormai lontano 1574 ad opera del Magnus Siculus.

Questa incombenza però cadde sul genero dell’Alcalà, Moncada di Paternò, lasciato come Presidente del Regno per un’ambasceria del suocero, che poi morì senza fare più ritorno in Sicilia. Nel 1636/37 si ebbe così la poderosa pubblicazione in parola. Sotto questa presidenza, relativamente lunga (fino al 1639) venne disposto il sequestro delle navi maltesi, i cui cavalieri francesi non mancavano di saccheggiare le coste siciliane. Questo fatto di cronaca, per quanto circoscritto, segna un punto di svolta rispetto al precedente secolo, nel quale troviamo i Maestri di Malta come fedeli sudditi che accorrono prontamente agli ordini dei viceré, per quanto dotati di esercito, flotta e governo autonomo. Ora, benché i rapporti poi si sarebbero normalizzati, il rapporto tra la debole corona siciliana (una corona senza re proprio) e il potente ordine infeudato erano quasi quelli tra due stati sovrani, anche se gli atti di vassallaggio non venivano mai meno.

Nel 1638, nella spasmodica ricerca di risorse, il Moncada fece introdurre dal Parlamento l’imposta testatica (un giorno di rendita per chi viveva di rendita, un giorno di salario, per chi viveva di salario, nulla per i mendici). Al di là della contingenza di tale richiesta, essa è significativa di una modernizzazione delle finanze, introducendosi per la prima volta una sorta di tassazione proporzionale al reddito, ben oltre le suddivisioni arbitrarie che c’erano state sino ad allora.

Dopo il viceregno brevissimo del Conte di Assumar, vediamo tornare in Sicilia nel 1641, dalla Spagna, un Cabrera, conte di Modica e Grande Ammiraglio di Castiglia, discendente di quel famoso Conte Cabrera che aveva sfidato la Regina Bianca negli ultimi anni del regno indipendente. Il ricco e potente signore feudale tenne tranquillo il Regno ma sotto di lui successe qualcosa che, pur comprendendosi con lo spirito dei tempi, oggettivamente non è qualcosa di cui la Sicilia possa andare esattamente orgogliosa. In una Spagna in crisi, Portogallo e Catalogna scuotono il giogo. Con il Portogallo non c’è nulla da fare: la casa di Braganza riconquista l’indipendenza con tutto il suo impero coloniale, seppure di molto ridotto a favore degli olandesi durante gli anni dell’unione con la Spagna. Sulla Catalogna si concentrano invece tutti gli sforzi della Spagna che alla fine riesce a piegare quel popolo orgoglioso. Per farlo chiede aiuto anche alla Sicilia. E il Parlamento di Sicilia del 1642 accorda al re un sussidio straordinario di denaro e soldati per togliere la libertà a quella nazione che, bene o male, secoli prima era stata la migliore alleata nella lotta contro l’Angioino. Sarebbe antistorico legare due eventi tanto lontani nel tempo, ma non può farsi a meno di notare la paradossalità di tale situazione. La Sicilia, del resto, allora non poteva disporre più di una propria politica estera se non nel piccolo cabotaggio dei rapporti frontalieri. L’unione personale con la Spagna aveva i suoi dazi da pagare, rari, ma inevitabili.

Del resto anche in Sicilia, come un po’ in tutta Europa, non mancarono le agitazioni politiche. C’è un filo conduttore che lega Catalogna, Napoli, Sicilia, Inghilterra, … La potenza spagnola declinava e i Siciliani, anzi i borghesi e popolani siciliani, alzavano o provavano ad alzare la testa. La storiografia ha speso fiumi di parole sulla contrapposizione tra i “Cavalieri” e le “Teste rotonde” di Cromwell in Inghilterra, ma non coglie il parallelo flusso di eventi che si registra anche nella più piccola Sicilia. La differenza sostanziale fu che l’aristocrazia, quella che preferiva il re lontano distratto a un governo nazionale più attivo, ebbe la meglio in Sicilia a differenza che in Inghilterra, ma le dinamiche “di classe” non sembrano poi così distanti. La storiografia italiana di una Sicilia immobile appartiene più al dominio della mitologia e dell’ideologia, funzionale alla teoria della “redenzione” italiana, che non a quello della realtà.

Questi fatti sarebbero dovuti precipitare tutti sotto il viceregno del Marchese di Los Velez, e poi sotto la luogotenenza del cardinale Trivulzio.

Già il Parlamento del 1645 per la prima volta della storia bocciò ogni donativo straordinario, e si limitò solo a quelli ordinari, e addirittura furono abolite alcune gabelle. Anche qui, come a Londra, il Parlamento era il luogo in cui la Nazione trovava la sua più alta rappresentanza e il luogo in cui i conflitti tra le parti sociali in materia finanziaria trovavano il loro luogo di elezione. L’occasione dei tumulti fu però una prolungata carestia. Una prima sollevazione si ebbe a Messina, dove fu tentato di diminuire il peso del pane. La rivolta fu domata, ma si dovettero dare provvidenze perché il pane non mancasse più nella città dello Stretto.

A Palermo le cose andarono in modo più complesso. Il Senato di questa città, infatti, forte dell’esperienza messinese, volle evitare di diminuire il peso e ricorse all’indebitamento, trovandosi però presto in una condizione finanziariamente insostenibile. Finita la crisi alimentare, restò il “buco” finanziario e il Tribunale del Real Patrimonio insisté per la riduzione del peso del pane, non più per la carestia, ma per quella che oggi diremmo l’austerity, cioè per risanare il tesoro del Comune di Palermo. Questo “tesoro”, poi, custodito nel banco comunale, la “Tavola” di Palermo, era di massima importanza per tutto il regno perché i mandati del Governo viceregio avvenivano in “moneta di banco”, cioè per mezzo di polizze emesse sul banco stesso, che faceva anche da Tesoreria dello Stato e, in un certo senso, da “banca centrale”. Le vicende palermitane erano quindi di interesse per tutta la Sicilia, mentre la “Tavola” di Messina, per quanto rendesse autonoma finanziariamente quella città, aveva solo dimensione municipale. Ne scaturì una rivolta, che il Viceré non affrontò, preferendo fuggire dal Palazzo.

Alla fine il popolo ebbe la meglio: alcune gabelle furono abolite, il peso del pane ripristinato, due consoli su cinque dovevano essere di estrazione popolare e non più nobiliare. Quest’ultima riforma, come quella analoga di cui abbiamo parlato a Messina, sarebbe stata destinata a permanere. L’unico problema era che i conti della città non tornavano più. Mediatori in questa vicenda furono le “Corporazioni di Arti e Mestieri”, cioè la borghesia, che tenne a freno il popolino, già organizzate nel Consiglio Civico di Palermo, e che ora acquistavano un potere sempre maggiore. I Consoli di questa borghesia presero in pratica il controllo militare di Palermo, e la nobiltà e lo stesso viceré erano in condizione di scacco.

Sull’esempio di Palermo tutta la Sicilia insorse, più o meno allo stesso modo: dappertutto furono ridotte le gabelle, ci furono disordini e il popolo pretese e ottenne, in vario grado, di partecipare alle amministrazioni municipali. Solo Messina, in chiave antipalermitana, e forse perché aveva sperimentato e superato già questa crisi sociale, faceva professioni di fedeltà alla corona e al viceré, invitandolo a stabilirsi da loro. La Sicilia del XVII secolo stava dimostrando di essere molto più moderna della stessa Spagna cui era legata e tutt’altro che quel paese retrogrado che la storiografia tradizionale ci consegna. Le conquiste politiche furono durature, e la crisi finanziaria si avviò ad essere colmata a spese dei più ricchi borghesi e dei nobili. A Palermo furono istituite gabelle che colpivano finalmente i ceti superiori, mentre il potere dei Consoli era tale che la nobiltà dovette accettare la redistribuzione del reddito che ne derivava.

Questa prima rivolta e le sue conquiste, proprio perché moderate e guidate dalla borghesia delle arti e mestieri, si rivelò appunto duratura.

Non così la seconda fase della rivolta, nel 1647, guidata dai ceti più bassi e dal popolino. La causa scatenante fu la rivolta di Masaniello a Napoli, che galvanizzò il partito “popolare”. A capo di questa si mise un artigiano, Giuseppe D’Alesi, che si fece nominare “Capitano Generale del Popolo” e che tenne per qualche tempo in ostaggio istituzioni municipali e governative. Un governo così improvvisato, però, non poteva che degenerare nel dispotismo personale e nella mancanza di visione politica. Da un lato il D’Alesi si fece nominare sindaco “a vita” di Palermo, dall’altra concesse al viceré di tornare al Castello a Mare, non avendo il coraggio o la visione di opporsi alla corona spagnola. Non fu difficile così al pavido viceré di Los Velez di trovare appoggio nei nobili e, questa volta, anche nelle corporazioni, che si sbarazzarono di questo ingombrante capopolo decapitandolo e rimettendo l’ordine. Non fu altrettanto facile riportare in genere l’ordine a Palermo e soprattutto nei suoi conti, ma il peggio era passato.

Morto il Los Velez, per qualche anno la Sicilia fu retta dalla mano energica del Cardinal Trivulzio. Questi da un lato continuò con le concessioni ai ceti inferiori sul piano economico, dall’altro stroncò le rivolte che ormai erano endemiche in Sicilia.

La rivolta di D’Alesi aveva avuto a tratti sentimenti antispagnoli, e questo aveva molto preoccupato la Corte, che ora accentuava l’alternanza della capitale tra Palermo e Messina, per indebolire entrambe. Palermo e Messina, sin dai tempi di Federico II almeno, erano quasi sullo stesso piano, con un leggero primato della prima come “Sedes Regis et Regni Caput”, dove venivano incoronati i re (ma che da tempo disertavano questo ufficio), con due distinti palazzi reali (Catania invece era stata solo di fatto sede dei re aragonesi, quasi per una sorta di equilibrio tra le due maggiori città, e limitava ora il suo municipalismo a osteggiare l’università messinese, schierandosi in genere con i palermitani). Gli Spagnoli conoscevano il municipalismo dei Siciliani e sfruttavano il carattere policentrico del Regno di Sicilia per indebolire il sentimento nazionale siciliano. I fatti di Palermo inducevano ora ad accentuare lo sforzo dualistico. Ucciso il capopopolo D’Alesi restava il malessere, e quindi continuavano i disordini.

Tra questi disordini ricordiamo la congiura di tale Francesco Vairo, che voleva trasformare Palermo in una repubblica, estendere l’ordinamento comunale a tutta la Sicilia e mettersi sotto la protezione dei Turchi, federandosi anche con la Repubblica di Masaniello a Napoli, non ancora domata. Questa volta le idee in materia politica e sociale erano molto chiare: disfarsi del re, del viceré e della stessa nobiltà. Naturalmente Vairo finì appeso con un cartello che diceva: «Traditore di Dio, di Sua Maestà, e della Patria. Principale Rubello». Ma questo non disarmò il partito popolare. Un avvocato, del seguito del D’Alesi, Pietro Milano, congiurò per uno sterminio di nobili e dello stesso cardinale. Non trovò il necessario appoggio dei consoli e la rivolta finì anch’essa con la pena capitale per tutti i congiurati. Poco dopo fu la volta di un sacerdote, il Platanella, fuoriuscito in Francia, che tentò una congiura per ribaltare la corona iberica con l’aiuto di quella francese, ma privo di qualunque appoggio locale, fu facilmente scoperto, spogliato da prete, strozzato e poi impiccato. Un altro tentativo fu fatto da tale Francesco Ferro da Petralia Sottana che tentò inutilmente una rivolta armata a Palermo, con lo stesso programma dell’Avvocato Milano. Ripresa forza il governo regio, si fece riconsegnare dalle corporazioni i baluardi, disarmandole. Un’ultima sommossa, infine, a Girgenti, nata contro il ricco vescovo locale, fu presto domata come le altre. In questa generale restaurazione ebbe un ruolo la sconfitta della rivoluzione napoletana, che aveva a lungo impegnato la corona spagnola e che costituiva, anche in Sicilia, una fonte di emulazione.

È indubbio che a tutto questo fermento rivoluzionario deve essere dato un peso, e questo fu sempre quello di un diffuso sentimento nazionale siciliano, unito ad una ferma volontà di riscatto sociale, per come poteva essere percepito ai tempi. Le finanze palermitane in qualche modo, per mezzo di gabelle più eque, andavano a risanarsi; gabelle cui fu costretto, almeno in parte, persino il clero, fino ad allora trincerato nelle sue immunità. Qualche scampolo di giustizia sociale tutte queste morti un po’ fruttarono. Il cardinal Trivulzio, ancora, controllò che la giustizia corresse più spedita, che non si mettessero in carcere persone senza motivo, che non venissero trattenuti legati al remo condannati che già avevano scontato la pena. Per sistemare definitivamente le sconquassate finanze del Regno lo Stato dovette ricorrere alla vendita di due città demaniali, Girgenti e Licata, comprate dal citato ricchissimo vescovo di Girgenti Francesco Troina, il quale però si accontentò di tenerle solo vita natural durante lasciandole di nuovo in eredità allo Stato di Sicilia alla sua morte.

Resta da chiedersi perché l’ondata di rivolte antispagnole, a parte qualche conquista marginale, fu votata all’insuccesso. Cosa impedì a un D’Alesi, a un Vairo, a un Milano o a un Ferro di diventare i “Cromwell” siciliani? A nostro avviso la massa critica del consenso nei ceti inferiori e la stessa potenza economica dei ceti borghesi, molto più modesta in Sicilia rispetto al caso inglese. La base sociale è però la medesima. L’ordinamento in ceti era ormai in crisi dappertutto, e anche in Sicilia, ma la chiusura delle rotte del Mediterraneo, infestate per di più dai pirati maghrebini e ottomani, le troppe spese per la difesa nazionale, avevano costretto la Sicilia nella sua tradizionale vocazione agricola a discapito del commercio e delle proto-industrie. La stessa Messina, leader nell’esportazione della seta e in genere nel commercio, si limitò, come Venezia, ma su scala assai minore, a “gestire il lento declino” del suo ruolo storico, senza poterne costruire uno nuovo. Il gretto municipalismo fu un altro elemento esiziale, sul quale la corona ebbe buon gioco. E infine il resto fu fatto da una classe aristocratica in parte antinazionale: chi viveva di rendita, e di debiti, preferiva sempre il quieto vivere rispetto a rivolgimenti di dubbio esito, un debole re lontano a un minaccioso governo nazionale vicino. Pure questa aristocrazia ebbe non pochi meriti, in termini di mecenatismo e di promozione, specie a Palermo, delle arti e mestieri come in pochi altri paesi al mondo. Si fossero saldati questi interessi tra le corporazioni e l’aristocrazia palermitana in chiave antispagnola, il “tappo” forse sarebbe saltato. Ciò però non avvenne, anche per il prudente rispetto che i sovrani spagnoli ebbero sempre per il Parlamento e in genere per le istituzioni siciliane. La Sicilia era quasi indipendente, anzi del tutto indipendente da un punto di vista formale, a parte qualche forzato debito in politica estera ripagato dall’ombrello di sicurezza della pur declinante potenza spagnola. Indipendente e costituzionale. Cosa poteva desiderare di più il piccolo regno mediterraneo senza rischiare un salto nel buio?

La Sicilia non conobbe però pace nell’impero spagnolo decadente. Anche la vendita temporanea delle città demaniali non fu bastante a sanare il dissesto per la ricostruzione della flotta e il viceré Don Giovanni d’Austria dovette “vendere” l’indulto per mettere i conti a posto, con grave danno ovviamente per l’ordine pubblico. Il breve viceregnato di questo esponente della stessa famiglia reale fu segnato nel 1649 da uno dei più ambiziosi e lucidi tentativi di rovesciare la corona estera. Due giureconsulti palermitani, Pesce e Del Giudice, ebbero l’intelligenza politica di capire che solo una rivolta della nobiltà avrebbe potuto dare alla Sicilia un re proprio, tratto dall’aristocrazia stessa. Si ondeggiava, come scelta, tra il conte di Mazarino, della potentissima famiglia Branciforti e il principe di Paternò, già Presidente di cui abbiamo parlato, della potente famiglia dei Moncada, ormai naturalizzata in Sicilia dai tempi del viceré Ugo di cui abbiamo pure parlato. La congiura fu sventata dalla moglie del conte di Mazarino, che subodorò che alla fine la corona sarebbe caduta sul rivale, o che la reazione avrebbe portato soltanto guai alla famiglia; questa rivelò al viceré il disegno e la reazione arrivò inesorabile. Don Giovanni d’Austria aveva però paura di mettersi contro tutta l’aristocrazia siciliana, e diede il tempo ai congiurati (mentre stava tornando a Palermo da Messina, dove stava organizzando la flotta siciliana) di mettersi in salvo con l’esilio.

Arrivato a Palermo i primi a essere giudicati furono proprio l’avvocato Pesce e il procuratore Paremio, che fino all’ultimo non avevano voluto confessare: il primo decapitato e il secondo affogato. L’unico nobile che non si era messo in salvo fu strozzato con la garrota, gli altri congiurati impiccati, punito ma lasciato in vita il Conte di Mazarino che aveva rivelato la congiura. In quella repressione veniva decapitata la speranza dei Siciliani di liberarsi da una corona straniera che stava lentamente scivolando verso l’oppressione. Solo il Moncada di Paternò, il mancato re di Sicilia, misteriosamente non fu neanche toccato dalle indagini. Troppo potente? Paura che questa mossa avrebbe fatto scoccare la scintilla antispagnola? Ormai questo mistero non sarà più sciolto: il viceré “fece finta” che il principale responsabile non avesse avuto alcuna parte alla congiura. In questo clima di restaurazione, l’ultima parte del viceregnato dell’Asburgo fu dedicata ad un altro aiuto della flotta siciliana per reprimere l’ennesima, non l’ultima, rivolta dei Catalani contro la corte di Madrid e a rintuzzare i saccheggi dei cavalieri di Malta di origine francese che, ormai, anziché difendere la Sicilia, si comportavano da predoni.

Il successore, Duca dell’Infantado si distinse per esser stato uno dei pochi a girare il Regno, un po’ per verificare la sicurezza e le fortificazioni, un po’ per ascoltare i ricorsi dei provinciali che normalmente gli ufficiali di corte spegnevano senza farli neanche giungere a Palermo.

Dopo un periodo molto frammentario in cui si successero un viceré morto poco dopo il suo arrivo, presidenti e luogotenenti vari, arriva il Conte Ayala, che merita di essere ricordato perché con lui il rispetto della corona spagnola per l’ordinamento del Regno di Sicilia inizia a scemare. Ayala certo continuò a convocare il Parlamento e rispettare gli ordinamenti siciliani, ma si sentiva già una sorta di governatore coloniale, imponendo con durezza le regole spagnole come se fosse stato in una provincia qualunque. Destituì ad arbitrio un Maestro Razionale, e soprattutto limitò molto l’autonomia della città-stato messinese, destituendo tutti i senatori e inviando un suo commissario a controllare la repubblica semi-indipendente dello Stretto. Stavano consumandosi contraddizioni vecchie di secoli: il ruolo istituzionale ambiguo di Messina da un lato e il rapporto tra Sicilia e Spagna dall’altro. Per quella volta vinsero i Messinesi, e l’Ayala, dopo un appello al re dei Messinesi, ma inviso da tutti, fu rimosso e richiamato in patria.

Ma la soluzione, dovuta ad aderenze personali dei Messinesi a Madrid, portò ad un eccesso opposto: il successore, duca di Sermoneta, stette pochissimo a Palermo e fece di Messina quasi la capitale del Regno. Accusato, soprattutto dai Palermitani, di essere uomo avido e corrotto (soprannominato “duca di far-moneta”), cercò di reimporre che tutte le sete esportate dalla Sicilia dovessero imbarcarsi esclusivamente dal porto di Messina, determinando la rivolta di tutto il resto del Regno. Estorse il parere favorevole del Sacro Regio Consiglio, senza il quale le prammatiche del Viceré non avrebbero avuto alcun valore in Sicilia, ma l’appello al re si rivelò un boomerang per i Messinesi. La corte, accorgendosi dello sbilancio di attenzione da parte del viceré, annullò la prammatica (decreto) e, addirittura, abolì l’antico privilegio che lo stesso dovesse risiedere almeno 18 mesi su 36 di mandato a Messina. Questo fu un colpo molto grave al prestigio di Messina, e, mentre il Sermoneta rientrava obtorto collo a Palermo, il rapporto tra Stato di Sicilia e la Città dello Stretto si andava logorando ancor di più. Nel frattempo, in Spagna, Filippo III (IV di Spagna) moriva, lasciando erede il malaticcio Carlo II, ultimo esponente della dinastia Asburgo.

 

  • 6 – Rivolta e decapitazione della città di Messina

I primi anni del Regno di Carlo II furono segnati da diversi viceregnati sui quali non vale la pena soffermarsi in modo specifico (l’Albuquerque, il Ligny, il Benavides, il Villafranca, il Guzman, il Gonzaga), giacché il fatto politico ben più rilevante fu altro: una guerra civile che stava per riportare i Francesi in Sicilia.

Si ebbe un primo tumulto popolare nel 1673 a Trapani, condotto da artigiani e popolo minuto. Progetto sconclusionato, forse, impossibile da realizzarsi, facile da sventare, ma spia di un profondo e crescente malessere dei Siciliani sotto i re stranieri ed evidente segno che l’autocoscienza nazionale dei Siciliani non era mai venuta meno. L’ideatore della congiura, il cavaliere Fardella, fu consegnato alla giustizia e decapitato.

Ma la vera minaccia per la corona spagnola sarebbe venuta proprio dalla città di Messina. Il lungo malessere si era tradotto in un conflitto tra due partiti: quello popolare dei Merli, appoggiato dallo Stratigoto dell’Oyo, e tollerato dal governo viceregio, e quello aristocratico dei Malvizzi. Lo Stratigoto tollerò un tumulto popolare e introdusse una riforma degli ordinamenti municipali in senso democratico: non più due ma tre su sei senatori dovevano essere eletti dal popolo, il Senato (cioè la giunta) doveva decidere ora solo con il consenso dei Consoli delle arti e veniva spossessato della funzione annonaria, affidata a un magistrato eletto dai mercanti. Bisogna però avvertire che il “popolo” dei Merli era in verità la media e piccola borghesia, mentre il popolino era spesso arruolato, come servitori o plebe, nel partito aristocratico dei Malvizzi. Il Ligny, accorso a Messina, cercò di revocare alcuni eccessi, riportare l’ordine anche nelle troppe esenzioni tributarie rivendicate dai Messinesi, ma il fuoco continuava a covare sotto la cenere.

L’esplosione arriva alla fine del 1674: il partito dei Malvizzi si impossessa delle fortificazioni senatorie, revoca alcune delle riforme (ma non la partecipazione popolare al Senato) e assedia il nuovo Stratigoto filo-popolare, facendolo infine fuggire. Il partito dei Merli fu sterminato con una vera e propria strage. I popolani superstiti si piegarono alla repubblica aristocratica. Il viceré Benavides non poté far altro che muovere guerra a Messina. Messina chiama in Sicilia il re Sole, Luigi XIV, da cui riceve rifornimenti alimentari, e aiuti militari. Il Duca di Vivonne arriva in Sicilia e viene accolto come Viceré per conto del re di Francia. La guerra continuò però stancamente per circa quattro anni. I Francesi, pur con estremi sforzi, non arrivarono ad occupare altro che Augusta, Taormina e pochi altri centri. Ma gli Spagnoli, per contro, non riuscirono mai a prevalere e si limitarono ad una guerra di posizione, tentando di prendere per fame la città dello Stretto. Curioso che da parte calabrese, appartenente pure alla corona spagnola via Napoli, ci si limitasse al blocco alimentare, senza alcuna azione militare di sostegno. Furono chiamati in aiuto come vassalli i Cavalieri di Malta, che faticosamente erano stati ricondotti all’ordine; ma questi, per avere molti cavalieri francesi in organico, ricusarono che nella concessione di Carlo V non era prevista guerra contro altri regni cristiani, ricusazione del tutto pretestuosa, giacché non erano chiamati per una guerra di offesa, ma per difendere l’integrità del Regno.

I Francesi si resero invisi ai Messinesi, stando ai cronisti del tempo, per il poco rispetto con cui trattavano le donne locali. Lo schierarsi dei Messinesi con i Francesi destò antiche memorie storiche, mai sopite, e rese questa scelta del tutto impopolare in Sicilia. Gli Spagnoli chiesero aiuto navale agli Olandesi, ma anche questo non si rivelò decisivo. Segnaliamo una curiosità istituzionale nel rapido alternarsi di Viceré e Presidenti, i quali ebbero ben poco tempo di dedicarsi al governo ordinario, e non poterono convocare il Parlamento, andando in semplice prorogatio dei donativi ordinari: una breve presidenza femminile. Morendo il Viceré Guzman, doveva succedergli un luogotenente ad interim, il cardinal Portocarrero, che, però, si trovava al momento fuori dal Regno, e quindi il viceré morente dispose la sua sostituzione provvisoria da parte della moglie, Eleonora de Mora. La Corte spagnola disapprovò la successione, con la motivazione specifica che essendo il Presidente del Regno “Legato Apostolico” nato, era anche in un certo senso sacerdote, e quindi la carica non poteva, neanche temporaneamente, essere affidata a una donna. Il Sacro Regio Consiglio, tuttavia, non la fece succedere nell’Apostolica Legazìa e la confermò Presidentessa per l’ordinaria amministrazione, cosa che la marchesa gestì normalmente, affidando ad altri tuttavia la campagna militare nel messinese.

Alla fine, per altri motivi, Francia e Spagna fecero pace, e Luigi XIV si ritirò semplicemente da Messina, non chiedendo neanche un indulto per quella città che per anni si era fidata di lui e lo aveva acclamato re di Sicilia. I Francesi si ritirarono con gran viltà da Messina e, prima di andare via, addirittura saccheggiarono Augusta, abbandonando poi i ribelli alla vendetta del governo regolare. Circa diecimila messinesi su ottantamila, in pratica tutta la classe dirigente, presero la via del mare e fuggirono in Francia prima che rientrassero le armi regolari del Viceré Gonzaga, il quale appena arrivato (1678) si trovò a sedare senza sparare un colpo la più grave ferita istituzionale che la Sicilia conosceva dai tempi dell’interregno della Regina Bianca. Il Gonzaga, tuttavia, proclamò un indulto, e si preoccupò dall’esodo dei Messinesi che il commercio della capitale economica della Sicilia ne ricevesse un danno irreparabile. Cercò di essere mite, pretendendo soltanto che venissero fuse tutte le monete coniate con il volto del re Sole come Re di Sicilia, prima di chiudere per sempre la zecca di Messina, da allora in poi spostata definitivamente a Palermo. Dal punto di vista monetario, questa utilizzò macchinari nuovi e più efficienti; ricordiamo che, però, a causa dell’inflazione, non sono più coniati i piccioli, ma la moneta più piccola sono da ora in poi i “tre piccioli”, o “terdenari”, o “mezzo grano”. La politica del Gonzaga, però, sembrò troppo morbida in Spagna, e, richiamato con un pretesto, fu sostituito dal Bonavides, che esercitò su Messina la più spietata delle vendette.

La durata del conflitto dà il segno della debolezza della Spagna, che molto a fatica riportò l’ordine in Sicilia. I Messinesi non potevano sperare in alcun modo di vincere con le loro sole forze. Ma avevano dimostrato che una rivoluzione nazionale siciliana era quanto meno possibile. Forse avevano sbagliato a dare una connotazione troppo municipale alla rivoluzione, e soprattutto avevano sbagliato del tutto alleato, individuandolo proprio nei Francesi, esecrati da tutto il Popolo siciliano per perenne memoria storica.

Bonavides venne in Sicilia con l’intenzione di decapitare per sempre la ricca città siciliana, e – con l’occasione – violò non poche delle libertà municipali sino a quel momento rispettate. Soppresse la carica di Stratigoto, risalente a Ruggero I, con i suoi poteri speciali, anche in sede giudiziaria, e la sostituì con un Governatore, nominato direttamente dal Viceré. La città di Messina perse ogni autonomia. Il suo Senato fu sciolto, il palazzo senatorio distrutto e la sede cosparsa di sale. Al suo posto una modesta giunta di nomina governativa, gli “Eletti”, con un modesto stipendio. Sciolta la prestigiosa “Accademia Militare della Stella”. Azzerati i privilegi tributari. Abolita la partecipazione popolare a qualunque elezione civica. Vietato l’uso privato delle armi. Ridotto l’indulto proclamato dal suo predecessore. Confiscati al Regio Demanio tutti i beni di ribelli e fuoriusciti. L’archivio del Senato, ricchissimo di manoscritti e pergamene che risalivano ai primi tempi normanni, saccheggiato e disperso. I manoscritti greci ivi contenuti presero la via della Spagna e da allora se ne perse notizia. La prestigiosa Università fu chiusa. La campana di bronzo della Cattedrale fusa e, con lo stesso bronzo, eretta una statua di Carlo II che sconfigge l’idra della Rivoluzione. Nel porto, alla base della Penisola di San Ranieri, dove un tempo era l’archimandridato di Messina, già trasformato in fortezza, si costruì una inespugnabile Cittadella militare, pronta a bombardare la città in caso di bisogno. La cittadella di Messina sarebbe sopravvissuta fino al 1861. In una parola la Messina politica fu annientata, tutto il potere fu accentrato a Palermo, ma la potenza commerciale, ridimensionata, nonostante tutto sopravvisse, sebbene non si fosse ripresa mai del tutto. Il Banco comunale, la Tavola di Messina, utile all’economia del Regno, sopravvisse a questa tempesta. Ma il declino era iniziato. Anche da un punto di vista commerciale e demografico Catania ne cominciò a insidiare il ruolo.

Il Bonavides stava dimettendo i panni del Viceré “costituzionale” che avevano avuto a lungo i suoi predecessori, e cominciava ad assomigliare ad un vero e proprio governatore straniero. Anche a Catania, pur agevolata dal Viceré, furono abolite le elezioni municipali e così a Noto, Caltagirone, Augusta. Il governo spagnolo si stava impadronendo delle città demaniali, un tempo fiere difenditrici dell’Autonomia del Regno. Anche a Siracusa, capoluogo della Camera reginale, ridusse a due il numero di Senatori scelti dai cittadini. Sulla potente Città di Palermo, invece, nulla poté.

Non mancarono gli abusi di potere da questo momento in poi, proprio a iniziare con il viceré Bonavides, che arrivò a imporre sentenze alla magistratura, segno della decadenza dei tempi e del mancato rispetto della costituzione siciliana; tale atto generò contestazioni e malumori in tutto il Regno, ma fu sostenuto sino all’ultimo da Madrid. Si erano saltate addirittura due legislature, convocando un Parlamento a nove anni di distanza dal precedente, ciò che dall’inizio del regno di Giovanni non era mai accaduto. Anche se poi sarebbe stato convocato nuovamente, fino alla fine del secolo non mancarono altri ritardi, mai accaduti prima. Alcuni magistrati delle supreme cariche furono destituiti, e reintegrati solo dopo una supplica al re: tra questi, inaudito, anche il Presidente della Gran Corte, cioè l’erede di quello che un tempo era il “Gran Giustiziere”.

Notiamo ancora un fatto demografico importante durante il viceregno del Bonavides, sebbene la nostra storia sia una storia politica e non socio-economica, ma il rilievo è tale da non poter essere ignorato. Il censimento del 1681 diede, per la prima volta nella storia, una popolazione superiore al milione, segno che, nonostante tutto, la Sicilia agricola era cresciuta negli ultimi secoli dando sussistenza ad un numero sempre più ampio di persone.

 

  • 7 – L’ultimo Asburgo, Carlo II, in una Sicilia in preda al disordine politico ed economico

La fine del Seicento vide anche una riforma che semplificava l’esecutivo del Regno. L’antica curia regis, cioè il consiglio ristretto del re, che risaliva a Ruggero II (che prima ancora della proclamazione del regno, seppure in maniera meno stabile, era stata la curia comitale), col tempo, alla restaurazione di re Martino, era stata stabilizzata con il nome di Sacro Consiglio, e infine, in epoca viceregia, con quello di Sacro Regio Consiglio, di cui facevano parte le 27 più alte magistrature del Regno. Il S.R.C., sorta di Consiglio di Stato, riceveva il giuramento del Viceré (in mancanza del Re), esaminava tutte le nuove leggi e prammatiche e gli affari più importanti del Regno (era quindi un organo in parte giuridico-consultivo, in parte propriamente politico ed esecutivo). Essendo costituito da funzionari a nomina vitalizia o comunque lunghissima, era il cuore del potere politico del Regno e il baluardo della sua classe dirigente. Alla morte del Viceré, se questi non aveva designato un sostituto provvisorio (il “Presidente del Regno”, spesso un altro prelato), assumeva temporaneamente il Governo dello Stato, sotto la presidenza della più alta carica del potere giudiziario (fino al 1562 il Maestro Giustiziere, poi il Presidente della Gran Corte Civile e Criminale). Per rendere più snello questo organismo, appunto, sul finire del Seicento, il Viceré per le decisioni di legittimità più importanti, lo sostituì con una ristretta “Giunta dei Presidenti e Consultore”, della quale, oltre allo stesso Viceré, facevano parte solo i tre Presidenti dei tre più importanti tribunali del Regno (la Gran Corte Civile e Criminale, il Tribunale del Real Patrimonio, Il Tribunale del Concistoro e del Sacra Regia Coscienza, cioè la massima giurisdizione ordinaria, contabile ed amministrativo-costituzionale), oltre al Consultore (uno speciale magistrato che rappresentava gli interessi dello Stato nelle più alte magistrature e quindi all’incirca un avvocato dello Stato). Questa suprema magistratura sarebbe durata fino alla fine del Regno e oltre, fino al dicembre del 1818, quando fu soppressa dal regime delle Due Sicilie.

Altra innovazione della seconda metà del Seicento fu l’introduzione di un “Segretario di Stato” alle dipendenze del Viceré, sorta di vero “ministro” già nel senso moderno del termine, più che “magistrato”.

Il secolo si chiude infine nel 1693 con il terribile terremoto del Val di Noto che avrebbe distrutto intere città, tra le quali Catania. Non parleremmo qua di quello che in fondo fu solo un evento naturale, se questo non avesse avuto, negli anni successivi, uno straordinario effetto artistico e culturale. Da sola, la Sicilia, in pochi anni ebbe la forza di ricostruire le città distrutte secondo schemi barocchi che avrebbero poi caratterizzato per sempre quel distretto dell’Isola. La città di Noto, in particolare, venne ricostruita ex novo su un altro sito.

Il successore di Bonavides, l’Uzeda, si disinteressò del tutto al governo della Sicilia, che affidò ai suoi segretari, per dedicarsi ai suoi studi di matematica. È vero che le cronache dei tempi parlano dei suoi provvedimenti per ripulire le campagne dai briganti o proibire l’uso privato delle armi, ma – a nostro avviso – tutto ciò appare piuttosto come segno di una decadenza dell’ordine in linea con il degrado progressivo delle istituzioni negli ultimi anni dei re spagnoli. Se non altro, non essendoci più il pugno di ferro del predecessore, era più accetto ai Siciliani. Ma il disordine cresceva. Il secondo dei suoi due Segretari violava le prerogative dei Tribunali, le violenze di ricchi e potenti erano tollerate, le cariche pubbliche messe in vendita. Forse, in tanto degrado, una luce fu la costituzione del “Porto Franco” a Messina, segno di volontà di ristoro, almeno da un punto di vista commerciale, rispetto alle recenti punizioni, ciò che attirò mercanti di varie nazionalità e, addirittura, vide la ricostruzione di una “Giudecca” a secoli di distanza dall’espulsione degli Ebrei.

L’ultimo viceré di Casa Asburgo, Colòn di Veraguas, un lontano discendente di Cristoforo Colombo, a parte una congiura tutto sommato irrilevante, capeggiata dallo speziale Francesco Ferrara, volta ancora a cacciare i re spagnoli e sterminare la nobiltà, non si distinse per altro se non per lo sfarzo delle feste barocche con cui intrattenne la vanagloria di una capitale decaduta.

Nel 1700 l’infelice Carlo II (di Spagna e di Sicilia), da sempre malato, muore all’età di soli 39 anni, senza lasciare eredi diretti. La Casa Asburgo di Spagna è estinta. Per la Sicilia e per l’intero impero spagnolo si apre una fase di grande incertezza. Carlo lasciava un testamento con cui proclamava erede il nipote Filippo, duca d’Angiò; nessuno in quel momento era più in grado di far valere il diritto, mai revocato in teoria, del Parlamento di Sicilia di deliberare la successione in caso di estinzione della dinastia regnante.

 

Cronologia politica:

1516-1556 Carlo I

Viceré:

1516 Ugo de Moncada

1516 Simone Ventimiglia, marchese di Geraci e Matteo Santapau, marchese di Licodia (Presidenti “rivoluzionari”)

1516-1517 Giovanni Vincenzo de Luna, conte di Caltabellotta (Presidente)

1517/18-1535 Ettore Pignatelli, conte di Monteleone (prima Luogotenente e poi Viceré), sostituito temporaneamente da: 1527-28 Enrico Cardona, arciv. di Morreale, presidente; 1535 Simone Ventimiglia, m.se di Geraci, presidente

1535-1546 Ferdinando Gonzaga, sostituito temporaneamente da: 1535-1537 Giovanni Moncada, gran giustiziere; 1538 Arnaldo Albertino, vescovo di Patti, presidente; 1539-1540 Giovanni d’Aragona Tagliavia, m.se di Terranova, presidente; 1541 Ambrogio Santapau, m.se di Licodia, presidente; 1541 Simone Ventimiglia, m.se di Geraci, presidente; 1542-1544 Alfonso de Cardona, c.te di Chiusa, presidente; 1544-1545 Giovanni d’Aragona Tagliavia, m.se di Terranova (di nuovo);
1546-1547 Ambrogio Santapau, m.se di Licodia, presidente (di nuovo)

1547-1556 Giovanni de Vega, sostituito temporaneamente dal figlio, 1550 e 1555, Ferdinando de Vega, presidente

1556-1598 Filippo I (II di Spagna)

Viceré:

1556-1557 Giovanni de Vega

1557 Card. Pietro d’Aragona, arciv. di Palermo, presidente

1557-1565 Giovanni della Cerda, duca di Medinaceli, sostituito temporaneamente da: 1558 Niccolò Maria Caracciolo, vesc. di Catania, presidente; 1559-1560 Ferdinando de Silva, m.se della Favara, presidente; 1565 Bartolomeo Sebastiano, vesc. di Patti , presidente

1565-1567 Garzia de Toledo, sostituito temporaneamente da: 1565 Bartolomeo Sebastiano, vesc. di Patti (di nuovo), presidente; 1565 Antonio Doria, presidente; 1566 Bartolomeo Sebastiano, vesc. di Patti (di nuovo), presidente

1567-1568 Carlo d’Aragona e Tagliavia, p.pe di Castelvetrano, presidente

1568-1571 Francesco Ferdinando Avalos de Aquino, m.se di Pescara, presidente

1571 Giuseppe Francesco Landriano, presidente

1571-1577 Carlo di Aragona e Tagliavia, p.pe di Castelvetrano, presidente (di nuovo)

1577-1584 Marco Antonio Colonna, duca di Tagliacozzo, sostituito temporaneamente da: 1582 Fabrizio Ruffo, conte di Sinopoli, presidente;

1584-1585 Giovanni Antonio Bisbal, c.te di Briatico, presidente

1585-1592 Diego Enriquez de Guzman, c.te di Albadalista

1592-1595 Arrigo de Guzman, conte di Olivares

1595-1598 Giovanni Ventimiglia, m.se di Geraci, presidente

1598 Bernardo de Cardines, duca di Macqueda

1598-1621 Filippo II (III di Spagna)

Viceré:

1598-1601 Bernardo de Cardines, duca di Macqueda (in continuità)

1601-1602 Giorgio de Cardines, presidente (figlio del precedente)

1602-1606 Lorenzo Suarez de Figueroa, duca di Feria

1606 Giovanni Ventimiglia, m.se di Geraci, presidente (di nuovo)

1606-1610 Giovanni Fernandez Paceco, m.se di Vigliena

1610-1611 Card. Giannettino Doria, arciv. di Palermo, luogotenente

1611-1616 Piero Giron, duca d’Ossuna

1616 Card. Giannettino Doria, arciv. di Palermo, luogotenente (di nuovo)

1616-1621 Francesco de Lemos, c.te di Castro

1621-1665 Filippo III (IV di Spagna)

Viceré:

1621-1624 Emanuele Filiberto di Savoia

1624-1626 Card. Giannettino Doria, arciv. di Palermo, luogotenente (di nuovo)

1626-1627Antonio Pimentel, m.se di Tavora

1627 Arrigo Pimentel, presidente (figlio del precedente)

1627-1632 Francesco Fernandez de la Cueva, duca di Albuquerque

1632-1635 Ferdinando Afan de Ribera, duca di Alcalà, luogotenente

1635-1639 Luigi Moncada, p.pe di Paternò, presidente

1639-1640 Francesco de Mello di Braganza, c.te di Assumar, temporaneamente sostituito da:1639 Card. Giannettino Doria, arciv. di Palermo, luogotenente (di nuovo)

1640-1641 Pietro Corsetto, vesc. di Cefalù, governatore

1641-1644 Giovanni Alfonso Henriquez de Cabrera, c.te di Modica

1644 Giovanni di Torresilla, arciv. di Morreale, presidente

1644-1647 Pietro Faxardo Zunica e Requesens, m.se de Los Velez

1647 Vincenzo Guzman, m.se di Monte Allegro, luogotenente

1647-1649 Card. Teodoro Trivulzio, luogotenente

1649-1651 Giovanni Asburgo “d’Austria”, sostituito temporaneamente da: 1650 Melchiorre Centelles, luogotenente; 1651 Antonio Bricel Ronchiglio, presidente;  1651 Martino de Leon, arciv. di Palermo, presidente

1651-1655 Rodrigo Mendoza Roxas e Sandoval, duca dell’Infantado

1655-1656 Giovanni Teglies de Giron, duca di Ossuna

1656 Mons. Francesco Gisulfo ed Osorio, vesc. di Cefalù, presidente

1656-1657 Fra Martino Redin, cavaliere di S.Giovanni di Malta, luogotenente

1657 Giovan Battista Ortiz d’Espinosa, presidente

1657-1660 Mons. Pietro Martinez Rubeo, luogotenente

1660-1663 Ferdinando d’Ayala, c.te di Ayala

1663-1665 Francesco Gaetano, duca di Sermoneta

1665-1700 Carlo II (sotta la reggenza della regina Marianna d’Austria fino al 1677)

Viceré:

1665-1667 Francesco Gaetano, duca di Sermoneta (in continuità)

1667-1670 Francesco Fernandez de la Cueva, duca di Albuquerque

1670-1674 Claudio Lamoraldo, p.pe di Ligny

1674 Francesco Bazan de Benavides, m.se di Baiona, viceré a interim

1674-1676 Federico Toledo ed Osorio, m.se di Villafranca

1676-1677 Aniello de Guzman, m.se di Castel Roderico

1677 Eleonora de Mora e Corte, reggente ad interim

1677-1678 Card. Ludovico Fernandez Portocarrero, luogotenente ad interim

1678 Vincenzo Gonzaga, p.pe del S.R.I. dei duchi di Mantova

1678-1687 Francesco de Bonavides, c.te di S.Stefano

1687-1696 Giovanni Francesco Paceco duca di Uzeda

1696-1700 Pietro Colon, duca di Veraguas

 

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